di Paolo Lago
Ho sempre amato i treni fermi nelle stazioni, d’estate. Soprattutto i treni a lunga percorrenza, quegli Intercity bianchi un po’ vecchi, col sole disegnato sopra. Ho sempre pensato che se ne andassero in luoghi caldi, più caldi ancora di dove stavo io, posti dove il sole picchiava come un forsennato. Verso sud, verso meridioni infuocati per andare a fermarsi in altre stazioncine di paese, magari in altre ere, e addormentarsi sotto pensiline di legno e intravedere scaglie di mare, tremule, vicine, troppo vicine alla via ferrata, lembi di mare che forse si possono quasi toccare dal finestrino. Poi quei treni, chissà, avrebbero continuato la loro corsa dentro ventri di traghetto, pance di balene di ferro che li avrebbero portati su isole antiche. E allora fra fumi di zone industriali, un caldo soffocante di motori e di macchine, si imbarcheranno per ritrovarsi in sponde di lievi sogni, fra templi di dei, e marinai scuri che bevono birre ghiacciate li lasceranno uscire da quelle pance di ferro. E viaggeranno ancora, fra cespugli e mirti divini, fra sterpaglie al sole, campagne dorate dove forse il gattopardesco don Fabrizio Salina passò con la sua carrozza impolverata. Il tetto di quei treni sarà allora mitragliato dal sole, quello stesso disegnato sulle loro fiancate, e si fermeranno di nuovo, in altri capolinea, in altre stazioni perdute, per essere guardati da altri vagabondi di sogni. E poi faranno ritorno nella stazione della mia città, e ancora li guarderò e mi racconteranno di queste terre lontane, d’olivi e d’olivastri, di vini dai forti sapori, di signori e di strenui lavoratori, di pomeriggi perduti forse nel dolore, di mari omerici dal colore di vino.
Ma i treni fermi nelle stazioni mi raccontano che se ne possono andare da tutte le parti, in tutte le direzioni, non solo in quel Sud evocato dal sole che è dipinto sulle loro bianche carrozze. Se ne possono andare a Est, verso lembi di territori magici e onirici. L’est, dove i nostri amori sognati da fanciulli si perdettero fra giochi di legno e pupazzi, fra automi gentili e foreste infinite e castelli e stagioni passate a contemplare autunni rossastri. Non potrò mai dimenticare l’Orient Express che vidi una volta fermo alla stazione di Venezia. Nero e funereo, elegante e terribile, un gentile mostro addormentato che avrebbe raggiunto orienti incantati. Chissà, forse verso Istanbul e mercati orientali, verso città incantate da canti al tramonto, da torri arabe, da mercanti in abiti lunghi che percorrono in sandali empori infiniti, sulle strade di porti, là dove si perde la terra dentro al mare fino in fondo al niente e poi ritorna terra e non è più Occidente. Ma se ne possono andare anche verso altri orienti, quelli di orrori e vampiri, verso transilvanie immaginarie piene di leggende e di mostri. E allora quei treni eleganti possono essere quelli che accolsero Jonathan Harker, il razionalista inglese che non sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Seduto in quella elegante carrozza, accarezzato da nuovi tramonti fra le montagne che correvano verso di lui come cavalli impazziti, annotava sul suo diario usi, costumi e tetre leggende di lande inesplorate, verso locande ignote ove osti con barbe fluenti lo avrebbero accolto, offrendo pietanze piccanti e invernali, e vini robusti perduti in inverni che non hanno più nome. E in quel treno forse Harker sognava il vampiro, un elegante signore intrappolato fra coltri e specchi e quadri silenti di volti mostruosi, di mostri eleganti, antenati iridescenti e spettrali nelle notti di sangue. E fra i velluti di quelle eleganti poltrone del treno che correva a est, forse lo stesso vampiro si era seduto, abbandonato al viaggio devastatore. Ma i treni che vanno a est mi evocano anche i venti di Trieste: uscire dal treno e ritrovarsi nella stazione solcata da bore incredibili, venti di tempesta che ti lambiscono mentre cerchi, afferrandoti, un caffè dove forse un letterato passò, fra poltrone eleganti e poesie che risuonano come voci afone in quei saloni.
E se ne possono andare anche a Nord. E allora quei treni fermi nel caldo della mia stazione, piano piano, si trasformano, mutano aspetto, diventano qualcos’altro. Valicano pianure e attraversano montagne e magari si ritrovano in una Germania piovosa, che si vede scorrere dal finestrino bagnato e percorrono luoghi dal passato mostruoso e alla mente, forse, ritorna quel treno d’orrore diretto verso Cassandra Crossing. Ma anche altri orrori più nostri, più italici, treni sventrati da bombe, e persone uccise da bombe nelle stazioni fra i Settanta e gli Ottanta e, prima ancora, devastati dalla guerra, come in quell’estate violenta del ’43 narrata da Valerio Zurlini, in cui Jean-Louis Trintignant e Eleonora Rossi Drago si salvarono a stento da un treno bombardato nella pianura padana devastata dai nazisti. Solcano quindi territori dalla lingua grinzosa e geometrica, con parole che si intravedono stanche da cuccette nel buio, mentre altissimi inservienti si aggirano come ombre nel corridoio portando tazze di un caffè lunghissimo e imbevibile. A nord, là dove le nuvole coprono il sole e ti lasciano incantato fra aurati frammenti d’oricalchi, là dove i tetti delle case sono fatte di stucchi d’oro, rosa e blu, in città fra canali lambiti da tetri porti. Là ove vagabondi marini intrappolati in dolori se ne vanno vagando, silenti nelle brume delle loro città, fra porti sconosciuti e grigi cantieri. E di nuovo, forse, anche là a nord i treni entrano in traghetti più grandi, con chiglie forse rompighiaccio per i mesi invernali e navigano verso città turrite e colorate, fra i loro canali, fra i loro fantasmi. E se scendi da quei treni senti aria di spettri, un’aria fredda che ti sbalza in un’altra dimensione, molto, molto diversa dalla tua stazioncina immersa nel caldo soffocante. E il treno si è trasformato in un mostro gentile: da solare trabiccolo dipinto di bianco è diventato un convoglio bluastro, con le carrozze dipinte di scuri colori e con le scritte in lingue sconosciute. Un tetro treno scuro e grigio, sui cui vetri appoggiare una stupefatta mano, imbambolata di fronte a paesaggi stranieri e ordigni di morte, come nel Silenzio di Bergman. E fra cieli blu ti ritrovi, ad attraversare vicoli stretti fra muri dipinti, fra lampade antiche, fra fantasmi di pianto innamorati di crudeli vampire del Nord. E una lacrima, forse, riesci a catturarla anche tu, mentre silente cammini su cinquecenteschi tappeti di pietra.
E poi c’è l’Ovest, ah, verso quegli aperti venti oceanici, verso quei malinconici canti di emigranti perduti. Forse quel treno fermo, allora, si potrebbe trasformare in un treno di notte per Lisbona, un treno che attraversa notturni Pirenei, covi di banditi e di arcane bestie inani, per arrivare a una Spagna solare, a una “concha” sul mare e da lì proseguire in una notte infinita, verso l’Oceano, valicando le sierre e le piane roventi, fra occhi di lupi stanchi che rincorrono un treno estivo mutatosi in stella, macchina abnorme dal cervello d’aria condizionata. E allora ti ritrovi a Oporto, dopo una notte passata a sedere vicino a un ragazzo silenzioso, che mai disse parola, con un orologio dei colori della squadra della sua città, Oporto appunto. E il primo incontro con quel magico Portogallo di poeti è lui, il ragazzo silente con l’orologio della sua squadra del cuore. Ah, e poi l’Oceano, i ponti, le cantine, il vino che sale misterioso dai canali, i sentori di città vecchia, di malandrini alle finestre che ti guardano bieco, di donne di malaffare dalle pelli sudate, scosciate sui balconcini mentre uomini dagli sguardi aguzzi maneggiano arditi pugnali agli angoli dei vicoli. Ah, e poi Lisbona e il canto di Pessoa, quel desiderio di essere tutti e tutto, di essere strada che piega verso il golfo silente, verso il Douro delle anime perse. Lo stesso viaggio che percorse quel Felix Krull inventato da Thomas Mann, diretto verso sognanti piroscafi inesistenti, mai presi, mai partiti alla volta di nuovi mondi azzurri come gli occhi di un amore appena intravisto.
Così tante storie mi ha raccontato quel treno fermo nella calura estiva, nella stazione della mia città! Fermo, come morto, su un binario morto ma presto vivo, pronto a nuove metamorfosi, a audaci trasformazioni verso i quattro angoli di mondo. Quante storie mi ha raccontato! Mi ha salvato mentre camminavo silente, mi ha aiutato a riprendermi quei sogni lasciati sul marciapiede. E quanti sogni mi racconterai, treno fermo d’estate, quando nella notte ti ascolterò correre in un suono smorzato e lontano, meraviglioso e indistinto come il dormiveglia. Ma poi il tuo fischio divoratore di terre mi racconterà un’altra storia e, treno notturno, scenderemo nei gorghi della memoria.
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