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11/02/2013

La crisi spinge Obama a tagliare le testate nucleari

Attesa per il discorso davanti al Congresso, dove tra i tanti tagli alla spesa sarà proposta anche la riduzione dell'arsenale nucleare Usa. Forse addirittura del 30%.
Questa non è una crisi come le altre, si è detto. I movimenti tettonici sotto l'apparente continuità della vita e del business hanno le dimensioni della deriva dei continenti, non delle piccole scosse di assestamento.

I segnali sono molti, ma vanno tutti decifrati, perché nessuno dei protagonisti – i dirigenti principali dei paesi principali – dirà chiaramente come stanno le cose. Decifrando, naturalmente, si può commettere qualche errore. Ma è assolutamente necessario fare delle “inferenze” a partire da dati sparsi che altrimenti non verrebbero mai collegati.

Un segnale chiaro viene dagli Usa, dove si attende il prossimo discorso di Obama, domani, davanti al Congresso. Un tema, soprattutto, sarà da tener d'occhio: dalle anticipazioni (pubblicate ormai anche sul New York Times) si sa che Obama proporrà una sostanziale riduzione dell'arsenale nucleare Usa. Nelle discussioni preparatorie con lo staff, il presidente avrebbe calcolato un taglio di circa un terzo delle testate Usa sparse in giro per il mondo, portando così la dotazione di testate da 1.700 a circa un migliaio. In un recente trattato firmato con la Russia (2010) l'impegno era per una riduzione a 1.550 entro il 2018. Quindi si tratta di un'accelerazione notevole, per tempi e dimensioni.

I progressisti ingenui, che restano estasiati ad ogni parola del primo presidente nero nella storia Usa, certamente ci spiegheranno che ciò avviene perché Obama pensa finalmente di guadagnarsi quel premio Nobel per la pace che gli è stato attribuito “in anticipo”. Qualcuno accentuerà il suo “pacifismo” (di cui peraltro non si è vista traccia nei primi quattro anni di mandato), altri – più navigati – centreranno l'attenzione sul suo “pragmatismo”.

Lo stesso New York Times, del resto, mette esplicitamente in relazione la proposta di taglio con la necessità di risparmiare, di ridurre la spesa pubblica statunitense. E, come sappiamo, entro la fine di febbraio andrà trovato l'accordo con i repubblicani del Congresso per la fissazione del nuovo “tetto” del debito pubblico Usa, altrimenti si andrà al terribile “fiscal cliff” (precipizio fiscale) determinato dalla riduzione automatica (“lineare”, diremmo in Italia) delle spese dell'amministrazione.

La riduzione dell'arsenale nucleare, dunque, farebbe parte del “pacchetto” di proposte che Obama avanzerà ai suoi avversari in parlamento, che invece punteranno ancora una volta sulla cancellazione del poco di welfare esistente laggiù.

È indubbio che – dal punto di vista dello statunitense medio – sia meglio ridurre la spesa militare piuttosto che quella sanitaria o assistenziale. Ma, visto che non siamo statunitensi medi, preferiamo concentrarci sul perché – per la prima volta nella storia Usa – il governo ritenga necessario tagliare la spesa in armamenti.

La crisi, ovviamente. Ma altre crisi c'erano state, e spesso la risposta era stata anche di tipo “keynesiano militare”. Si spendeva di più in armamenti, si partiva per qualche guerra contro avversari di basso livello, per “stimolare” la crescita. Oggi no. Libia e Mali sono state iniziative francesi (e inglesi), in Siria la situazione è in stallo perché stavolta gli Usa non ci hanno ancora visto un guadagno certo.

È anche vero che le testate nucleari esistenti sono molte volte più numerose di quante ne bastino per distruggere totalmente la civiltà moderna, se non addirittura la vita sul pianeta (anche perché bisogna computare anche quelle presenti negli arsenali russi, cinesi, indiani, inglesi, francesi, pakistani, israeliani). E quindi si può tagliarne un buon numero senza compromettere le capacità offensive del Pentagono, risparmiando sulla manutenzione più costosa esistente.

Ma è comunque un segnale di difficoltà pesante per l'egemonia imperialistica Usa. E fa il paio con la proposta di apertura di un negoziato per arrivare alla creazione di un “mercato unico” euro-statunitense. Una vera inversione di tendenza, un arresto “sistemico”.

Si è scritto sempre che l'egemonia imperiale si reggeva sul binomio “moneta e navi”. Gli Usa sono solo l'ultimo esempio di imperialismo classico, in cui la potenza egemone può emettere qualsiasi quantità di moneta nazionale e imporla al mondo come moneta di scambio e di riserva, comprando con quella moneta – non con “ricchezza reale” – tutto ciò che serve a mantenere una potenza militare straripante e livelli di benessere diffuso “anti-rivolta” all'interno del proprio territorio.

La riduzione della spesa militare, per un paese del genere, non è dunque una “normale” misura di risparmio, ma la dimostrazione evidente che il meccanismo fin qui funzionante (moneta “imperiale” contro beni reali, camuffamento di una rapina su scala globale)... non funziona più. Che ci sono problemi a livello della moneta (aumentano gli scambi mondiali denominati in euro e, nell'area asiatica in yuan cinesi), della produzione (la delocalizzazione ha i suoi feedback molto negativi) e quindi anche del mantenimento di un “complesso militare-industriale” che fin qui non si era posto limiti.

Sta accadendo qualcosa di nuovo, nel mondo. È ora di accorgersene.

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