di Gioacchino Toni
In Sociologie du cinéma (1977) Pierre Sorlin definisce il visibile «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo […] ciò che gli spettatori accettano senza stupore, il visibile è quel che appare fotografabile e quel che appare sugli schermi di un’epoca data». Se c’è un medium che ha rappresentato la “modernità”, a partire dal suo farne parte, dal suo essere intrinsecamente “macchina della modernità”, questi è il cinema: in esso, sin dalla nascita, confluiscono l’ambito artistico-creativo e quello tecnologico, ed è proprio a causa dell’invadenza di questo ultimo che, per qualche tempo, subirà l’ostracismo degli ambienti più conservatori dalle arti tradizionali in un periodo in cui, intanto, gli artisti più innovativi stavano progressivamente allentando l’incidenza della “manualità” sulle loro produzioni, come espliciterà Duchamp, negli anni Dieci del Novecento, tanto da proporne la scomparsa attraverso i suoi ready made.
A contestare il meccanomorfismo cubo-futurista, a partire dai suoi aspetti ideologici, ha provveduto l’orda dadaista: lungi dal rappresentare un repertorio formale positivo da cui attingere acriticamente ispirazioni al contempo stilistiche e concettuali, l’universo delle macchine è stato da questi contestato e beffeggiato, reso “improduttivo”.
Come spiega Leonardo Gandini introducendo il volume da lui curato La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta (Carocci, 2005), nel complesso rapporto tra arte e tecnologia che segna il passaggio tra Otto e Novecento, per conquistarsi legittimazione artistica il cinema ha dovuto fare i conti con l’incidenza tecnologica che lo contraddistingue e lo ha fatto “antropomorfizzandosi”, così da rendere accettabile la riproduzione meccanica, vera e propria precondizione per il riconoscimento di un’estetica tecnologica. Oltre a piegarsi alla rappresentazione dell’essere umano e dei suoi sentimenti, riprendendo sintassi e temi della narrativa romanzesca, la tecnologia cinematografica, sin dalle origini, ha prestato attenzione al rapporto tra individuo e macchina attenuando e addomesticando «gli attriti che hanno inevitabilmente corredato la penetrazione capillare del mondo delle macchine in quello degli uomini». Già Walter Benjamin aveva evidenziato come la più importante tra le funzioni sociali del cinema fosse quella di creare un equilibrio tra l’essere umano e l’apparecchiatura neutralizzando i traumi indotti dalla tecnologia.
Se da un lato, sottolinea Gandini, il contributo del cinema nella messa a punto di un immaginario tecnologico si sviluppa essenzialmente in rapporto al significato e alle funzioni che la tecnologia assume nelle pratiche sociali quotidiane, dall’altro riflette «sulle premesse e le condizioni di una dialettica tra uomo e macchina che rimanda a una dialettica tra uomo e macchina da presa, senza la quale […] è di fatto preclusa la possibilità, per il cinema, di approdare ad una dimensione artistica». Insomma, il cinema, anche per autolegittimarsi, non ha potuto fare a meno di raccontare la tecnologia in quanto esso stesso soggetto tecnologico, non accontentandosi di un ruolo di mediazione del processo ma, in virtù della sua origine tecnologica, come parte in causa dei fenomeni che definiscono la modernità.
Nei diversi saggi che compongono il volume La meccanica dell’umano, viene evidenziato come nel cinema italiano compreso tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del Novecento la tecnologia rappresenti una sorta di cartina di tornasole dei traumi prodotti dalla modernità. «In quanto emblema della civiltà moderna da una parte, e luogo generatore di conflitti legati alla sua penetrazione nel tessuto sociale dall’altra, la macchina entra a far parte di un campo di riflessione del quale il cinema è, al contempo, soggetto, attraverso i film, e oggetto, in quanto prodotto tecnologico destinato a sua volta a confrontarsi e misurarsi con la dimensione sociale». Di certo, sottolinea Gandini, coniugando tecnologia e condizione urbana, il cinema non poteva che essere (anche) autoriflessivo: serialità, riproducibilità e consumo di massa sono elementi che accomunano cinema e ambito urbano, entrambi parte strutturale della modernità.
Il volume La meccanica dell’umano è suddiviso in tre parti dedicate rispettivamente agli anni Trenta, al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e il boom economico e, l’ultima, agli anni Sessanta e Settanta
La prima parte, dedicata agli anni Trenta, si compone di uno scritto di Marcia Landy, sull’immaginario tecnologico all’epoca del fascismo, e di un contributo di Raffaele De Berti, sul rapporto tra tecnologia, modernità e immaginario urbano.
Landy si sofferma: su film che narrano vicende aventi a che fare con i mezzi di comunicazione a partire dallo stesso mondo del cinema (es. La signora di tutti del 1934 di Max Ophüls); su opere che tendono a tratteggiare criticamente la vita urbana tecnologizzata, contrapponendola a una “più genuina” realtà rurale (es. Quattro passi tra le nuvole del 1942 di Alessandro Blasetti); sulla messa in scena della tecnologia in ambito produttivo (es. Acciaio del 1933 di Walter Ruttmann); sui mezzi di trasporto, come l’automobile, nel suo duplice aspetto di mezzo di lavoro o bene di lusso, il treno, come emblema di mobilità (e libertà) maschile in contrapposizione alla staticità casalinga della donna (es. Zazà del 1942 di Renato Castellani), l’aereo, come icona della modernità facilmente associato alla velocità, alla virilità e alla conquista dello spazio, con tutti i riferimenti coloniali del caso (es. Lo squadrone bianco del 1936 di Augusto Genina); sul ruolo bio-politico di controllo sui corpi sociali e individuali delle tecnologie cittadine e della comunicazione che emerge in controluce in diversi film. «Le molte (e conflittuali) immagini della tecnologia apparse sugli schermi italiani nel corso del Ventennio ci illuminano non solo sui conflitti e i cambiamenti che animavano la cultura dell’epoca, ma anche sulle loro conseguenze per la definizione di eventi successivi, ad esempio i due miracoli economici italiani che ebbero luogo rispettivamente negli anni Cinquanta-Sessanta e negli anni Settanta-Ottanta».
De Berti nota come la modernità nel cinema si manifesti più negli interni delle abitazioni e nell’abbigliamento femminile che non negli esterni. Mancando il paesaggio urbano italiano del grattacielo, cioè dell’elemento moderno per eccellenza ricorrente nelle produzioni hollywoodiane, il cinema nazionale ripiega sulla velocità: automobili, tram, treni e tutto ciò che serve per spostarsi o comunicare velocemente. Come sintetizza il cortometraggio, di esplicita matrice futurista, Stramilano del 1929 di Corrado D’Errico, tutto sembra svolgersi «sotto il segno del tempo risparmiato, grazie o a una maggiore velocità o a strumenti meccanici che compiono operazioni prima eseguite manualmente». In tale opera, sottolinea De Berti, sono presenti le tre principali “categorie” caratterizzanti la modernità: i mezzi di trasporto, le fabbriche e la merce reclamizzata dalle pubblicità ed esposta nei grandi magazzini.
Se automobili, treni e biciclette sono onnipresenti nelle commedie italiane del periodo, è con Gli uomini che mascalzoni… del 1932 di Mario Camerini che nel cinema di finzione i mezzi di trasporto divengono protagonisti del film. A dare invece immagine alle fabbriche sono film come Rotaie del 1929 di Mario Camerini e, soprattutto, Acciaio del 1933 di Walter Ruttmann. In questo ultimo caso le «vere protagoniste del film sono le scene girate all’interno degli stabilimenti e le riprese della cascata delle Marmore», a sancire come il film non contrapponga l’universo della fabbrica a quello rurale e contadino, ma punti «all’integrazione e all’armonizzazione del binomio industria/campagna».
Ad essere accuratamente evita nel cinema italiano, e non solo degli anni Trenta, sottolinea De Berti, è la vita operaia all’interno delle fabbriche; difficile renderla accattivante a spettatori a cui si vuole offrire svago. Il compito di entrare con la macchina da presa nei luoghi di lavoro viene lasciato a qualche documentario e cinegiornale, ma per magnificare l’organizzazione produttiva e la qualità dei prodotti italiani. I film, soprattutto le commedie, anziché i luoghi di produzione preferiscono offrire agli spettatori ciò che in questi si produce: le merci. Ed è proprio il favoloso mondo di queste ultime, pronte per essere sognate e acquistate, ad essere celebrato dal documentario Rinascente realizzato nel 1930-1931. Riprendendo molto da vicino il dinamismo delle riprese e il montaggio serrato di Stramilano, questo cortometraggio muto, il cui realizzatore resta ignoto, mette in scena con enfasi «la perfetta organizzazione di una grande fabbrica commerciale in grado di esaudire tutti i desideri della piccola e media borghesia urbana italiana». A questo documentario si è di certo ispirato Mario Camerini per il suo Grandi Magazzini del 1939.
Nella seconda parte del volume, dedicata al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e il boom economico, il saggio di Lucia Cardore si sofferma sulla “tecnologia motoria” presente in tante pellicole italiane, mentre invece il contributo di Paola Valentini indaga su come cambi il panorama sonoro del/nel cinema nazionale.
Cardore sostiene che, per certi versi, è come se, finita la guerra, con un Paese da ricostruire, i mezzi di locomozione – biciclette, treni, motociclette, automobili – comparissero nei film come simbolo di una fretta di ripartire avviata a trasformarsi inesorabilmente, un poco alla volta, in frenesia consumista. «Arrivati i treni dei reduci», scrive la studiosa, «partono quelli degli emigranti», come nel caso di Il cammino della speranza del 1950 di Pietro Germi e Rocco e i suoi fratelli del 1960 di Luchino Visconti. I mezzi pubblici si rivelano in alcune opere spazi di socializzazione, come il treno per le mondine in Riso amaro del 1949 di Giuseppe De Santis, l’autobus che conduce gli abitanti delle campagne e delle periferie in città in cerca di lavoro nel film Il sole negli occhi del 1953 di Pietrangeli. Il treno diviene anche il mezzo, per chi può permetterselo, per la luna di miele o microcosmo in cui mettere in scena gag comiche o melodrammi.
A partire dalla fine degli anni Quaranta «si comincia a sognare a motore»; le due ruote motorizzate contribuiscono ad affiancare alle necessità ed ai desideri tradizionali l’idea di avventura, di fuga e di vagabondaggio, non mancando di palesare come dietro al soddisfacimento di queste fantasie si celi spesso qualcosa di negativo: in L’onorevole Angelina del 1947 di Luigi Zampa la motocicletta viene acquistata con i proventi della borsa nera; in Bellissima del 1951 di Luchino Visconti la Lambretta viene pagata con i ricavi di un’attività truffaldina; in Accattone del 1961 di Pier Paolo Pasolini il protagonista perde la vita a bordo di una motocicletta rubata per fuggire a un tentativo di furto.
Se all’indomani della fine del conflitto in diversi film l’automobile assolve al ruolo di simbolo di uno status acquisito illecitamente, come in Caccia tragica del 1947 di De Santis e Gioventù perduta del 1948 di Pietro Germi, verso la metà degli anni Cinquanta, scrive Cardore, essa «si spoglia, almeno in parte, dell’aurea di trasgressione e pericolo […] per divenire oggetto di desiderio comune, coltivato con ardore dai ceti popolari, che andavano inesorabilmente omologandosi, come osserva il Pasolini degli Scritti corsari, alle abitudini e ai consumi piccolo-borghesi. Alle soglie del boom economico, l’immagine dell’auto riassume in sé i desideri di consumo, divenendone l’icona principale».
A riprova di quanto stiano cambiando le città, nei film degli anni Cinquanta non è raro imbattersi in un ingorgo, come in Il cammino della speranza del 1950 di Pietro Germi, La dolce vita del 1959 di Federico Fellini e in Nata di marzo del 1958 di Antonio Pietrangeli. Sebbene gli spostamenti avvengano più frequentemente lungo le statali e le provinciali, non mancano film in cui compaiono le autostrade, come in Cronaca di un amore del 1950 di Michelangelo Antonioni. Alle figure dei viaggiatori che attraversano il Paese in automobile tendono poi a sostituirsi i turisti, non mancando di mettere a confronto la modernità motorizzata con la realtà più arcaica del Paese. Al capolinea di questa evoluzione è forse l’incidente stradale a palesare tutti i limiti della corsa alla modernità.
Circa invece i cambiamenti del panorama sonoro del/nel cinema italiano, Valentini ricorda come mentre l’arrivo in Italia della stereofonia attorno alla metà degli anni Cinquanta si imponga celermente, decisamente meno rapida è la diffusione, nel decennio successivo, del “suono sporco” della presa diretta. Al di là di come cambi il sonoro del cinema, è interessante guardare all’avvicendarsi dei diversi dispositivi sonori che compaiono sulle pellicole. Agli esclusivi “telefoni bianchi” degli ambienti lussuosi del periodo prebellico si sostituisce il telefono come status simbol di ascesa sociale che si diffonde tra la piccola borghesia per poi disseminarsi nel paesaggio urbano. A comparire sulle pellicole e a far sognare gli italiani è la radio che il cinema segue in tutta la sua parabola che la vede passare da simbolo di agiatezza ad apparecchio ascoltato durante i lavori domestici, fino alle versioni sempre più piccole permesse dall’arrivo dei transistor che si diffondo soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Curioso è anche osservare come i riproduttori per dischi passino abbastanza speditamente da simbolo di festa e convivialità a testimoni malinconici di solitudini.
Nella terza parte del volume, dedicata agli anni Sessanta e Settanta, trovano spazio un contributo di Simone Venturini, sulla rappresentazione della tecnologia domestica, ed uno di Veronica Innocenti e Roy Menarini, sul rapporto cinema-televisione.
Nella sua analisi Venturini nota la presenza di una figura visiva ricorrente nel cinema italiano: «il dittico o il trittico di elettrodomestici che incorniciano come le pale di un altare la figura della donna». Gli elettrodomestici che compaiono in queste ambientazioni assumono «i tratti di un campo visivo “magico” che trattiene, costringe e prefigura al suo centro non solo il corpo femminile, ma l’identità e la rappresentazione stessa della famiglia, della casa». «La rappresentazione della “gabbia” della tecnologia domestica nel cinema italiano costruisce un’identità familiare ancorata a un corpo, fisico e sociale, destinato a consumarsi al suo interno». Se però negli anni Sessanta il cinema, soprattutto nella commedia, mette in scena un’opulenza illusoria, nel decennio successivo «l’illusione scompare, e a rimanere sono la lotta per la sopravvivenza, il conflitto, la crisi dei valori e gli oggetti tecnologici della casa, che continuano a testimoniare e organizzare parte del visibile cinematografico di quegli anni».
A riprova di come con la diffusione della televisione l’intera produzione audiovisiva sia soggetta a una svolta importante, è con un saggio sul rapporto cinema-televisione che si conclude il volume curato da Leonardo Gandini che ha inteso tratteggiare l’immaginario tecnologico veicolato dal cinema italiano tra gli anni Trenta e i Settanta. Gli anni Ottanta rappresentano effettivamente un momento di cambiamento importante e non solo per l’ambito audiovisivo.
Innocenti e Menarini sottolineano come il cinema italiano abbia dovuto fare i conti con la diffusione della televisione sia dal punto di vista linguistico che rappresentativo. Nel primo caso basti pensare, ad esempio, a quanto il fenomeno dei film ad episodi, diffusosi negli anni Sessanta, sia debitore nei confronti dei tempi brevi, della serialità e dei passaggi repentini tra temi e toni differenti propri del linguaggio televisivo. Dal punto di vista rappresentativo, e simbolico, il cinema – dalla commedia alle opere autoriali – dopo aver per qualche tempo guardato alla televisione soprattutto come a un «vettore di disgregazione sociale e di rinuncia estetica», sul finire degli anni Settanta ha finito per relegarla ad una presenza di paesaggio a cui non per forza di cose si deve prestare troppa attenzione. Poi, come detto, arrivano gli anni Ottanta. Non tutto, certo, ma molto cambia nella società italiana a livello audiovisivo e non solo.
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