Almeno per un aspetto, il tragico caso dell’Ucraina, schiava dal 2014 di una junta nazigolpista è a dir poco curioso. I vice-padrini di quella junta, che siedono a Bruxelles, hanno deciso che il rinvio (o l’annullamento) delle elezioni presidenziali che avrebbero dovuto tenersi lo scorso 31 marzo e la conseguente proroga dei poteri di Vladimir Zelenskij rappresentino un “affare interno” di Kiev.
In ciò è racchiusa l’essenza di tutte le disquisizioni sulla “democrazia” e le “procedure democratiche”, intese nella più sottile accezione liberale: quando ai “democratici” torna vantaggioso polverizzare le cosiddette “procedure democratiche”, allora lo smantellamento di quelle stesse “procedure democratiche” diventa un “affare interno”, soprattutto se questo è il caso di «una democrazia aggredita da un dispotismo» euroasiatico.
Effettivamente, la junta ha altro cui pensare che non le “quisquilie” della democrazia rappresentativa: la fine si fa sempre più angosciante e c’è da preoccuparsi in primo luogo di preparare una via di fuga che assicuri, se non proprio reali residenze anglosassoni, almeno lussuose dimore caraibiche. «Vinceremo senz’altro. Non abbiamo alternative» ha assicurato Zelenskij ai redattori della tedesca Bild; «non posso però prometterlo, né menzionare una data».
Nell’intervista, Zelenskij ha però anche accennato per la prima volta alla possibilità di discutere con Mosca (cosa che lui stesso aveva “vietato per legge”) le possibili varianti di un accordo: che, ovviamente, dovrebbe essere il “Piano di pace” ucraino in dieci punti, da discutere a giugno in Svizzera, senza la presenza russa.
Il Ministero degli esteri russo ha già ufficialmente dichiarato di non considerare la Svizzera il luogo più adatto, dopo che il paese ha abbandonato la precedente neutralità per appoggiare direttamente la junta di Kiev. Il rappresentante russo all’ONU, Vasilij Nebenzja ha detto senz’altro che «molto presto l’unico tema di qualsiasi incontro sulla questione ucraina verterà sulla capitolazione incondizionata del regime di Kiev».
E mentre buona parte degli osservatori, diciamo così – ricorrendo a un termine che in Italia mette insieme coloro cui venga affibbiato, direttamente in odore di “disfattismo” e sacrilega “connivenza col nemico” – putiniani, vale a dire tutti quei redattori di agenzie e siti web russi che “parteggiano” per il Cremlino, adducono motivi abbastanza solidi per mettere in guardia dal cadere un’ennesima volta nel trabocchetto di “colloqui di pace” che, in definitiva, servirebbero solo a dar respiro a Kiev e ai suoi patron euroatlantici, c’è anche chi la vede diversamente.
Ad esempio, tra i primi, troviamo il politologo Rostislav Iščenko che, tra gli altri argomenti, afferma su Ukraina.ru, che «qualsiasi piano di pace, che si cominci a discutere anche senza l’intenzione di realizzarlo, consente all’Occidente di guadagnare quantomeno un po’ della risorsa essenziale: il tempo, che convulsamente sente mancargli».
Tra i secondi, un altro politologo, Gevorg Mirzajan, che su Vzgljad afferma che la formula fumosamente riportata anche su qualche fogliaccio italico, della cessione di territori alla Russia in cambio dell’adesione di Kiev alla NATO, potrebbe anche essere vantaggiosa per Mosca.
Infatti, dopo il ritorno in campo della proposta di Recep Erdogan sulla riproposizione del tavolo di Istanbul del 2022 e le dichiarazioni del presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko sulla possibilità di non rigettare l’idea di Erdogan – cui Vladimir Putin ha risposto che Mosca è sempre per la pace – in molti si sono detti scettici sulle reali prospettive e, soprattutto, su quanto ciò possa esser vantaggioso per Mosca, nel momento in cui, nonostante anche le forze russe necessitino di un intervallo dai combattimenti, a Kiev e a Ovest ci si prospetta il peggio.
Tanto per rinfrescare la memoria: si tratta dello scenario ucraino abbozzato da quel megafono UE-NATO in Italia che risponde al nome de La Repubblica, secondo cui a Bruxelles si sarebbe delineato uno schema di “trattative di pace” (in realtà: un prendere o lasciare, come sempre) con Mosca, per cui Kiev rinuncerebbe definitivamente alla Crimea e alle regioni (o parte di esse) entrate a far parte della Federazione russa, in cambio di “garanzie di sicurezza” consistenti nell’ingresso nella NATO della restante parte del territorio controllato dalla junta di Kiev.
Ebbene, ora, quello scenario non viene rigettato in toto da Mirzajan, quantunque, a ben vedere, una delle principali richieste di Mosca – se non l’essenziale – sin dal 2014 è sempre stata proprio lo status fuori dai blocchi dell’Ucraina ed era stata la semi-apertura fatta balenare da Bruxelles a Kiev, che aveva condotto al 24 febbraio 2022.
Dunque, sostiene Mirzajan, la parola “colloqui” ha cominciato da tempo a risuonare più spesso sui media occidentali, testimoniando con ciò la presa di coscienza del fatto che Kiev «non può vincere questa guerra nella definizione occidentale di “vittoria”: cioè la riconquista di tutti i “propri” territori», tanto che lo stesso Lloyd Austin ha definito la vittoria ucraina come «la conservazione di uno stato ucraino indipendente» entro qualsivoglia confini. A questo scopo sono necessari dei colloqui.
Ora, dice Mirzajan, tra le ragioni per cui Mosca ritiene inutile il previsto summit svizzero, c’è soprattutto la constatazione che a breve, nel giro di qualche mese, si svolgeranno elezioni in UE, USA, Gran Bretagna e non si escludono seri cambiamenti di persone: i colloqui avranno un senso quando le nuove persone saranno di fatto al potere; vale a dire, non prima del 2025.
Comunque sia, riguardo al piano “territori in cambio di adesione” alla NATO, c’è da dire che già così Mosca si stia riprendendo quelli che considera propri territori, con un esercito sempre più forte e motivato, fabbriche che lavorano su tre turni e ampio sostegno sociale; dunque, teoricamente, potrebbe benissimo fare a meno delle «elargizioni territoriali occidentali e ucraine».
Tuttavia, dice Mirzajan, la formula “territori in cambio di adesione” alla NATO, presenta anche alcuni vantaggi per Mosca.
In primo luogo, la Russia sta – sì – liberando quei territori, ma lo fa al prezzo della vita di propri soldati, di tutti quei civili che la junta di Kiev tiene in ostaggio (ad esempio, gli abitanti di Časov Jar, che fanno da scudo ai mezzi militari ucraini) e della distruzione delle infrastrutture.
È chiaro a tutti, dice Mirzajan, che la junta di Kiev dovrà essere costretta a rinunciare a territori, quali quelli, per esempio, a sinistra del Dnepr, come Odessa o Nikolaev; in Occidente si parla infatti solo di Crimea e Donbass. Ma c’è ancora tempo per mettere a punto la formula: almeno fino al 2025. E anche dal punto di vista diplomatico, all’Occidente verrà chiesto non solo di convincere Kiev a consegnare quei territori, ma anche di riconoscerne il trasferimento alla Russia.
Fattore per nulla secondario: la sicurezza di Mosca. Se l’Ucraina si conserverà come Stato indipendente (nel caso le truppe russe non arrivino fino a L’vov, oppure se Mosca non spartisca il territorio ucraino con Varsavia, Budapest, Bratislava e Bucarest), sarà uno Stato pericoloso, impoverito e revanscista.
E se gli sarà permesso di fare ciò che vuole, allora «rappresenterà per la Russia una minaccia ben più grave di una Polonia o di una Lituania fittizie. Provate a chiedere agli abitanti del Daghestan o di Stavropol com’è stato per loro vivere accanto allo Stato terrorista dell’Ičkeria alla fine degli anni ‘90. Perciò, la Russia dovrà prendere il controllo anche di questo territorio, oppure metterlo sotto il controllo NATO, con la relativa disciplina interna».
Ovvio che, in tal modo, la NATO sarà vicina ai nuovi confini russi. Ma, nota Mirzajan, la NATO c’è già, vicino a Kaliningrad, o alla Russia nord-orientale. Sarà anche vicino a Odessa. Quando Mosca si opponeva all’espansione a est della NATO, si trattava proprio di non voler un confine Russia-NATO lungo le regioni di Belgorod e Rostov, di non volere missili NATO nelle regioni di Khar’kov e Sumy, cioè a 450 chilometri da Mosca.
Se la NATO assumesse il controllo dell’Ucraina occidentale, sarebbe comunque più lontana dal confine russo di quanto non lo siano oggi i Paesi baltici. Anche in questo caso, a «condizione che alla Russia vadano non solo gli attuali territori occupati da Kiev, ma anche l’intera riva sinistra del Dnepr e la costa del mar Nero».
Infine, da un punto di vista pragmatico. Supponiamo che Mosca riesca a far inserire nell’accordo di pace il rifiuto della NATO di includere nell'alleanza ciò che resta dell’Ucraina.
Ma «sappiamo con chi abbiamo a che fare. Sappiamo che tra una/due tornate elettorali l’Occidente dirà che il popolo ucraino ha il diritto di scegliere dove andare; la Rada rivedrà la Costituzione e si rivolgerà di nuovo alla NATO. Dovrebbe allora Mosca cominciare una nuova Operazione speciale? Si deve semplicemente riconoscere che, prima o poi, il “moncone” ucraino (ammesso che rimanga) entrerà comunque nella NATO. La cosa migliore che Mosca possa fare è rendere questo brandello il più piccolo possibile e vendere il suo consenso all’adesione al prezzo più alto».
Per far questo, osserviamo noi, Mosca non ha da fare altro che andare avanti, stringendo i denti quel tanto che basta perché l’Occidente, che già arranca, sia preso dai crampi e si fermi sul ciglio della strada, per arrivare al 2025 trovandosi molto a Ovest.
Dopotutto, per dirla con Clausewitz, la guerra non è che «un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà» e, tra gli avversari, ci sono comunque anche i suoi alleati: o nel caso specifico, i suoi tutori.
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