La morte di Gorbaciov e gli articoli che l’hanno commentata, hanno portato a successive sollecitazioni e spunti tesi all’approfondimento, soprattutto tra i più giovani.
In effetti la dissoluzione dell’Urss e il ruolo avuto dall’allora segretario del Pcus, sono stati molto più di un episodio storico specifico e dell’individuazione delle responsabilità soggettive di un personaggio che aveva un ruolo di comando.
Su quest’ultimo aspetto abbiamo rilevato, come già spiegato nell’articolo pubblicato nei giorni scorsi, atteggiamenti di primitivismo politico e – specularmente – di “comprensione” che non aiutano l’analisi dei processi e delle responsabilità politiche, anche di quelle individuali.
Su queste ultime, affinché nessuno ne ricavi una qualche forma di assoluzione di Gorbaciov dalle sue responsabilità, vale la pena tornare su quello che possiamo definire come il trasformismo dei gruppi dirigenti comunisti alla fine degli Ottanta e nei primissimi anni Novanta.
Mikail Gorbaciov venne cooptato come segretario del Pcus e leader dell’Unione Sovietica dal comitato centrale del partito nel 1985. Sconosciuto ai più e quindi personaggio da scoprire per molti, venne da subito percepito come un leader giovane e dinamico che puntava a introdurre riforme e cambiamenti nella struttura dell’Urss da anni alle prese con le proprie contraddizioni interne e un feroce scontro globale con gli Usa e la Nato.
La sovrastruttura ideologica di questo processo introdusse parole come perestrojka (riforma) e glasnost (trasparenza) che ben presto dilagarono nel linguaggio politico in Occidente ma spesso ripetute a pappagallo anche in tutti i partiti comunisti a livello mondiale. In alcune conferenze internazionali sentimmo parlare della perestrojka come di “una rivoluzione nella rivoluzione”. Eppure ben presto si comprese che il senso di quelle riforme poteva prestarsi a obiettivi e risultati assai diversi tra loro.
Fino alla conferenza di organizzazione del Pcus nel 1988, anche nella nostra area si aveva la sensazione che il processo di riforme avesse come obiettivo il consolidamento del socialismo e dell’economia pianificata in Urss e – a cascata – nei paesi che vi facevano riferimento.
L’anno prima, il 1987, Gorbaciov e Reagan avevano siglato a Reykiavik l’accordo per lo smantellamento dei missili nucleari a medio raggio che in Italia portò allo smantellamento degli euromissili installati nella base di Comiso contro cui ci si era battuti negli anni precedenti.
Ma dopo il 1988 il linguaggio politico e le scelte materiali di Gorbaciov e del gruppo dirigente del Pcus cominciarono a indicare che il socialismo non era più il perimetro dentro cui avrebbero puntato e agito le riforme avviate.
Usando come una clava il “rinnovamento” e “la nuova mentalità”, Gorbaciov e i suoi uomini cominciarono a picconare molti aspetti e molti prìncipi del socialismo così come era venuto costruendosi materialmente in Urss e nella storia. Inutile dire che tutto questo ha reso popolare Gorbaciov in Occidente e veniva utilizzato contro i partiti comunisti e i “comunisti dentro i partiti”.
Di questo ebbero una chiara percezione leader comunisti come Fidel Castro e i dirigenti del Partito Comunista Cinese che nel 1989 presero apertamente le distanze da Gorbaciov e dal suo progetto. Lo fece in modo più gestito sul piano politico Fidel Castro e lo fecero in modo più pesante i dirigenti cinesi che, reprimendo le proteste in Piazza Tien An Men, stopparono ogni velleità o “importazione” del vento di Mosca in quel paese, reprimendo le proteste e liquidando i dirigenti del Pcc più allettati da quella prospettiva.
In Europa, al contrario, con le buone o con le cattive, i partiti comunisti al comando nei paesi dell’Est si adeguarono tutti (Ceausescu, che pure era quello più indipendente da Mosca fu ucciso, Honecker fu brutalmente deposto) e nel giro di pochissimo tempo arrivarono a sciogliere i partiti comunisti e convertirsi in altro. Alcuni tentarono la strada della socialdemocrazia, molti altri gettarono rapidamente la maschera e si riconvertirono in businessmen “liberali” accaparrandosi via via le risorse e le infrastrutture dei loro paesi, Urss inclusa.
In Europa occidentale cominciarono a palesarsi gli Occhetto e i tanti che ben presto smantellarono i partiti comunisti e i prìncipi del socialismo. Anche tra i partiti comunisti europei che avevano resistito “all’eurocomunismo” – che già incubava all’interno il virus del trasformismo – si riconvertirono rapidamente gruppi dirigenti in totale rottura con il socialismo. Gli unici che tennero botta furono il Partito Comunista Greco (Kke) e il Partito Comunista Portoghese.
Perfino in una delle esperienze rivoluzionarie più interessanti degli anni Ottanta, nel piccolo Salvador, dirigenti rivoluzionari come Joaquim Villalobos si avviarono al trasformismo e cominciarono a picconare il Fmln (Fronte Farabuno Martì) che pure aveva tentato il colpo insurrezionale alla fine del 1989.
Tra il 1989 e il 1991 divenne evidente che Gorbaciov stava operando apertamente un cambio di campo dietro lo schermo di una riconversione del Pcus in un partito di tipo socialdemocratico.
Proprio in questi mesi è emerso drammaticamente come il via libera di Gorbaciov alla riunificazione tedesca nel 1990, fu concesso senza alcuna contropartita. L’impegno di Usa e potenze europee che la Nato “non si sarebbe allargata di un pollice verso est” rimase solo verbale e Gorbaciov se lo fece bastare. Abbiamo visto poi come questi impegni siano stati sistematicamente disattesi dieci anni dopo.
Ma dentro il Pcus Gorbaciov e i suoi uomini (gli Shevarnadze, gli Yakovlev etc) agivano dall’alto per piegare ogni resistenza interna (l’unica voce pubblica dissenziente fu quella di Nina Andreeva, una insegnante militante del Pcus). Contestualmente “dal basso” agiva il segretario del partito di Mosca Eltsin e i leader riscopertisi nazionalisti delle varie repubbliche sovietiche (da quelle baltiche a quelle asiatiche).
Entrambi trovarono sostegni e consensi dagli Usa e dai paesi capitalisti europei. Sotto i colpi del “gorbaciovismo” l’Urss e il Pcus cedevano terreno giorno dopo giorno.
Il tentativo di invertire la rotta dell’agosto del 1991 con un maldestro rovesciamento di Gorbaciov durò solo tre giorni. Nonostante la presenza di alcuni reparti militari nelle strade di Mosca, non fu sparato un colpo e si dissolse consacrando Eltsin come l’eroe nazionale. Nei giorni successivi Gorbaciov, liberato dopo essere stato bloccato in casa dai “golpisti”, venne pubblicamente umiliato da Eltsin.
Quattro mesi dopo, veniva ammainata la bandiera rossa dal Cremlino e l’Urss cessava di esistere, ogni repubblica andò per conto suo nonostante un referendum popolare avesse ribadito a stragrande maggioranza l’unità dell’Urss, e un uomo di paglia degli Usa come Eltsin divenne presidente della Russia, fino all’avvento di Putin nel 1999.
Nella Russia di oggi non vi è alcuna nostalgia né simpatia popolare per Gorbaciov, se non in ristretti gruppi di businessmen. Insomma nessuno ne sentirà la mancanza.
Gorbaciov dunque, anche se fu il prodotto di un processo storico, non può affatto essere assolto dalle sue precise e pesanti responsabilità nella dissoluzione dell’Urss e dalle devastazioni che ne seguirono, per il suo paese innanzitutto, ma anche nelle relazioni internazionali che per più di venti anni sono state ingabbiate dal comando unipolare e imperialista degli Usa e scandite dalle aggressioni alla Jugoslavia, all’Afghanistan, all’Iraq.
Ma Gorbaciov rimane anche l’esempio di quel trasformismo dei gruppi dirigenti comunisti anche in Occidente di cui ancora si pagano le conseguenze. Chi è stato “gorbacioviano”, non poteva essere un nostro compagno di strada.
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