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11/06/2025

C’era una volta il referendum

Dare una valutazione del già noto, o comunque previsto, non è esaltante. Che un referendum, in Italia, non abbia più alcuna possibilità di raggiungere il quorum – e dunque raggiungere un risultato purchessia – è una realtà così scontata da dover scoraggiare ogni tentativo in questa direzione.

Si mescolano inevitabilmente considerazioni “strutturali” e di tipo legal-costituzionale (sono due cose diverse, e sempre di più), tutte comprensibili e persino vere.

È certamente vero che un referendum può certificare solo un determinato rapporto di forza sociale, ossia la presenza o meno di movimenti di massa molto ampi che abbiano un chiaro e diretto interesse a raggiungere quel risultato. È avvenuto per il divorzio, l’aborto, la scala mobile (con esito disastroso), l’acqua pubblica. Oggi i movimenti sono dimensionalmente troppo esigui, e quindi non si può surrogare “l’interesse materiale” con la generica “opinione”.

È certamente vero che, come fanno notare i più consapevoli, gran parte dell’elettorato è ormai politicamente analfabeta, non ha più idea delle cose per cui vota. Non era così in tempi ormai sepolti, quando grandi organizzazioni di massa (partiti, sindacati, associazionismo politicamente motivato) mediavano quotidianamente la tensione tra bisogni e opinioni, e visioni del mondo. Ed è inutile piangerci sopra o peggio pensare che lo strumento – il referendum, appunto – possa di per sé risvegliare una consapevolezza che ben pochi provano a far crescere, da decenni.

È certamente vero che l’anima “oppositrice” della Cgil si risveglia dal torpore solo avanti a un governo di destra, mentre ricade in catalessi sotto un governo “amico” e persino sotto quelli “tecnici”. Ma questo l’hanno capito proprio tutti, almeno tra chi lavora (e questi ultimi non son neanche la maggioranza degli aventi diritto al voto).

È certamente vero che centrosinistra e centrodestra giocano da decenni la partita del qualunquismo motivato, disincentivando in ogni modo la partecipazione politica e riducendo i momenti elettorali a risultato di campagne di televendita più o meno efficaci (con risultati ovviamente alterni, in linea con le leggi della “concorrenza”).

È certamente vero, infine, che il quorum del 50% più uno è stato pensato in un’epoca di grande partecipazione alla lotta politica, quando i votanti alle elezioni superavano il 90%. Mentre oggi, se si dovesse applicare il quorum anche alle elezioni politiche, avremmo un Parlamento vuoto.

Ma tutte queste considerazioni risultano ben poco esaustive davanti all’involuzione “democratica” dell’Occidente neoliberista. Che non è un modo di dire da costituzionalisti pignoli, ormai, ma la realtà esplicita – e rivendicata dai governanti – della “democrazia liberale”.

Gaza e Los Angeles mostrano in diretta televisiva ciò che cresce sotto la coltre retorica di parole che non hanno più alcun rapporto con la realtà effettiva.

E se il genocidio dei palestinesi, che ha sdoganato la “banalità dell’orrore” come pratica “tollerabile”, può ancora apparire come una questione “tra popoli diversi” (anziché come politica coloniale di rapina e sterminio), è dalla California che arriva forse il segnale più chiaro di dove stia portando la crisi dell’Occidente.

La regione più multietnica di un paese nato sul genocidio dei nativi e l’immigrazione coloniale diventa teatro di una “guerra civile” non più tanto “strisciante”. I margini si restringono e la loro appropriazione diventa privilegio di sempre più pochi. L’aggressività imperialista, perciò, si introverte all’interno. Il “fronte” è anche dentro, non solo “fuori”.

Quella – questa – è la parte di mondo in cui ci è capitato di vivere oggi. Non la cambieremo con un referendum...

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