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08/07/2022

Intervento sovietico in Afghanistan e fine dell’URSS: causa-effetto o coincidenza temporale?

Pubblichiamo la versione scritta dell’intervento di Fabrizio Poggi al dibattito pubblico: “Unione Sovietica: una storia che nessuno vi ha raccontato. URSS-Afghanistan (1979-1991): la vera storia attraverso i documenti inediti”, svoltosi venerdì 1° Luglio alla Casa della Pace a Roma all’interno del Meeting della Rete dei Comunisti.

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Tra il 15 febbraio 1989, con il ritiro degli ultimi reparti sovietici dall’Afghanistan, e il 25 dicembre 1991, con la bandiera sovietica ammainata sul Cremlino e sostituita con il tricolore russo, passano meno di tre anni.

Di fronte all’ipotesi che possa parlarsi di una determinata causalità, tra i circa dieci anni durante i quali la 40° Armata sovietica era stata impegnata in Afghanistan, a difendere la Rivoluzione d’aprile dagli attacchi dei mujaheddin e, dunque, di logoramento politico dei vertici politici di Mosca e crescente distacco da essi della società sovietica, pare lecito porsi la domanda se tale ipotesi sia o meno verosimile.

Per parte nostra nutriamo più di un dubbio che possa stabilirsi un nesso causale diretto tra i due momenti. Riteniamo possa parlarsi di influenza, di fattore – uno tra molti altri – maturato in un periodo in cui, però, altri elementi, alcuni di ben più lontana origine, si erano sommati e amalgamati, portando al risultato cui molti soggetti, esterni e interni all’Unione Sovietica, lavoravano da decenni.

Detto questo, è il caso di ricordare che alcuni storici russi contemporanei sostengono addirittura che “qualcuno” abbia deliberatamente inquinato le informazioni, per spingere i vertici sovietici all’intervento, quale terreno in cui far “impantanare” l’URSS.

Gli stessi storici (per tutti: Evgenij Spitsyn, Aleksandr Kolpakidi, ecc.) sostengono che l’intervento, nel 1979, sia stato un errore, ma un errore molto più grave sia stato quello del ritiro nel 1989. E, però, essi non parlano mai di nessi causali.

A nostro parere – quantunque ogni paragone storico sia sempre quantomeno arbitrario – l’ipotesi che il decennale intervento in Afghanistan, pur con i quindicimila morti tra i soldati sovietici, le decine di migliaia di feriti e le sofferenze delle loro famiglie, abbia portato al crollo (ma i comunisti russi, di qualunque “sfumatura”, respingono assolutamente la categoria di “crollo” e precisano sempre si sia trattato di una consapevole e mirata distruzione) dell’URSS, potrebbe essere agevolmente contestata, guardando al diverso epilogo seguito alla ben più devastante Grande guerra patriottica, coi ventisette milioni di morti sovietici, le migliaia di città e centri industriali rasi al suolo e le decine di migliaia di villaggi cancellati.

Ebbene, dopo quella guerra di sterminio, che anche allora rispondeva all’obiettivo occidentale di distruggere l’Unione Sovietica servendosi delle armate naziste, l’URSS si riprese in relativamente breve tempo e già a inizi anni ’50 aveva raggiunto i livelli d’anteguerra.

Dunque, a grandi linee, per quanto riguarda “intervento in Afghanistan-fine dell’URSS”, può forse parlarsi di coincidenza temporale, per di più in legame con altre problematiche in corso da tempo, quali, ad esempio, il crescente impegno per fronteggiare il forte riarmo degli Stati Uniti.

Un impegno che si traduceva in maggiori risorse da destinare all’industria militare, a scapito dell’industria leggera, anche se la questione meriterebbe un approfondimento, per verificare quanto il cosiddetto deficit di prodotti di uso quotidiano, che avrebbe provocato un crescente malessere sociale, fosse davvero dovuto allo squilibrio produttivo o, quantomeno, solo a quello.

Inoltre, si parla spesso delle forti oscillazioni, in particolare negli anni ’70, dei prezzi del petrolio, saliti in occasione delle crisi del 1973 e del 1978 e poi caduti agli inizi degli anni ’80; ma, anche in questo caso, c’è da dire che la componente delle entrate da prodotti energetici nella formazione del Prodotto nazionale lordo sovietico, non aveva quel peso che ha poi assunto nel bilancio della Russia post-sovietica.

C’era la questione del gas: quella che oggi ha preso il nome dal raddoppio del gasdotto “North stream” e che negli anni ’80 veniva definita “questione gas-tubi”, considerata a Washington una minaccia all’unità della NATO e con l’amministrazione Reagan impegnata a dissuadere i governi europei dal mantenere gli impegni contrattuali con Mosca, sia per le forniture di “gas siberiano”, che per la posa delle tubature, a vantaggio di importazioni di petrolio fornite da società arabo-statunitensi.

Tra parentesi: all’epoca, vari paesi europei (in particolare Germania, Francia, Olanda) non risposero “signorsì” agli ordini d’oltreoceano, mentre la maggioranza di governo italiana impose una “pausa di riflessione” all’ENI, che aveva concluso un contratto con la SojuzGazEksport sovietica per la fornitura di una ridotta quantità di gas.

Come scriveva la rivista Novoe Vremja (Tempi Nuovi: all’epoca era pubblicata anche un’edizione in lingua italiana, che arrivava solo su abbonamento e andava a ruba tra i cosiddetti “scontenti del PCI”) nel settembre 1982, «I governi europei occidentali hanno respinto la richiesta di Washington di rinunciare agli impegni assunti e hanno autorizzato le ditte a continuare le forniture per realizzare il gasdotto siberiano, anche per articoli prodotti su licenza americana».

Ancora una questione che coincise temporalmente e assunse dimensioni e caratteri via via più pericolosi fu quella dell’erompere dei nazionalismi e delle spinte separatiste in varie regioni dell’URSS. Per la verità, il vero “manifestarsi” del problema si ebbe proprio sul finire dell’esperienza sovietica e assunse caratteri “esplosivi” dopo il 1991, anche sulla scia del famigerato appello lanciato da Boris Eltsin «prendetevi quanta più autonomia potete», che a lui serviva per proclamare la “supremazia della legge russa su quella sovietica” e dare “legittimazione” al piano di estraneazione della Russia dall’URSS, che sarebbe poi culminato nel banditesco complotto del 8 dicembre 1991 tra lui, l’ucraino Leonid Kravčuk e il bielorusso Stanislav Šuškevič.

Ma, ad esempio, già nel 1990 il parlamento ucraino aveva adottato la “Dichiarazione sulla sovranità statale dell’Ucraina” e il 24 agosto 1991 la Rada adottava la “Dichiarazione di Indipendenza dell’Ucraina”.

Per inciso, al II Congresso dei deputati del popolo dell’URSS, nel dicembre 1989, il cosiddetto “architetto delle perestrojka”, il vero “motore ideologico” delle scelte di Gorbačëv, ovvero Aleksandr Jakovlev, (ex ambasciatore sovietico in Canada dal 1973 al 1983: proprio in quel periodo, affermano oggi storici e pubblicisti russi, sarebbe stato “zaverbovan”, reclutato dalla CIA) sollevò la questione dei cosiddetti “protocolli segreti” (da sessant’anni ritornello della “storiografia” liberale, ma nessuno ha mai visto gli originali) che sarebbero stati allegati al Trattato di non aggressione sovietico-tedesco del 23 agosto 1939, in base ai quali, secondo la consolidata vulgata occidentale, l’URSS avrebbe “occupato” vari territori (Ucraina e Bielorussia occidentali, Bessarabia, ecc.) comprese le Repubbliche baltiche.

Se da un lato, l’uscita di Jakovlev serviva all’ennesimo tentativo di gettare fango sulla storia sovietica, dall’altro, e ben più importante nell’immediato, offriva a Estonia, Lettonia e Lituania l’occasione per agitare la questione della loro separazione dall’URSS, come rivalsa per la presunta occupazione staliniana.

Da lì alla creazione dei vari “fronti nazionali” separatisti, “Sajudis”, “Ruh”, ecc. non rimanevano che pochi mesi.

Come scriveva ancora Novoe Vremja nel giugno 1984, «Nel bagaglio ideologico dell’odierno anticomunismo la teoria della “disgregazione del socialismo” viene strettamente collegata a quella della “rinascita del nazionalismo”. Così Zbigniew Brzezinski... sottolinea che il nazionalismo dev’essere trasformato nello strumento principale della lotta contro il socialismo».

E ancora: «I sovietologi borghesi propagandano un “nazionalismo socialista” da essi stessi inventato, avanzano l’idea della “rinascita” delle religioni, particolarmente dell’Islam», così che «autori inglesi e tedesco-occidentali» sostengono che «il nazionalismo nell’URSS rappresenta una forza che ha profonde radici e una possente carica emozionale… Come ha dichiarato già alla metà degli anni ’60 il sociologo americano Walt Rostow, il compito principale della propaganda occidentale indirizzata ai paesi socialisti è la “diffusione di umori nazionalistici all’interno del blocco comunista”».

D’altronde, i disegni occidentali non vagavano nel vuoto. Oltre al nazionalismo e agli umori separatisti che hanno continuato ad agitare soprattutto Caucaso e Baltici per buona parte della storia sovietica, è interessante ricordare la vicenda ucraina, anche per la sua stretta attualità.

Senza andare troppo indietro nel tempo, all’epoca della cosiddetta “ucrainizzazione” staliniana, che aveva l’obiettivo di indirizzare su binari sovietici l’indubbio nazionalismo di larga parte delle masse contadine ucraine, è il caso di ricordare come non tanto Lenin, Stalin e i bolscevichi, con la loro politica nazionale, avessero piazzato «una mina a scoppio ritardato sotto l’edificio chiamato Russia» (Vladimir Putin), quanto la politica dei loro epigoni avesse rimesso in campo i più reazionari nazionalisti, non solo ucraini.

Il politologo russo Aleksej Baliev scriveva nel 2017 che la cosiddetta “seconda ondata di ucrainizzazione” (la prima sarebbe quella degli anni ’30) abbia servito, nei fatti, da alimento alla rinascita del nazionalismo ucraino e ricordava come sin da metà anni ’50 i nazionalisti ucraini e i collaborazionisti si fossero infiltrati nella leadership, prima dell’Ucraina occidentale, poi dell’intera RSS ucraina.

L’amnistia del 1955 concessa ad alcune decine di migliaia di complici degli invasori, scriveva Baliev, aprì le porte alla “naturalizzazione” sociale e politica dei membri del OUN filo-nazista, che entrarono nelle strutture del Komsomol e del Partito.

Negli anni ’70, tra i dirigenti regionali e distrettuali dell’Ucraina occidentale, centrale e sud-occidentale, in Ministeri e imprese, Komsomol e organizzazioni sociali ucraine, c’erano almeno un terzo dei nazionalisti amnistiati nel 1955-1959.

Alla riunione del Politbjuro del CC del PCUS del 21 ottobre 1965, fu addirittura l’allora Segretario del PC ucraino, Pëtr Šelest (uomo di Khruščëv) a proporre di discutere la concessione all’Ucraina del diritto al commercio estero indipendente.

Se il progetto fosse passato, sarebbe stato seguito da richieste simili da parte delle repubbliche baltiche e transcaucasiche. In quell’occasione, Mosca respinse la richiesta ucraina.

Lo storico Evgenij Spitsyn, nel suo libro “La melma khruščëviana”, parla anche del caso clamoroso dell’amnistia concessa a Vasilij Kuk, dal 1950 successore di Roman Šukhevič a capo di OUN(b) e UPA «in terra ucraina».

Scontati appena 6 anni di prigione, scrive Spitsyn, Kuk non solo tornò a Kiev, ma si dedicò tranquillamente al lavoro scientifico all’Archivio storico centrale di Stato e all’Istituto di storia dell’Accademia delle scienze dell’URSS.

Di più: quasi l’intero vertice di partito e statale della RSS ucraina, incluso il Primo segretario del CC del KPU, Pëtr Efimovič Šelest, considerava un onore far visita segretamente a questa «figura del movimento di liberazione ucraino».

In quel periodo, si riversò nell’apparato del CC del KPU e del Consiglio dei Ministri ucraino una massa di funzionari provenienti dalle regioni dell’Ucraina occidentale, compreso il futuro primo presidente della “nezaležnosti” Leonid Makarovič Kravčuk, che nel 1970 divenne capo del settore Agitprop del CC del KPU.

Così che si rivelò profetico, scrive Spitsyn, il lascito di uno dei capi regionali del OUN a L’vov, Vasilij Zastavnyj: «È terminato il periodo di lotta con pistole e mitragliatrici... Il nostro obiettivo è quello di penetrare in tutti i posti possibili, essere quanto più alla guida di industria, trasporti, istruzione, alla guida dei giovani, per instillare nei giovani tutto ciò che è nazionale».

E c’è da considerare anche un altro momento: esponenti di dipartimenti diversi delle amministrazioni USA hanno parlato (ma non è escluso che lo abbiano fatto per attribuire agli Stati Uniti “meriti” quantomeno dubbi) di “tradimento”.

L’ex Segretario di Stato James Baker (quello che disse a Gorbačëv che la NATO non si sarebbe spostata di un pollice verso est, in cambio del consenso alla cosiddetta “riunificazione” tedesca) alcuni anni dopo il 1991 affermò: «Negli ultimi 40 anni abbiamo speso trilioni di dollari per ottenere la vittoria nella guerra fredda contro l’URSS. La cosa principale: si trovarono i traditori».

Così anche Lindon Larush: «In Unione Sovietica ci sono persone che non possono essere qualificate in altro modo che come traditori dell’Unione Sovietica. Esse sono legate alla Gran Bretagna. La maggior parte di loro ha studiato in Inghilterra. Da metà anni ’80 sono state addestrate dall’intelligence inglese. Oggi essi occupano posti chiave in Russia».

In un certo senso, l’associare la categoria del “tradimento” al momento del ritiro sovietico dall’Afghanistan, funge più che altro da “specchio” della fine del ruolo internazionalista e antimperialista dell’URSS: lo storico russo Aleksandr Kolpakidi, specializzato nella storia dei Servizi segreti, ha rilevato come il ruolo di “traditore” si adatti bene a Mikhail Gorbačëv, in particolare per le vicende della “riunificazione” tedesca, della fine di Nicolae Ceaușescu in Romania, dell’abbandono di Najib in Afghanistan.

Con l’unica eccezione di Cuba: secondo Kolpakidi, i Servizi cubani sarebbero riusciti a neutralizzare in tempo la “quinta colonna” gorbačëviana sull’isola. Il solito Brzezinski si era spinto a dire che Mikhail Sergeevič e Raisa Maksimovna (Gorbačëv e consorte) fossero addirittura stati “arruolati” dalla CIA nel 1966.

Ora, chi siano stati i “traditori” e come abbiano agito è questione aperta e noi non azzardiamo affermazioni assolute, limitandoci a fornire alcuni spunti. Il primo dei quali è rappresentato dalla domanda se, allorché si parla di crollo o disgregazione dell’Unione Sovietica, ci si riferisca all’URSS in quanto spazio politico-geografico, oppure quale ordinamento/formazione economico-sociale socialista.

Nel primo caso, è facile ricordare come anche Vladimir Putin parli della fine dell’URSS come della «più grande tragedia» della storia moderna e accusi Lenin e i bolscevichi di aver condannato il paese al crollo, sin dall’inizio della sua esistenza, con le loro teorie sulla autodeterminazione dei popoli. Ma, sappiamo che non è così; e Putin non qualifica altrettanto di “grande tragedia” la fine dell’ordine socialista.

In un’intervista del giugno 1999, il filosofo Aleksandr Zinov’ev, comunista sui generis, espulso dall’URSS nel 1976 e rientrato dopo dodici anni di “confino” all’estero, affermava che «il sistema sovietico è crollato non in forza di precarietà interne. È una sciocchezza… Si è trattato di una grandiosa operazione diversiva occidentale… E l’operazione conclusiva di tale diversione fu l’installazione di Gorbačëv al posto di Segretario generale. Si trattò di diversione. Egli non fu eletto, ma proprio installato e tutta l’attività di Gorbačëv e poi di El’tsin è stata un’attività di traditori. Essi distrussero l’apparato di partito, il partito, l’apparato statale».

A questo proposito, ancora lo storico Spitsyn sostiene che il solito Aleksandr Jakovlev, riuscì a servirsi del perno fondamentale del Partito bolscevico, cioè il centralismo democratico, per distruggere il partito stesso: il vertice gorbačëviano adottava a maggioranza decisioni che, in base al centralismo democratico, tutte le strutture del partito, fino alla base, erano tenute a eseguire.

Così, ad esempio, in vista della stesura del nuovo trattato dell’Unione, che 9 delle 15 Repubbliche sovietiche avrebbero dovuto sottoscrivere il 20 agosto 1991, si parlò con insistenza di presunte richieste di maggior autonomia da parte delle regioni, quando in realtà la direttiva in quel senso arrivava dal Centro.

Dando uno sguardo al quadro internazionale del decennio che va da fine anni ’70 al 1991, quello che molti osservatori dell’epoca, non solo in URSS, mettevano in rilievo era la fine della cosiddetta “sindrome del Viet Nam” e la ripresa, con l’amministrazione Carter, della spinta aggressiva statunitense, con la campagna per l’aumento delle spese militari.

Tralasciamo qui di esaminare la secolare russofobia britannica e anche i tentativi anglosassoni, sin dal 1917 e poi alla vigilia della Seconda guerra mondiale, durante e dopo di essa (piani anglo-francesi nel 1940 per bombardare i pozzi petroliferi di Groznyj e per inviare un corpo di spedizione a dar man forte alla Finlandia; colloqui tedesco-americani per una pace separata; piano “Impensabile”, per attaccare l’URSS a guerra appena conclusa; piano “Totality” USA per il bombardamento nucleare delle maggiori città sovietiche; piani CIA nel 1957 per intervenire in Ucraina, appoggiandosi sui banderisti amnistiati da Khruščëv; ecc.) di venire a capo del pericolo che l’esistenza stessa dell’URSS costituiva per il sistema capitalista, e ci limitiamo a ricordare per sommi capi le vicende più significative del periodo.

Nel gennaio 1982, sulla Monthly Review, Noam Chomsky ricordava come la cosiddetta “Grand Area Planning” statunitense rappresentasse l’area “strategicamente necessaria per controllare il mondo”; e il “War and peace program” stabiliva che l’area strategicamente necessaria al controllo mondiale includesse al minimo l’intero emisfero occidentale, il vecchio impero britannico e il sudest asiatico; al massimo, l’intero universo.

Passando per le diverse fasi strategiche USA – le formule di Truman sul contenimento del comunismo e di Eisenhower sul rigetto del comunismo; deterrenza; prevenzione; mutual assured destruction; ecc. – si arrivava al 1979, con la decisione sull’installazione di missili statunitensi Pershing e Tomahawk in Europa occidentale, in particolare in RFT e Italia.

Se l’amministrazione Carter, nella sua contrapposizione all’URSS, aveva scelto come “arma ideologica” quella dei cosiddetti “diritti umani”, andando contemporaneamente a un generale riarmo, la vera svolta sul piano militare si ha con Ronald Reagan e la sua “teoria” sulla possibilità di combattere una guerra nucleare “limitata” in Europa, unita ai piani del Pentagono su un eventuale conflitto atomico prolungato con l’URSS: «prepararsi a combattere e vincere una guerra nucleare».

In Russia si ricorda oggi come la dirigenza sovietica avesse reagito con scetticismo, a metà anni ’70, alle informazioni dell’intelligence sul cosiddetto “Progetto Harvard” USA, elaborato ai primi anni ’50, per distruggere dall’interno l’Unione Sovietica in tre tappe: “Perestrojka, Riforme, Conclusione”. Uno scetticismo, a quanto pare, mal riposto.

Tra fine anni ’70 e inizi ’80, il lavorio della CIA trova sbocco in particolare in Polonia, scelta quale poligono per l’attacco al campo socialista, importanti tasselli del quale furono l’ascesa al soglio papale del polacco Karol Wojtyła nell’ottobre 1978 e poi l’avvio degli scioperi ai cantieri Danzica, guidati da “Solidarność“, il cui capo, Lech Wałęsa, era (ormai è ufficialmente riconosciuto) una ben addestrata pedina della CIA.

Dopo una serie di avvicendamenti ai vertici polacchi, nell’ottobre 1981 diventa capo dello stato il generale Wojciech Jaruzelski, che a dicembre impone la legge marziale, per far fronte alla crescente sommossa antisocialista.

Tra parentesi, fu in quell’occasione che si ebbe il famoso “scambio di vedute” tra PCI e PCUS a proposito di “democrazia e socialismo”, con botta e risposta, nei primi mesi del 1982, tra Kommunist, l’Unità, Pravda, Rinascita, ecc.

È sempre nel 1981 che, in due diversi vertici NATO a Bruxelles (Ministri della difesa) e Roma (Ministri degli esteri) si pone l’accento su Operazioni militari da prevedere fuori dai confini dell’Alleanza atlantica, mentre gli Stati Uniti non ratificano l’accordo “Salt 2” già firmato nel 1979 da Leonid Brežnev e Jimmy Carter.

È in quel periodo che in Italia, con un socialista (Lelio Lagorio) al Ministero della difesa, la spesa militare italiana passa dai poco meno di 6.000 miliardi di lire del 1980, agli oltre 11.000 del 1983 e lo stesso Lagorio teorizza che «Italia e Stati Uniti hanno interessi vitali comuni oltre la zona NATO» e che «l’Italia non è più il fianco meridionale della NATO, perché ora il Mediterraneo è parte centrale dell’Alleanza, mentre il fronte meridionale potenziale si estende dal Corno d’Africa al Golfo persico».

Dopo che a metà 1982, Brežnev aveva deciso una moratoria (verrà annullata dal Ministro della difesa Dmitrij Ustinov due anni dopo, in risposta ai missili USA nella RFT) sul dispiegamento di armi nucleari a medio raggio nella parte europea dell’URSS, è nel marzo 1983 che Washington avvia il programma USA di “Difesa strategica” (le cosiddette “Guerre stellari”), che si inseriva nei piani statunitensi per portare l’URSS (“impero del male” secondo Reagan) al completo dissanguamento economico.

Tutti questi erano i “fattori esterni” che, all’epoca, interagivano sulla politica sovietica: anche interna.

Per esaminare la politica interna, lo spazio a disposizione impone di ricordare solo a grandi linee le svolte susseguitesi alla morte di Stalin nel 1953. Citiamo dunque solo “nominativamente” le deleterie riforme khruščëviane nel settore agricolo, in particolare l’eliminazione delle MTS (Stazioni macchine-trattori), che erano state il cuore della collettivizzazione sovietica; la riforma finanziaria del 1961 e l’avvio del forte export di prodotti energetici.

Secondo l’Accademia delle scienze dell’URSS, a inizio anni ’60 i kolkhozniki guadagnavano meno della metà degli altri lavoratori; da qui la fuga dai kolkhoz e un esborso pari a 860 tonnellate di oro per acquistare grano dai paesi capitalistici.

In generale, se con Stalin i ritmi medi annuali di crescita erano stati del 10,6%, con Khruščëv scesero a meno del 5%. Sul piano politico, la svolta si esprimeva in “competizione pacifica” con l’imperialismo, “passaggio pacifico” al socialismo, collaborazione tra le classi e smantellamento della dittatura del proletariato, rimossa anche formalmente dal terzo Programma (il primo era stato adottato dal POSDR nel 1903; il secondo dal PCR(b) nel 1919) del partito nel 1961 e sostituita con lo “Stato e partito di tutto il popolo”. Si parlava di scomparsa delle classi e di veloce avanzata vero il comunismo.

La svolta di Khruščëv aveva aperto la strada all’economia di mercato. Nel 1962 la Pravda pubblica l’articolo dell’economista Evsej Liberman “Piano-Utile-Premio” e nel 1965 prende ufficialmente il via la “riforma” Liberman-Kosygin, che sostanzialmente riduce da 30 a 9 il numero degli indicatori stabiliti dal piano, concedendo ampia autonomia alle imprese.

In estrema sintesi, agli indici della produzione lorda, subentrano quelli del valore venduto e le aziende scelgono autonomamente come attuare il piano, in termini di valore e non di quantità, gamma e varietà di prodotti, ecc.

La riforma Liberman-Kosygin sarà alla base delle “riforme” del 1987-1988, nel pieno della perestrojka. Il fatto poi che da tempo l’unità elettorale di base per i Soviet non fosse più il collegio produttivo (fabbrica, officina, ecc.) bensì quello territoriale, consente via via l’inserimento negli apparati statale e di partito di elementi che non rispondevano più ai collettivi operai, bensì, col riprendere forza dell’economia privata (circa il 40% negli anni ’80), agli interessi dei direttori di impresa – come ormai noto, molti di essi provenivano dalle file del Komsomol e in parte anche da KGB e Partito – e delle consorterie burocratiche a quelli legate.

In pratica, se la proprietà privata dei mezzi di produzione era stata quasi totalmente eliminata a metà degli anni ’30, l’economia nazionale era condotta secondo un unico piano e obiettivo della produzione non era l’utile della singola impresa, ma il benessere di tutta la società, ora, con le riforme degli anni ’60 e ’80, l’utile delle singole imprese è contrapposto a quello generale, portando al rafforzamento degli interessi della burocrazia di partito.

L’economia non funziona più come un unico organismo, ma ogni impresa persegue il proprio interesse, con conseguente deficit di prodotti, specialmente quelli di largo consumo, alla cui produzione, di basso valore, le imprese non sono interessate. Il precedente scambio coordinato tra le imprese cessa di funzionare (in alcuni casi, soprattutto a fine anni ’80, la cosa ebbe carattere artificiale e diffuso; insomma: era voluta), col risultato che un’azienda è costretta a fermare la produzione, non ricevendo il materiale da quella fornitrice; il risultato è una crescente insoddisfazione dei cittadini, obiettivo cui tendevano le forze che miravano alla fine dell’Unione Sovietica.

Scorrendo sommariamente varie annate di Novoe Vremja, nei dieci anni che coincisero con l’intervento sovietico in Afghanistan e che precedettero la fine dell’URSS, si nota come i regolari – ma non frequenti come ci si potrebbe aspettare – reportage dall’Afghanistan forniscano un quadro che, tutto sommato, appare abbastanza rassicurante: si parla molto delle incursioni dei mujaheddin contro villaggi, scuole, ospedali, nelle province controllate dal governo democratico, ma si tende a creare nel lettore l’impressione che le forze della Repubblica, sostenute dal contingente sovietico, riescano a tenere a bada gli attacchi americano-pakistani (e cinesi) portati con le mani delle bande contro-rivoluzionarie.

Si riproducono corrispondenze sulla riforma agraria, con la distribuzione delle terre ai piccolissimi agricoltori; si intervistano religiosi e si parla della costruzione di nuove moschee, per «lenire la pesante situazione dei credenti».

Soprattutto dopo il 1985, con la svolta verso la conciliazione nazionale, nonostante le crescenti forniture di missili terra-aria americani ai mujaheddin e la conseguente perdita del pieno controllo dell’aria sovietico, lo spirito dei resoconti è di fiducia nella vittoria.

Tema, invece, centrale e costante delle pubblicazioni, soprattutto a partire dalla “elezione” di Mikhail Gorbačëv a Segretario generale del PCUS, è quello delle riforme economiche.

Se ancora nel marzo 1982, Novoe Vremja riproduceva la lunga requisitoria della rivista teorica del PCUS, il Kommunist (“Su una via scivolosa”, n. 4/1982) contro il PCI, in cui si diceva, tra l’altro, che «il processo rivoluzionario è impensabile senza un intervento nei rapporti tra potere e proprietà… Il programma economico del PCI non apre la prospettiva del socialismo… esso mira alla razionalizzazione della produzione capitalistica», ecco che già a fine 1983, con “Piano-Mercato-Esperimento”, si annuncia la riforma che dal gennaio ’84 concederà alle imprese piena autonomia di pianificazione annuale.

Nel 1985 gli osservatori della rivista parlano di ampliare l’autonomia di enti, aziende, kolkhoz, sovkhoz, di sviluppo dell’autogestione locale, di incoraggiamento dell’intraprendenza, di incentivi, profitto, credito, prezzi, ecc. e, a fine anno, in preparazione del XXVII Congresso del PCUS, si programma per i prossimi 15 anni una particolare attenzione alla produzione per l’export tecnologico, pur proseguendo anche quello di materie prime.

A inizi 1986, si scrive del passaggio «dalla dittatura del proletariato all’autogoverno socialista» e la “nuova stesura” del khruščëviano III Programma del Partito, adattata agli anni ’80, è intitolata «I compiti del PCUS per il perfezionamento del socialismo e il passaggio graduale al comunismo».

Si sostiene cioè che le classi siano definitivamente scomparse e ci si avvii alla società senza classi, al comunismo.

Ancora maggior rilevanza ai temi delle riforme economiche, in particolare dopo il 1985, era data su Moskovskie Novosti, non a caso definito “il settimanale della perestrojka”. A febbraio 1987, a proposito del Progetto di legge sull’impresa statale, si diceva che «l’impresa è un produttore di merci socialista», categoria assente nella riforma del 1965, al pari di quella dei “collettivi di lavoro”, che diventano «padroni della proprietà di tutto il popolo», mentre in precedenza era detto che i beni sono in «disponibilità operativa dell’impresa»; ora, invece, l’impresa opera «nelle condizioni di pieno auto-computo, auto-finanziamento e autogestione».

Sorgono così le prime società miste, le cooperative, all’inizio solo commerciali e poi anche di produzione. Si dice addio a una fantomatica “uravnilovka” (egualitarismo; in realtà il partito vi aveva posto fine sin dagli anni ’30, condannandola quale deviazione trotskista).

A fine 1988, Moskovskie Novasti, elogiando il “modello jugoslavo” (con crisi, disoccupazione, contrapposizioni nazionali), specifica che lo slogan gorbačëviano di “Più socialismo” significava «negare decisamente la possibilità di intromissione dello Stato nei processi economici», dal momento che «il mercato ha sempre ragione».

Anche se risultava che in almeno 140 grandi città sovietiche era stato rilevato un discreto deficit alimentare, si esortava comunque a «eliminare le limitazioni ai contatti commerciali esteri» delle singole imprese.

Così, il grezzo e venale interesse materiale dei singoli trovava sbocco nelle nuove forme politiche e nei nuovi rapporti sociali che andavano prendendo forma. Il tradimento individuale – degli ideali, dei compagni, dello Stato – veniva a saldarsi con la svolta politica dettata dalla involuzione dei rapporti produttivi, sfociata poi nel “capitalismo selvaggio” dei primi anni ’90, fase necessaria a quella “accumulazione originaria” che, ancora una volta, vedeva «l’espropriazione degli operai» dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, attuata «a tratti di sangue e fuoco» (Marx).

Si trattava di un processo iniziato almeno un paio di decenni prima; che a un certo punto sembrava in apparenza interrotto e che poi, nella sua fase terminale, andò in parallelo con l’intervento in Afghanistan.

Quel cruento rivolgimento nella società sovietica che, di lì a poco, avrebbe significato, alla base, affamamento delle masse, smantellamento e svendita di migliaia di imprese, deficit di prodotti primari, “farwestizzazione” della vita quotidiana di milioni di persone, era stato anticipato, ai vertici, da strani suicidi, omicidi mascherati, avvelenamenti di esponenti di primo piano del Partito e dello Stato, oppure, nel migliore dei casi, da immotivati “pre-pensionamenti” o discrediti platealmente infondati, così da permettere “l’elezione” dell’uomo “giusto al posto giusto”.

A detta dell’ex diplomatico ed ex funzionario del CC del PCUS, Vjačeslav Matuzov, «tutti i fili della distruzione dell’Unione Sovietica portano a Jurij Andropov e Evgenij Primakov», il primo, tra l’altro, “padrino politico” di Eduard Ševardnadze.

E ora si arrivava al colpo conclusivo.

Così, se nel 1982 il Kommunist, nella disputa col PCI, poteva ancora affermare che «l’idea del consenso nazionale è in contrasto con le leggi della lotta di classe», poi, nel 1989, l’economista Leonid Abalkin concludeva la parabola discendente della perestrojka gorbačëviana, sostenendo che «la priorità data agli obiettivi umani universali esclude il concetto stesso di lotta di classe».

Nello stesso 1982, ancora polemizzando col PCI in merito ai fatti polacchi, la Pravda scriveva che «le decisioni prese dal CC del PCI giustificano questo focolaio di aggressioni e di reazione» rappresentato dal blocco NATO; e i «dirigenti del PCI contano forse (già da più anni) di “rabbonire” la NATO? Tuttavia non è possibile ”persuadere”, “rabbonire” l’imperialismo».

Ma, a ottobre del 1989, Meždunarodnaja žizn’ (Vita internazionale; considerata all’epoca la “rivista ufficiosa” del Ministero degli esteri sovietico) ospitava senza commenti un contributo di uno dei maggiori ideologi dell’antisovietismo, Zbigniew Brzezinski, in cui si diceva che «per fortuna di tutta l’umanità, il secolo delle ideologie volge al termine. Il sintomo che ispira le maggiori speranze sono la glasnost’ e la negazione, a essa legata, di dogmi e pretese di infallibilità...

La crisi interna del sistema sovietico rimarrà a lungo la principale preoccupazione della dirigenza sovietica... A misura della crisi interna dell’URSS, si indebolirà inevitabilmente il suo controllo sull’Europa orientale...

L’Occidente deve aiutare i processi di trasformazione in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, in cui possono presto verificarsi anche scoppi rivoluzionari... Il perno della guerra fredda è stato basato sui diritti umani: la forza morale dell’Occidente. Così, la guerra fredda finirà quando sarà definitivamente fissata la data dell’eliminazione del muro di Berlino...

L’Occidente deve cominciare un programma a tappe di aiuto economico e tecnico, per stimolare cambiamenti pacifici nel mondo comunista. Alcuni paesi comunisti dovranno essere aiutati con l’invio di specialisti, risorse e finanze. Anche in questioni strettamente concrete, quali procedure legislative e attività parlamentari, gli stessi paesi comunisti più sviluppati sono carenti della più elementare esperienza... sono dunque necessari speciali programmi di formazione»
.

Una “profezia” che, di lì a due anni, avrebbe assunto la forma di interi piani del palazzo del Soviet supremo russo occupati da emissari occidentali “specializzati” in quei “programmi di formazione”. Il cerchio si chiudeva.

A fine anni ’70, in una delle sue «140 conversazioni» con lo scrittore Feliks Čuev, l’ex Ministro degli esteri dell’URSS, Vjačeslav Molotov, aveva sostenuto che «Le classi sfruttatrici non sono state completamente debellate. La deviazione di destra è ancora forte. Dove è la garanzia che non prenda il sopravvento?».

In altri tempi, la garanzia era data dal Partito bolscevico; ma da tempo quel partito, con i propri ideali, i propri caratteri di classe, i propri obiettivi, la propria struttura, non c’era più.

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