Attesa per il discorso davanti al Congresso, dove tra i tanti tagli alla
spesa sarà proposta anche la riduzione dell'arsenale nucleare Usa. Forse
addirittura del 30%.
Questa non è una crisi come le altre, si è detto. I movimenti
tettonici sotto l'apparente continuità della vita e del business hanno
le dimensioni della deriva dei continenti, non delle piccole scosse di
assestamento.
I segnali sono molti, ma vanno tutti decifrati,
perché nessuno dei protagonisti – i dirigenti principali dei paesi
principali – dirà chiaramente come stanno le cose. Decifrando,
naturalmente, si può commettere qualche errore. Ma è assolutamente
necessario fare delle “inferenze” a partire da dati sparsi che
altrimenti non verrebbero mai collegati.
Un segnale chiaro viene
dagli Usa, dove si attende il prossimo discorso di Obama, domani,
davanti al Congresso. Un tema, soprattutto, sarà da tener d'occhio:
dalle anticipazioni (pubblicate ormai anche sul New York Times)
si sa che Obama proporrà una sostanziale riduzione dell'arsenale
nucleare Usa. Nelle discussioni preparatorie con lo staff, il presidente
avrebbe calcolato un taglio di circa un terzo delle testate Usa sparse
in giro per il mondo, portando così la dotazione di testate da 1.700 a
circa un migliaio. In un recente trattato firmato con la Russia (2010)
l'impegno era per una riduzione a 1.550 entro il 2018. Quindi si tratta
di un'accelerazione notevole, per tempi e dimensioni.
I
progressisti ingenui, che restano estasiati ad ogni parola del primo
presidente nero nella storia Usa, certamente ci spiegheranno che ciò
avviene perché Obama pensa finalmente di guadagnarsi quel premio Nobel
per la pace che gli è stato attribuito “in anticipo”. Qualcuno accentuerà
il suo “pacifismo” (di cui peraltro non si è vista traccia nei primi
quattro anni di mandato), altri – più navigati – centreranno
l'attenzione sul suo “pragmatismo”.
Lo stesso New York Times,
del resto, mette esplicitamente in relazione la proposta di taglio con
la necessità di risparmiare, di ridurre la spesa pubblica statunitense.
E, come sappiamo, entro la fine di febbraio andrà trovato l'accordo con i
repubblicani del Congresso per la fissazione del nuovo “tetto” del
debito pubblico Usa, altrimenti si andrà al terribile “fiscal cliff”
(precipizio fiscale) determinato dalla riduzione automatica (“lineare”,
diremmo in Italia) delle spese dell'amministrazione.
La
riduzione dell'arsenale nucleare, dunque, farebbe parte del “pacchetto”
di proposte che Obama avanzerà ai suoi avversari in parlamento, che
invece punteranno ancora una volta sulla cancellazione del poco di
welfare esistente laggiù.
È indubbio che – dal punto di vista
dello statunitense medio – sia meglio ridurre la spesa militare
piuttosto che quella sanitaria o assistenziale. Ma, visto che non siamo
statunitensi medi, preferiamo concentrarci sul perché – per la prima
volta nella storia Usa – il governo ritenga necessario tagliare la spesa
in armamenti.
La crisi, ovviamente. Ma altre crisi c'erano
state, e spesso la risposta era stata anche di tipo “keynesiano
militare”. Si spendeva di più in armamenti, si partiva per qualche
guerra contro avversari di basso livello, per “stimolare” la crescita.
Oggi no. Libia e Mali sono state iniziative francesi (e inglesi), in
Siria la situazione è in stallo perché stavolta gli Usa non ci hanno
ancora visto un guadagno certo.
È anche vero che le testate
nucleari esistenti sono molte volte più numerose di quante ne bastino
per distruggere totalmente la civiltà moderna, se non addirittura la
vita sul pianeta (anche perché bisogna computare anche quelle presenti
negli arsenali russi, cinesi, indiani, inglesi, francesi, pakistani,
israeliani). E quindi si può tagliarne un buon numero senza
compromettere le capacità offensive del Pentagono, risparmiando sulla
manutenzione più costosa esistente.
Ma è comunque un segnale di
difficoltà pesante per l'egemonia imperialistica Usa. E fa il paio con
la proposta di apertura di un negoziato per arrivare alla creazione di
un “mercato unico” euro-statunitense. Una vera inversione di tendenza,
un arresto “sistemico”.
Si è scritto sempre che l'egemonia
imperiale si reggeva sul binomio “moneta e navi”. Gli Usa sono solo
l'ultimo esempio di imperialismo classico, in cui la potenza egemone può
emettere qualsiasi quantità di moneta nazionale e imporla al mondo come
moneta di scambio e di riserva, comprando con quella moneta – non con
“ricchezza reale” – tutto ciò che serve a mantenere una potenza militare
straripante e livelli di benessere diffuso “anti-rivolta” all'interno
del proprio territorio.
La riduzione della spesa militare, per
un paese del genere, non è dunque una “normale” misura di risparmio, ma
la dimostrazione evidente che il meccanismo fin qui funzionante (moneta
“imperiale” contro beni reali, camuffamento di una rapina su scala
globale)... non funziona più. Che ci sono problemi a livello della
moneta (aumentano gli scambi mondiali denominati in euro e, nell'area
asiatica in yuan cinesi), della produzione (la delocalizzazione ha i
suoi feedback molto negativi) e quindi anche del mantenimento di un “complesso militare-industriale” che fin qui non si era posto limiti.
Sta accadendo qualcosa di nuovo, nel mondo. È ora di accorgersene.
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