Deve esistere una sindrome, come un malessere, un dolore dell’anima, qualcosa di conosciuto ma non ancora studiato. La chiamiamo “nostalgia del non vissuto“. Molti compagni della mia generazione (under 60) ne sono stati affetti.
È l’afflizione tipica di chi è arrivato dentro uno scenario storico, proprio mentre esso era in via di esaurimento – pensiamo alla Resistenza o allo scontro sociale degli anni ’70. Il mancato partigiano Bembo – personaggio struggente de Il Pendolo di Eco – è un esempio letterario di tale malessere.
Fortunatamente di nostalgici di questo genere, nel “nostro” campo non ce ne sono più tanti in giro. Il tempo passa, incalza, ti costringe ad aggiornare non solo l’analisi ma anche l’immaginario, le aspettative.
Dove invece pare resistere uno zoccolo duro di rimpianto e malinconia, è in un certo settore della magistratura italiana. Questo sentimento elegiaco si è insinuato sotto la toga di alcuni giudici, proprio come una malattia dello spirito.
Alcuni di loro, evidentemente, soffrono per non essere riusciti a provare l’ebbrezza pericolosa degli anni ’70: la suggestione della linea del fronte da presidiare, del nemico da individuare, la lotta all’eversione come ragione di vita. Purtroppo per loro sono arrivati tardi in magistratura e non ce l’hanno fatta a vivere da protagonisti quella stagione.
A loro è restato il rammarico di una memoria, appunto, non vissuta; il retaggio di un passato epico, magari tramandato oralmente da nonno Caselli o da zio Spataro. Che malinconia carezzare un’epopea senza averla attraversata: sognare l’arroccamento democratico a difesa delle istituzioni, col mandato di cattura in mezzo ai denti e il vento nei capelli...
Che questa corrente nostalgica serpeggi in mezzo ad alcuni settori della magistratura, mi è venuto in mente guardando al maxi processo (così lo definisce l’Ansa) apertosi in questi giorni a Torino a carico di militanti di area antagonista.
Riproporre la suggestione del “maxi processo” – con tutti i suoi rituali anacronistici – è come cavalcare una macchina del tempo; il deja vu di un armamentario di prassi giuridiche di cui si stava perdendo traccia: il “pool antieversione” (Ansa), le parti offese “che non si costituiscono parte civile“, la “vicinanza” degli imputati a questo o quell’ambiente criminogeno.
Viene da immaginarsi certi magistrati, impegnati nella laboriosa fase istruttoria, chini sulle loro scrivanie, alle prese con chilometrici atti d’accusa – magari ascoltando gli Eagles in sottofondo e indossando jeans sdruciti a zampa d’elefante, per meglio immergersi nell’atmosfera d’antan.
Ce li figuriamo mentre ripetono a se stessi: anche noi stiamo difendendo il paese, anche noi stiamo combattendo la nostra guerra contro l’eversione. Il tempo passa, ma siamo sempre qui.
Certo, oggi i sovversivi non abbondano, non è che li trovi ad ogni angolo di strada. E ognuno ha gli eversori che si merita.
Sempre l’Ansa ci informa, infatti, che i reati contestati a questo sodalizio criminale da “maxi-processare”, si riconducono essenzialmente al tentativo, in un paio di occasioni, di entrare con un proprio spezzone, all’interno dei cortei del primo maggio; e di aver mollato “sputi, spintoni, schiaffi, calci a militanti del PD“.
Un reato – lo sputo al PD – per il quale probabilmente i difensori invocheranno le attenuanti “per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale“.
Sembra uno scherzo fuori stagione, ma pare proprio che i crimini contestati agli eversori torinesi siano di questo genere: il “maxi processo dello spezzone sociale” – passerà alla storia così.
E pensiamo all’imbarazzo se negli stessi corridoi dell’austero Palazzo di Giustizia sabaudo, dovessero incrociarsi gli imputati No Tav con gli imputati Si Tav – quelli di matrice PD arrestati o inquisiti nell’inchiesta Echidna. Un incontro storico da cui gli “eversori” potrebbero trarre almeno qualche elemento di consolazione, rispetto alle asprezze della vita: “anche voi qua? Ma guarda se è piccolo il mondo...“
Al di là delle facili ironie, in realtà c’è poco da scherzare: sempre a Torino, si sta avviando alla conclusione il primo grado di un altro processo per “associazione a delinquere” – sempre a carico delle medesime aree politico-sociali – con imputazioni decisamente più insidiose. Si sta parlando della vita e della libertà di decine di persone, alcune delle quali, come Giorgio Rossetti, vessate in questi anni da ogni genere di persecuzione giudiziaria.
La sindrome che ho descritto all’inizio di questo articolo non è solo piemontese. Tra Piacenza e Modena altri Pm e altri Tribunali battono gli stessi insondabili sentieri. Centinaia di processi – istruiti contro facchini, operai, sindacalisti e solidali – rimandano ad uno scenario ucronico, raccontando la realtà parallela di un “clima pre-insurrezionale” che avrebbe attraversato stabilimenti e magazzini emiliani in questi anni.
Mentre molte relazioni sindacali, in alcuni settori critici, stanno finalmente mutando sotto la spinta delle lotte, vedi la logistica e l’agroalimentare, certi magistrati continuano a fare la guardia al bidone di benzina e a difendere assetti fetenti e primitivi – le peggiori degenerazioni nel mondo dei subappalti – trasformando le aule giudiziarie in tribune antisindacali.
Le anomalie di certe sedi giudiziarie sono espressione di mondi sconfitti e tempi passati. Certi processi danno l’idea del tentativo, fuori tempo massimo, di ricondurre il conflitto alle regole di un ordine sociale già traballante, insidiato dalle mille crisi del presente.
Liberiamo le dinamiche sociali dalle ipoteche giudiziarie: ricominciamo a ragionare su una stagione di amnistia per i “reati di piazza“, i quali, con cinque milioni di persone in povertà assoluta e centinaia di migliaia di posti di lavoro in evaporazione, diventeranno purtroppo il pane quotidiano di molti cittadini di questo paese.
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