di Gioacchino Toni
«Il concetto di estensione – prolungamento, allungamento – della vita, del suo limite temporale, è una costante nella storia della nostra specie. All’estensione temporale si accompagna l’urgenza di estensione ‘materiale’: l’estensione materiale delle prestazioni – e della prestanza. In principio per normalizzare le proprie funzionalità (in caso di handicap), quindi per accrescerle, e infine, dove possibile, per estremizzarle, fino a metterne alla prova i limiti» (Alessia Buffagni)
Se si può parlare tanto per l’individuo quanto per il collettivo di una vocazione al migliorare e al migliorarsi, indubbiamente la variabile tempo incide diversamente sui due ambiti: «in un collettivo, al crescere nel tempo si suppone corrisponda l’evoluzione, la propensione al migliorare comune (attraverso la sintesi di modelli cognitivi e tecnici che aiutino l’autoconservazione – medicina, ingegneria, e la loro progressiva fusione). Mentre in un individuo, inteso come unità biologica, la crescita nel tempo tende a coincidere, dopo una più o meno sollecita maturazione, con una graduale involuzione». Così scrive Alessia Buffagni, Modellare la tecnologia su un corpo che invecchia. La ricerca di un metodo (Mimesis, 2022), sottolineando però come l’invecchiamento dei singoli agisca anche come strumento di rigenerazione evolutiva: è infatti l’obsolescenza biologica programmata a consentire alla comunità di rinvigorire, aggiornarsi e adattarsi al tempo.
Quando il processo di “ricambio” delle persone più anziane da parte di soggetti più giovani rallenta, la comunità, per non implodere, tende a sfruttare quelle che sono giunte a un livello avanzato nel loro ciclo vitale affidandosi a quelle scienze «che, senza snaturare il ciclo biologico del singolo, gli sappiano garantire un invecchiamento attivo. In definitiva, quelle capaci di rendere la sua partecipazione al consesso sociale il più possibile sostenibile, per la comunità e soprattutto per sé stesso».
A partire dalla presa d’atto di come tecnologia e scienze abbiano condotto la contemporaneità a un’inedita estensione del tempo della vita umana, Alessia Buffagni analizza come, muovendo dal principio di bioestensione, il designer, nel solco della storia delle innovazioni che nel corso del tempo hanno supportato e integrato le capacità umane, si trovi ora a «progettare per, intorno, sopra – se non addirittura dentro – un corpo in sofferenza» attraverso tecnologie sempre più aderenti ai corpi.
«La sostenibilità sociale in relazione all’effetto che il tempo esercita sull’essere umano è lo spunto da cui prende via questo lavoro di ricerca [che] procede incardinando i suoi tre flussi di analisi al principio comune di bioestensione». Ad essere presa in esame è innanzitutto l’estensione temporale delle singole esistenze, determinata soprattutto dalla tecnica medica che ha innalzato l’aspettativa di vita e aumentato la popolazione anziana. Dunque l’autrice si concentra sull’estensione anatomica a partire dal succedersi nel corso dei secoli di innovazioni tecnologiche (protesiche, portabili, indossabili) utili a supportare e prolungare le abilità dell’organismo umano. Infine, è la volta dell’estensione qualitativa, vero e proprio focus del volume, che induce a domandarsi «cosa significhi nel presente progettare per, intorno, su (se non addirittura dentro) un corpo in sofferenza».
Navigando in maniera interdisciplinare tra biologia, human factor, sociologia, psicologia, tecnologia, filosofia e moda l’autrice approfondisce il ruolo del Design sugli individui – e su una società – in fase avanzata di invecchiamento non mancando di affrontare le terapie riabilitative indirizzate ai soggetti anziani a rischio, entrando così nell’ambito della Gerotecnologia.
Sappiamo come la mente umana tenda a stringere relazioni sensibili, fino a riconoscerle come parti di sé, con quelle protesti congegniate «per sostituire parti del corpo mancanti o rimediare alla malfunzione di organi interni e di senso», ciò vale però anche per protesi nate con altre finalità; si pensi ai portable devices come gli smartphone capaci di operare un’estensione fisica del corpo umano. Si tratta in questo caso di dispositivi capaci tanto di amplificare i sensi virtuali dell’individuo, «trasportandolo nella sconfinatezza dei contenuti audio e video del cloud», quanto di ottunderne i reali, «alienando, isolando, fino a compromettere reali funzionalità anatomiche».
Quello attuale è un panorama estremamente complesso in cui il corpo umano si rivela sempre più ibridato con le tecnologie. Queste ultime hanno permesso lo sviluppo di dispositivi “vestibili” che non intralciano i movimenti del corpo e non necessitano del ricorso alle mani nell’interazione con gli strumenti.
Inevitabilmente cooptati dalle industrie della moda e dello stile, tal dispositivi hanno finito per avere un ruolo sempre più importante nella costituzione dell’identità sociale. Nonostante di “smart clothing” si parli sin dagli anni Ottanta, soltanto in apertura del nuovo millennio l’industria dell’abbigliamento ha, pretenziosamente, fatto ricorso a tale termine a proposito di indumenti messi in vendita dotati di tasche con aperture passacavi per cellulari e lettori mp3.
Per poter ragionevolmente parlare di “smart clothing” vero e proprio occorre però attendere l’arrivo sul mercato del Cyberia Survival Suit, uno strumento utile alla sopravvivenza di chi lavora in solitaria in ambienti ostili: un capo geolocalizzato capace di monitorare le principali funzioni vitali di chi lo indossa, dal battito cardiaco alla temperatura fino alla rilevazione di eventuali shock da impatto, con tanto di possibilità di richiesta di soccorso.
L’evoluzione delle tecnologie informatiche miniaturizzate ha consentito all’elettronica di farsi sempre più invasiva nel vivere comune, approssimandosi sempre più al copro umano ricoprendolo o entrando materialmente al suo interno.
La cultura cyberpunk, nell’immaginario narrativo di William Gibson, Bruce Sterling, Donna Haraway, teorizza già a metà degli anni Ottanta l’evoluzione dell’essere come ‘organismo cibernetico’, creatura ibrida di organo vivo e macchina. Comincia ad attribuirsi alla tecnologia uno spessore inedito, a percepirla come possibile tramite – per estendersi, aumentarsi, alterarsi: uno strumento fondamentale per il personal empowerment […]. Tute e visori di realtà virtuale segnano l’immaginario ludico-sessuale degli ultimi scorci di secolo: installazioni più che capi d’abbigliamento, per trasportare l’utente, una volta catturati e digitalizzati i suoi movimenti, aldilà del reale.
Negli ultimi decenni, però, nota Buffagni, «l’oggetto tecnologico indossabile non fugge più il reale, al contrario: ne vuole assorbire ogni manifestazione, immagazzinando informazioni, recependo stimoli sensoriali».
Se, come spiegato dettagliatamente nel volume, gli “indumenti intelligenti” troveranno sempre più spazio nel settore della diagnostica e del monitoraggio della salute delle componenti più anziane e fragili della popolazione, non di meno, alla luce della logica che governa i nostri tempi, occorre chiedersi che funzione andranno ad avere queste protesi nell’ambito del controllo sugli individui e nel processo di potenziamento umano non tanto in funzione dell’alleviamento del dolore o della fatica ma di un ulteriore “spremitura” dell’individuo – e della società – in termini di sfruttamento.
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