Di Ottone Ovidi
Alessandro Barile, Una disciplinata guerra di posizione. Studi sul Pci, Franco Angeli, Milano, 2024, euro 33,00.
È possibile comprendere la storia generale di un paese attraverso la storia particolare di un partito politico? È da questa sollecitazione gramsciana che parte Alessandro Barile nella sua ultima opera per ricostruire la fisionomia della cultura politica del Partito comunista italiano (Pci) e la sua politica culturale, a partire dalla Liberazione e fino all’esplosione del lungo Sessantotto. L’autore lo fa presentandoci una serie di episodi e questioni particolari accomunate dalla centralità della relazione tra politica e cultura nel comunismo italiano. Non una vera e propria storia del Pci, quindi, ma piuttosto una rilettura del partito attraverso la lente del rapporto tra comunismo, cultura e società italiana. Un rapporto, evidenzia l’autore, che mutò rapidamente negli anni del miracolo economico, entrando di fatto in crisi e lasciandoci in eredità numerosi interrogativi aperti che esulano la dimensione prettamente partitica dello studio: come ripensare i rapporti democratici tra politica e cultura al di fuori della separazione liberale? Quale la dimensione democratica della cultura “nazional-popolare”?
Furono proprio questi interrogativi, ricostruisce l’autore, a guidare i tentativi di politica culturale del Pci nei decenni considerati: “il tentativo di fuoriuscire dai vincoli della separatezza senza per questo cadere nella sterile dimensione autoritativa dello ždanovismo. Il tentativo di organizzare fattivamente la gramsciana ‘guerra di posizione’, stabilendo alleanze politico-ideologiche senza disperdere, con ciò, il carattere di ‘guerra’, cioè di battaglia di civiltà che abbia, come posta in gioco, non la semplice alleanza di governo ma il superamento dei rapporti di produzione capitalistici” (pp. 9-10).
Secondo l’autore, infatti, questo superamento rimaneva l’obiettivo politico del partito togliattiano, da collocare, però, all’interno del costante tentativo di tenere insieme socialismo e democrazia. Questa fu una delle caratteristiche originali del marxismo italiano. Un marxismo storicista, sottolinea l’autore, che tentava di unificare il materialismo marxiano con le correnti democratiche della storia italiana, a partire da Croce, ma per mettersi al servizio del rinnovamento e della modernizzazione, ancora incompiuta, del paese e per superare la “crisi di civiltà borghese” manifestatasi compiutamente con le guerre mondiali. Per questo motivo, il Pci togliattiano tentò di portare avanti una politica che conciliasse gli interessi delle classi lavoratrici con quelli della nazione. Ed è qui, nella contraddizione irrisolvibile tra la matrice ideologica rivoluzionaria del partito e l’integrazione della classe operaia nello stato e nella società civile, che Barile inserisce anche l’analisi dei rapporti tra comunismo italiano, intellettuali e cultura.
Nel tentativo di governare questo processo, il Pci togliattiano agì su diversi livelli di articolazione dell’azione politica. Da una parte, il confronto con lo storicismo italiano, mediato da Gramsci, grazie a cui relazionarsi con una parte importante del mondo intellettuale dell’epoca. Dall’altra, il marxismo-leninismo di stampo stalinista, grazie a cui mantenere il legame con la base militante del partito. Si tratta di quella che è stata definita “doppia lealtà” del togliattismo. Secondo l’autore, per il Pci si trattava di accettare la politica democratica, intendendola però come una fase transitoria verso obiettivi che non si concludevano in essa. Una doppia lealtà che, quindi, non andava intesa come un sinonimo di trucco o di tattica, ma anzi come il risultato della parabola storica del comunismo italiano passato attraverso le vicende della Guerra di Spagna e della Resistenza, in cui la dirigenza comunista aveva elaborato l’idea che non fosse possibile riproporre la rivoluzione bolscevica nel paese. Il risultato, però, evidenzia ancora l’autore, fu di fatto una politica di controverso riformismo, un riformismo debole, figlio anche della rassegnata impossibilità di fatto a governare, a causa dell’interdipendenza delle vicende nazionali con la dimensione internazionale della Guerra fredda.
Questo precario equilibrio impostato dal partito funzionò nel corso del primo dopoguerra e poi fino ai primi anni Sessanta, contribuendo alla vasta opera di alfabetizzazione e nazionalizzazione delle masse ed agendo, a tutti gli effetti, come elemento di modernizzazione del paese. Il Pci riuscì anche, in mancanza di alternative di peso, a portare nel partito molte delle aspirazioni politiche e culturali che si opponevano alla Democrazia cristiana, ad aggregare consensi diffusi, non solo direttamente di classe, interessati alla redistribuzione della ricchezza prodotta. Tutto ciò entrò in crisi con il dispiegarsi degli effetti della crescita economica, dello sviluppo industriale del paese e dell’esplosione del consumismo di massa, anche culturale. Il Pci si trovò impreparato ad affrontare i cambiamenti che stavano avvenendo nella società italiana, esplicitati soprattutto dalle rivendicazioni delle nuove generazioni – consumo privato, tempo libero, produzione culturale – passando da un ruolo di modernizzazione nella società a posizioni passive e difensive. Il boom economico e i consumi di massa avevano trasformato profondamente la società italiana, mettendo in crisi le strutture di socializzazione di massa – politiche e religiose – a favore di nuove identità individuali che il partito non era più in grado di gestire e di comprendere.
L’esplosione del Sessantotto e del conflitto sociale diffuso portarono il Pci sempre di più verso lo stato e le sue istituzioni, mettendo fine definitivamente alla politica togliattiana della doppiezza, da una parte portando alla divaricazione tra il partito, incapace di ricalibrare la sua azione politico-culturale, e la società e, dall’altra parte, creando lo scontro tra partito e protesta giovanile. Con la fine della doppiezza venne meno anche lo spirito di superamento del capitalismo che aveva, seppure con tante contraddizioni, fino a quel momento animato l’azione del Pci, di fatto ponendo le basi per lo scioglimento del partito avvenuto due decenni più tardi.
Cosa rimane oggi della lunga storia del comunismo italiano? Non molto sembra dirci l’autore. E non tanto per l’assenza di studi e ricerche sul tema – nell’ultimo capitolo del libro viene effettuata un’attenta ricognizione delle pubblicazioni uscite in occasione del centenario della fondazione del Pci nel 2021 – quanto per l’assenza di prospettive politiche da parte della pubblicistica sull’argomento. Insomma, il Pci “non sembra più costituire un possibile modello a cui tendere” (p. 171) ma, nonostante “la disconnessione tra ricerca storica e proiezione politica” (p. 172) le questioni alla base del lavoro di Barile sono ancora tutte da sciogliere.
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