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13/05/2022

Festa della Vittoria a Minsk


Più volte su questo giornale abbiamo dato spazio ad approfondimenti sulla situazione politica, economica e sociale in Bielorussia, analizzandone attraverso uno sguardo attento le inevitabili contraddizioni e senza mai limitarci alla rappresentazione fatta dalla propaganda di media mainstream e politici occidentali.

Quelli che, ergendosi a “paladini della democrazia” a suon di “guerre umanitarie” e sanzioni, bollano la Bielorussia come “ultima dittatura d’Europa”, rendendo immediata la contrapposizione con l’idea di un’Unione Europea di “pace, democrazia e giustizia”.

Ma la realtà è complessa e articolata, difficilmente riducibile ad un’etichetta, ancor di più per un paese e una popolazione intimamente legati alla loro storia, alla resistenza contro il nazifascismo e alla lotta per costruire un’alternativa alla barbarie neoliberista occidentale.

Da un lato si vuole manipolare o addirittura cancellare la storia – basti pensare ai rovesciamenti sui valori e sulla lotta della resistenza partigiana associata all’esercito ucraino e ai suoi battaglioni di nazisti – mentre dall’altro si vuole impedire di conoscere l’attualità dei fatti, inondando giornali e televisioni con narrazioni alle volte fantasiose e rocambolesche.

Di seguito, riportiamo il racconto di Lorenzo Trapani che, in occasione delle celebrazioni dell’8 e del 9 maggio per la vittoria sul nazifascismo, ha partecipato alla delegazione internazionale “Nikolai Gastello” che si è recata a Minsk.

Una cronaca diretta basata sull’osservazione della realtà sociale bielorussa che, proprio in quei giorni, esprime tutto il suo portato storico e politico, piuttosto che celebrare una ricorrenza.

*****

Avevo deciso di scrivere quest’articolo a mo’ di diario di viaggio, in cui appuntarmi le cose importanti. In realtà, devo ammettere che il risultato è piuttosto la sistematizzazione di qualche nota presa nei 4 giorni di permanenza in Bielorussia, durante la Brigata internazionale a cui ho avuto la fortuna di prender parte.

Non ho riportato tutto ciò che ho fatto, sarebbe lungo e improponibile. Mancano tante visite, tanti dettagli. Compaiono però delle situazioni e delle emozioni ad esse collegate, che ritengo sia importante trasmettere, o almeno provarci.

Innanzitutto bisogna fare le presentazioni, perché la Bielorussia viene rappresentata come un paese dalle tinte fosche, opprimenti, ma poi – lasciando da parte la propaganda spicciola – in pochi alle nostre latitudini possono dire di conoscere qualcosa di questo grande Stato slavo.

La Bielorussia ti accoglie con mille foreste di betulle e tanti villaggi fatti da casette a un piano, in legno, dipinte di ogni colore. Il cielo è di quelli continentali, altissimo. Se in inverno si ricopre di metri di neve, in maggio noi siamo stati salutati dal verde dei campi, dei tanti alberi e dai nidi delle cicogne tra un abitato e l’altro. Nelle campagne si respira tranquillità ed equilibrio; tutto questo non vuol dire immobilità o povertà, come saremmo troppo facilmente portati a pensare.

Entriamo nel paese, prendiamo due autobus, ci godiamo il paesaggio e in qualche ora arriviamo a Minsk. E si resta basiti: la capitale dell’”ultima dittatura d’Europa”, come amano definirla i partitari della libertà in Occidente, è immensa, splendida, pulitissima – diciamolo chiaramente, le città italiane a confronto sono una discarica –, nessun edificio che presenti anche solo della ruggine, neanche in periferia.

Una città piena di verde e molto areata, a dimensione d’uomo nonostante le dimensioni di una metropoli. L’architettura alterna i vari stili sovietici, imponenti, a casette del 1600, che riprendono lo stile russo imperiale classico.

È piena di giovani, universitari e lavoratori; ha un traffico per nulla caotico, quasi pacato, rispettoso degli abitanti e di tutti i suoni della città. Non è la città dei sogni, ma certamente una città in cui si vive molto bene.

Una delle caratteristiche che colpiscono quando si arriva nei centri urbani bielorussi è la quasi assenza di pubblicità. Non è che non ci sia, intendiamoci, ci sono tanti McDonald’s e Intimissimi e ogni sorta di grande marca, ci sono insegne di ogni colore; ma si nota subito che non è una pubblicità invasiva come da noi: se vuoi, i tuoi occhi possono evitarla.

Non mi dilungo oltre nelle descrizioni generali, anche se ci sarebbe tanto da dire. Perché questo viaggio è stato una delegazione politica per i festeggiamenti dell’8 e 9 maggio, non una presentazione di un’agenzia turistica.

Gli impegni “istituzionali” iniziano la mattina dell’8 maggio, al grande raduno della Festa della Bandiera, in un immenso spazio tra il modernissimo Palazzo presidenziale e la Fiera della città.

Noto anche che un altro palazzo è in costruzione a lato della piazza, un cantiere enorme che lascia immaginare le dimensioni dell’edificio, una volta che sarà completato. Chiedo alla nostra guida di cosa si tratti: si stanno ultimando i lavori per la nuova ambasciata di Cina.

Poco prima del discorso del Presidente della Repubblica veniamo accolti dal vice–sindaco di Minsk, che ci ringrazia per la nostra presenza internazionalista e ci spiega il valore del 9 maggio. Veniamo a sapere che la Festa della Liberazione è in realtà il 3 luglio, festività che ha gli stessi contorni del nostro 25 aprile, il giorno in cui la Bielorussia si è liberata dall’invasione nazifascista.

Il 9 maggio è invece la Festa della Vittoria, una festa della tradizione sovietica che è presente in molte delle Repubbliche nate dal collasso dell’URSS, almeno quelle che non sono cadute sotto l’ombrello della NATO. Un giorno pensato per unire i popoli, voluto per celebrare la lotta della libertà contro la barbarie che veniva dall’Europa centrale.

Alla Festa della Bandiera l’età è mediamente piuttosto bassa, essendo importante il lavoro delle molte associazioni scolastiche e giovanili. Ma sono presenti anche la forze armate e civili, la polizia, il servizio per le emergenze, l’esercito. Tutti hanno appuntato sul petto il simbolo della festa, un fiore di melo, che proprio in questo periodo comincia a fiorire, unito ai colori della bandiera nazionale.

Il discorso del Presidente ruota quest’anno proprio attorno all’importanza della bandiera nazionale, mantenuta nonostante la proposta di cambiamento da parte dell’opposizione. La questione è semplice: la bandiera nazionale è uno dei più importanti simboli dello Stato, simbolo della storia e della tradizione di un popolo.

Non a un caso in Ucraina, dove il nazismo è riemerso in forze, si procede a cancellare la storia dei nostri avi anche e proprio tramite la distruzione dei simboli e delle feste dello Stato. Un concetto da fare rilevare forse a chi, alle nostre latitudini, durante il concerto del 1 maggio a Roma, si è “dimenticato” che sono stati i governi ucraini del golpe di Maïdan a proibire questa (e altre) festa.

Il discorso di Lukashenko ha voluto parlare al popolo, rassicurandolo contro le ingerenze straniere e inaugurando un processo di modifica costituzionale in cui le richieste popolari siano al centro del dibattito. In questo senso è bene chiarire quel che ci è stato detto da innumerevoli persone, a partire dalle nostre guide: è vero che in tanti sono scesi in strada durante le proteste dell’anno scorso (e i paladini dei diritti umani negati sappiano che tutti lo dichiarano senza aver paura di finire in galera…), ma nessuno – o quasi – ha mai avuto intenzione di “rovesciare il regime”.

Questa è propaganda occidentale, che però evidentemente fa acqua da tutte le parti, perché cade nell’errore, decisamente intenzionale, di scambiare proteste “naturali” in un paese – è strutturale che ci sia una parte che sta all’opposizione, in ogni Stato è così, ma soprattutto il concetto stesso di opposizione sta alla base della forma di regime democratico – con la richiesta di un golpe supportato dall’estero, guarda caso sempre dal libero Occidente.

Quello che invece noi abbiamo riscontrato è piuttosto un forte attaccamento allo Stato, una grande consapevolezza delle conseguenze delle sanzioni occidentali – se oggi i bielorussi non possono uscire dal paese non è per colpa del governo, ma perché noi non rilasciamo il visto neanche per il nuovo ambasciatore in Italia – e una partecipazione alla vita pubblica che, nel pomeriggio dell’8 e soprattutto durante tutta la giornata del 9 maggio, ci ha sorpreso.

Va detto che la Bielorussia è piena di “luoghi del ricordo” della Grande guerra patriottica e della Resistenza contro l’invasore nazifascista. Il pomeriggio dell’8 maggio ne abbiamo visitati alcuni.

Innanzitutto ci siamo recati al monumento per Nikolai Gastello, ebreo sovietico che il 26 giugno 1941, durante l’occupazione nazista, è stato il primo aviatore in Bielorussia che decise di sacrificare la vita per distruggere una colonna nemica, schiantandocisi contro dopo essere rimasto senza munizioni. Un esempio per i molti partigiani che hanno combattuto contro l’invasore e anche colui a cui abbiamo deciso di dedicare la Brigata internazionalista partita per la Bielorussia.

Particolarmente commuovente è stata invece la visita al villaggio di Khatyn, a una cinquantina di chilometri dalla capitale. Il villaggio, che non è mai stato ricostruito dopo l’eccidio in cui morirono 149 persone, è stato bruciato il 22 marzo 1943 per rappresaglia da polacchi, banderisti, collaborazionisti bielorussi e russi, dopo un attacco partigiano agli occupanti nazisti.

Il memoriale è rimasto il simbolo degli oltre 9.000 villaggi bruciati, di cui 186 mai più ricostruiti, diventando un vero “cimitero dei villaggi martiri” di Bielorussia, ospitando migliaia di capsule che raccolgono la terra di questi villaggi.

Questo spazio per la memoria, per il ricordo delle sofferenze patite dalla collettività sovietica, per il ricordo dell’odio barbaro del fascismo, un odio che rispunta oggi violentemente nella storia europea e che distrugge i popoli, è sentito con forza: migliaia di persone questo pomeriggio era lì con noi, macchine di famiglie con bambini, giovani coppie in motorino, gruppi di pensionati e di liceali con il gelato, tutti a passeggiare per non dimenticare. Potevano scegliere uno dei tanti giardini pubblici di Minsk, invece hanno scelto questo luogo di potente evocazione.

Tutta la nazione bielorussa ha festeggiato, in ogni città e ogni paese, la propria indipendenza e la propria autodeterminazione, in un percorso che certamente non è esente da errori enormi e contraddizioni profonde, ma che riconosce con nettezza i partigiani che combatterono e combattono contro la barbarie del fascismo e dello sfruttamento dei popoli.

Il giorno seguente, 9 maggio, è stato teatro di una festa che chi scrive difficilmente poteva immaginare prima di vederla con i propri occhi. Una situazione che non è propria solo della Bielorussia, ma che sembra una caratteristica di quei paesi che, nelle tante contraddizioni, nelle difficoltà e negli sbagli, cercano una strada diversa dal capitalismo neoliberista. Abbiamo visto più di un milione di persone in piazza per il corteo, una manifestazione vera, una partecipazione totale.

Un aspetto che salta all’occhio è il fatto che tutti – tutti! – tengono in mano foto o ritratti dei propri martiri della famiglia, uomini e donne che sono rimasti uccisi nel corso delle guerre passate e di quella in Donbass attuale.

Ecco apparire una foto degli anni ‘40 insieme a un’altra scattata nei giorni del massacro di Odessa; ecco un’anzianissima signora mostrare suo marito scomparso in Afghanistan e una ragazza tenere alta la foto dello zio. Ognuno ha i propri morti ed i morti sono di tutti, perché esiste un piano pubblico che vince su quello privato.

Da 8 anni in Donbass i soldati di questa parte vengono crocifissi e bruciati vivi, senza pietà, dai fascisti ucraini; la popolazione lo sa, ne è cosciente. La critica facile che in tanti vorrebbero gridare, quella per cui in un regime autoritario l’informazione è solo propaganda del dittatore e che “i giornalisti vengono messi in prigione” se raccontano la sofferenza della popolazione sottomessa, non può trovare spazio, per una semplice ragione: qui la Storia “è di tutti”.

Ogni famiglia ha i suoi combattenti, in ogni famiglia qualcuno lavora nella pubblica amministrazione, in polizia, nel servizio civile. Ai bielorussi non serve accendere il televisore per sapere cosa succede nei teatri di guerra.

Lo sanno perché glielo racconta il padre o la sorella o il vicino di casa, che lì o su altri campi affrontano le sfide per tutti. Che si tratti di ridipingere i segnali stradali per terra dopo la pesante neve dell’inverno, o che si porti sostegno nei teatri di combattimento, o che si presti servizio in qualità di interprete e traduttrice per le delegazioni straniere in visita al paese – com’è stato il caso della nostra guida – è la funzione collettiva e pubblica a contare: tutti questi sono “servizi alla nazione”, dare il proprio contributo per il suo sviluppo.

Qualcosa che noi, nell’ovatta del mondo borghese, nel freddo delle nostre stanze chiuse dove scriviamo su Facebook, non riusciamo più neanche ad immaginare. Ed è importante chiarire un punto: anche in Bielorussia ci sono i social network, anche lì la gente guarda le foto su Instagram; ma la differenza è che non c’è solo quello.

Il discorso del presidente è sempre al plurale, si concentra sullo scontro che l’Occidente ha ingaggiato contro tutti i popoli del mondo, si schiera contro il terrorismo della NATO, ricorda i crimini degli americani nel mondo, le provocazioni dell’oggi, dichiara senza esitazione fedeltà al campo russo nello scontro in atto in Ucraina e chiama alla lotta contro contro le bugie riservate “all’ultima dittatura d’Europa”.

Una piccola parentesi rispetto a questa definizione, che non mi aspettavo: in Bielorussia il fatto di essere considerati come “l’ultima dittatura d’Europa” viene detto molto tranquillamente, quasi ridendo. É un’espressione che può trovarsi in un discorso presidenziale o tra le risate di un bar.

Credo sia bene sottolineare questo punto perché in questo caso è evidente lo scontro ideologico in campo: quello che da noi è considerato un popolo povero, sottomesso, privato della libertà, ci rigira la frittata e, capace di allargare lo sguardo dalla vecchia Europa verso il mondo intero – cosa che per noi è decisamente difficile – ci ricorda che sono loro che si battono in tutto il mondo contro l’imperialismo occidentale, contro lo strapotere del capitale, per la libertà dei popoli.

Insomma, siamo noi ad aver bisogno di loro, non il contrario, con buona pace di tutte le organizzazioni per il rispetto dei diritti umani.

Nel momento delle salve di cannoni, alla fine del discorso presidenziale, inizia un’ovazione di popolo che assorda, i militari sull’attenti, i bambini che urlano gioiosi tra le braccia dei parenti, migliaia di bandiere alte in cielo.

La Bielorussia si presenta come un paese estremamente legato alla propria storia. Infatti, i maestri non sono dimenticati, Lenin e Stalin sono ovunque, anche sul palco principale, proprio accanto alla fiamma eterna, verso cui ognuno guarda gridando “Viva la patria! Onore alla patria!”. Questo popolo ha visto l’URSS e se ne ricorda bene.

Una festa di popolo degna di un racconto di altre epoche, soprattutto per un mondo come il nostro, estremamente atomizzato, somma di solitudini che si sfiorano ma non si uniscono. Tutta la città ha preso parte ad un raduno grandioso, in cui si sono mangiati spiedini tipici e si è giocato con i soldati, con i musei aperti e gratuiti per tutte e tutti, code enormi per entrarvi, dimostrazioni militari e civili per ogni età, trasporti gratuiti e mille concerti in più parti della capitale.

Chissà, forse al lettore occidentale queste parole sembreranno vuote, misera retorica di un’autocrazia che ancora si permette di resistere alla democrazia made in USA e UE e alla pax atlantica. Ma forse dovremmo svegliarci da questo sonno incantato e pericoloso in cui dormiamo: i popoli del mondo non si possono plasmare a piacimento col nostro stampino.

Ci sono popoli a ogni latitudine che non si piegano, che sbagliano, che continueranno a sbagliare, che cercano di inventare nuove formule o di riadattare alcune vecchie. Ma non accetteranno mai il ruolo scritto per loro nel misero copione della follia capitalista. Sarà bene rendersene conto alla svelta.

Non sono i popoli del mondo ad avere bisogno dell’aiuto dell’Occidente; sono i popoli dell’Occidente ad aver bisogno dell’aiuto dei popoli del Mondo.

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