Nel bubbone esploso nel Pd intorno alle vicende di Bari e della Puglia, molti leggono l’episodio in se ma perdono di vista la foresta.
Le maglie larghe di un partito “liquido”, riempitosi di democristiani nello spirito e nella prassi e di membri della vecchia ditta (il Pci) da tempo in totale dismissione, hanno consegnato alla contemporaneità un partito di sistema che soffre enormemente quando deve stare all’opposizione e che vive solo quando è amministratore, a livello locale come nazionale. Una roba lontanissima dal “partito di lotta e di governo” su cui è cresciuta una parte ormai marginalizzata del Pd.
Si esiste e si conta solo se si amministra, indipendentemente da come, con chi e soprattutto per chi. Gli interessi sociali di riferimento hanno da tempo messo in soffitta qualsiasi connessione con la rappresentanza di interessi e gruppi sociali definiti.
Nel lavoro dipendente il Pd ormai presta attenzione solo a qualche nicchia di lavoratrici e lavoratori contrattualizzati, per il resto l’interlocuzione va al mondo delle imprese, del privato sociale e dei mass media.
Tutto il resto è stato consegnato alla destra, con un surplus di disprezzo e supponenza verso quei settori popolari considerati ormai alla stregua di “plebe”, avvicinabile solo attraverso “cacicchi e capibastone” capaci di veicolarne clientelarmente e non politicamente il voto.
Sulla base di questa mission, al Pd si sono avvicinati o adeguati tutti coloro che veicolano voti e relazioni nei territori – come abbiamo visto non sempre limpidissime, anzi – in funzione dell’obiettivo di stare lì dove si comanda, si amministra... si distribuisce. Con un ricorso al trasformismo diventato fisiologico e una fisionomia che somiglia sempre più a quella di un comitato d’affari.
Del resto la Schlein ha vinto le primarie tra gli elettori e gli esterni del Pd ma le aveva perse nel corpo interno del partito. Non era un dettaglio allora e non lo è adesso.
Ma nella riflessione, la radiografia e l’individuazione delle magagne interne, il dibattito pubblico – dentro, intorno e fuori del Pd – si è rapidamente dimenticato di una analisi che invece sarebbe utilissima per capire come cacicchi e capibastone abbiano condizionato la composizione, la vita interna e la proiezione politica esterna del Pd.
Ci riferiamo all’indagine condotta sul Pd di Roma nel 2015 da Fabrizio Barca.
Alla fine del 2014 l’amministrazione e il consiglio comunale di Roma furono investiti dalla tempesta dell’inchiesta su Mafia Capitale. Su quella indagine, le forzature della magistratura, le asimmetrie e le grandi assenze nell’inchiesta, il nostro giornale fu esplicito sin dall’inizio.
Il malaffare negli appalti e nella cooperazione sociale era palpabile da tempo e la permeabilità ad esso della politica era ben visibile.
Quell’inchiesta colpì trasversalmente sia la destra capitolina “de panza e de governo” sia il Pd romano, facendo traballare la giunta Marino che alla fine venne affondata proprio dal “fuoco amico” nel Pd.
A seguito di quel terremoto politico e giudiziario, venne incaricato Fabrizio Barca di condurre una indagine sui circoli del Pd a Roma, sulla loro vita interna, sulle relazioni e le connessioni con i territori e i soggetti sociali di riferimento.
Il risultato fu che un circolo su cinque venne ritenuto “dannoso” per il partito. Sono circoli, secondo la relazione di Barca “in cui prevalgono interessi particolari che sovrastano o annullano gli interessi generali o sono arena di scontro di poteri”. In questi casi, “Il Circolo è dannoso perché blocca il confronto sui contenuti premia la fedeltà di filiera, emargina gli innovatori”. La ricerca e la relazione hanno precisato di non aver preso in esame, “la legalità dei comportamenti, compito che tocca alla magistratura, la regolarità delle iscrizioni, il rispetto delle regole, dello statuto e del codice etico, nonché la moralità dei comportamenti”.
Bene, non vogliamo né pensiamo di poter dispensare consigli su questo.
Il nostro giudizio politico sul Pd, la sua storia e la sua funzione nel paese è assai più severo e definitivo di questo. Abbiamo affermato più volte che: “il Pd è parte del problema, non della sua soluzione”.
Ci sentiamo però di segnalare alla segretaria del Pd che l’inchiesta sul campo è cosa assai migliore delle dichiarazioni di principio che perdono senso via via che dal centro arrivano nei territori.
Un partito ircocervo che è venuto assumendo una natura democristiana più che socialdemocratica, con contenuti politici di fondo non molto dissimili da quelli del centro-destra (su una politica estera servilmente euroatlantica, una sussidiarietà che ha prodotto priorità del privato sul pubblico, una subalternità a banche e imprese), con un disagio e distanza nei rapporti con i settori popolari ed infine una soglia di tolleranza altissima verso “cacicchi e capibastone” locali, non ispira certo empatia in giro per il paese.
Soprattutto se molte delle facce con cui il Pd si presenta nei territori si rivelano interscambiabili per contenuti e attitudini con quelle dei propri competitori politici.
Poi diventa difficile accollare le responsabilità agli altri.
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