di Vincenzo Maddaloni
Quando, giovedì 18 maggio
del 1989, piazza Tienanmen si gonfiò di operai, contadini, massaie, in
aggiunta alle migliaia di studenti impegnati in un drammatico sciopero
della fame che li abbatteva a decine per sfinimento, e mentre l'esempio
di Pechino veniva seguito dalle altre maggiori città del Paese, il sogno
di libertà e democrazia sembrava - 25 anni fa - a portata di mano in
Cina.
Infatti, non c'era stata nessuna violenza da parte dei
dimostranti, i militari s'erano dichiarati non disposti a marciare
«contro i nostri figli», le reiterate promesse di Zhao Zyang, segretario
del Partito comunista cinese (che poi sarà punito dal regime cinese
con gli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta all'età di 85
anni nel 2005), tutto insomma sembrava presagire l'arrivo di una
"primavera" che si andava delineando da tempo e che si manifestava
apertamente alla vigilia della visita in Cina del segretario del Pcus
Michail Gorbaciov. Siccome gli studenti avevano cominciato a chiedere
una informazione senza bavaglio, i giornali erano come non mai, in
quei giorni, un osservatorio privilegiato su quanto andava accadendo.
"Hanno
ragione gli studenti ad esigere la libertà di stampa», mi diceva Fan
Rong Kang, "fanno bene i giornalisti ad accodarsi al loro coro: bisogna
cambiare». Il signor Rong Kang a quel tempo era il vice direttore del Quotidiano del Popolo,
4 milioni di copie, l'organo del Partito. L'avevo incontrato
nell'ultimo giorno del vertice russo-cinese, che era stato l' esatto
contrario di quel "momento storico" che tutti noi “inviati a Pechino” ci
eravamo immaginato di descrivere.
Le giornate di Michail Gorbaciov in Cina dovevano essere per Deng
Xiaoping le giornate del trionfo, il punto culminante dei suoi
settant'anni di carriera politica, che coprono la gran parte della
storia del comunismo cinese. Deng rappresentava negli Anni '49-'58
l'amicizia con l'Urss, poi la rottura, della quale fu uno dei massimi
protagonisti, il più esposto alle umiliazioni quando Krusciov nel luglio
del 1960 ritirò i tecnici e i crediti con i quali la Repubblica
popolare iniziava a risollevarsi dai disastri della guerra.
Il
fatto che Gorbaciov avesse finito con l'accettare tutte le richieste
poste dalla diplomazia cinese doveva essere appunto per Deng Xiaoping il
coronamento della sua carriera di leader. Invece, dapprima la rivolta
degli studenti che agitavano striscioni con su scritto "Liberiamo la
Cina dal feudalesimo", e "Benvenuto compagno Gorbaciov, iniziatore della
glasnost", e poi il dilagare della protesta nel Paese, gli
avevano non soltanto eroso il prestigio, ma anche guastato la festa
facendo prevalere, su ogni altra, l'immagine della gravissima crisi che
stava vivendo nel 1989 il regime comunista cinese.
«La
stampa ha la sua grande parte di colpa - mi spiegava Fan Rong Kang - i
guai sono cominciati verso la fine di Aprile, quando gli studenti sono
andati a protestare davanti alla sede del Partito. Sono nati dei
tafferugli, gli studenti sostenevano di essere stati duramente picchiati
dalle forze dell'ordine. Queste affermavano il contrario. I giornali
hanno taciuto, a cominciare dal mio. Sarebbe bastato riportare le due
versioni. Non lo si è fatto poiché, come è abitudine nei sistemi
socialisti, le notizie non vengono diffuse prima che le indagini siano
concluse. L'eccessiva prudenza, questa volta, ci si è rivelata fatale».
Per
giorni e giorni c'eravamo chiesti come sarebbe finito l'assedio di
piazza Tienanmen. Se avrebbe prevalso la ragione cercando il dialogo con
la società e cogliendo l'occasione per ampliare alla sfera politica il
rinnovamento già attuato in quella economica. Invece prevalse il folle
istinto della restaurazione, tremenda fu la controffensiva di un gruppo
di potere che si sdraiò sulle baionette dei suoi soldati lanciando
anatemi contro «le forze controrivoluzionarie» che andavano liquidate
con «una guerra ad oltranza».
Così, con raffiche delle mitragliatrici s'era disintegrata la
posizione di prestigio che la Cina s'era conquistata in dieci anni di
riforme. Il bagno di sangue l'aveva di nuovo isolata dal resto del
mondo, aveva dissolto l'immagine di Paese pragmatico, interessato
soprattutto alla crescita economica che Deng aveva pazientemente tessuto
per quasi un decennio conquistandosi la popolarità internazionale.
E'
proprio l'enormità del massacro, visto da milioni di occhi collegati
via satellite alla piazza Tienanmen, che condannò la Cina al più cupo
isolamento. La sproporzionata repressione, il ricorso al linguaggio del
comunismo "puro e duro", l'improvvisa marcia indietro, restano a
tutt'oggi incomprensibili. A meno che non si cerchi una spiegazione di
quanto è accaduto nella Storia stessa della Cina. Infatti, il rifiuto
d'una cultura arcaica che da secoli s'oppone ai cambiamenti, era stato
da sempre il filo conduttore delle rivolte studentesche: dal 1919 alla
guerriglia contro il Kuornintang, alla Rivoluzione culturale, ai moti
del '74 e del '78 contro il maoismo, alle dimostrazioni per la
democrazia dell'86 e dell'aprile-maggio di 25 anni fa. «Non ci
accontentiamo di diventare adulti», gridavano i ragazzi cinesi.
«Vogliamo diventare uomini».
Ricordo che in piazza Tienanmen
avevano innalzato lo stesso tatzebao che un anno prima era affisso nel
campus di Beida, il più prestigioso ateneo di Pechino. Vi era scritto:
«Siamo una generazione con il senso dell'individualismo e
dell'inventiva, ricca di ideali che la danneggiano, piena di curiosità
inopportune, considerata l'atmosfera. Vorremmo dare un nostro
contributo, ma le aspirazioni battono il naso nella realtà, i progetti
si dimostrano inattuabili, lo spirito fa a pugni con il corpo. Che
tristezza! I sogni e l'entusiasmo muoiono, a causa della contraddizione
fra i diritti con cui ogni essere umano nasce e le catene che gli
vengono imposte». E poi c'era la chiusa contro il potere: «Il Governo ci
ha dato un po' di benessere, ma sul piano morale nulla: non ha valori
da proporre alla società se non il valore dei soldi».
Gli
universitari chiedevano la modernizzazione nella quale la democrazia,
una democrazia minima, di base - libertà d'espressione, di riunione, di
stampa - rappresentava soltanto l'aspetto politico. Più importanti erano
le loro richieste d'ordine morale (pulizia nell'apparato
amministrativo, lotta alla corruzione), e d'ordine culturale, che sono
poi le caratteristiche del movimento studentesco cinese a cominciare
dalla sua nascita, 95 anni fa, il 4 maggio del 1919.
«L'immagine
che i giovani hanno oggi della classe al potere è la peggiore di questi
quarant'anni per via della corruzione dilagante, con migliaia di
funzionari del partito sotto inchiesta; per via degli squilibri che la
riforma ha provocato nella società: la nuova povertà dei salariati e la
nuova ricchezza dei piccoli imprenditori, dei commercianti, dei
burocrati, che per firmare una licenza esigono tangenti», mi diceva Shen
Rong, quasi certamente la più impegnata scrittrice cinese del
Novecento.
Avevo chiesto a Shen Rong se davanti alla sfida della
piazza, una sfida pacifica ma non per questo meno rivoluzionaria, il
potere cinese avrebbe potuto cavalcare la tigre del malcontento aprendo
alla democrazia con una soluzione "gorbacioviana". Lei aveva risposto
richiamandosi al concetto chiave della civiltà cinese, quello
dell'armonia sulla quale andrebbero monitorati i rapporti tra gli
uomini. «Non possiamo compiere fughe in avanti. Con questo non voglio
dire che non bisogna aprire alle tecnologie occidentali, ma tutte queste
iniziative vanno intraprese cercando nel frattempo di imporre alla
nostra società una crescita armoniosa. E non ci può essere armonia se
accanto ai nuovi ricchi c'è una massa con degli stipendi da fame».
Più
o meno ella mi aveva ripetuto quello che Lu Xun, l'ideologo della prima
rivoluzione studentesca, scrisse nel 1919: «Il Paese corre verso il
baratro. Ciò accade perché non possediamo una nuova morale e una nuova
scienza. Ciò accade perché abbiamo una cultura che fa pietà, dopo essere
stata tante volte demolita e tante volte rabberciata».
Venticinque
anni dopo c'è ancora il silenzio su quelle immagini dei morti di piazza
Tienanmen. Non c'è stato un chiarimento sulle cause vere che avevano
provocato quella primavera di sangue. Cosa gridavano gli studenti in
quei giorni di giugno del 1989? Gridavano: «Non ci proponiamo di
abbattere il partito, ma semplicemente di spingerlo a prendere coscienza
dei grandi cambiamenti che è stato capace di produrre negli ultimi
dieci anni e ad adeguarvisi».
Chiedevano il riscatto dell'utopia
cinese classica della Grande Armonia, secondo la quale la democrazia va
appunto intesa come la grande armonia. Di fronte ai problemi di sempre:
disoccupazione, sovrappopolazione, corruzione i giovani avevano
rispolverato il concetto della Grande Armonia, senza sapere che né Zhao
Ziyang, né tanto meno Li Peng avrebbero potuto creare dal nulla i dieci
milioni di posti di lavoro per gli altrettanti studenti che si sarebbero
diplomati nei tre anni successivi.
Tuttavia, quale altra
protesta potevano sollevare se la loro esperienza storica sul progresso e
sulla democrazia era tutta racchiusa negli ultimi 80 anni di Storia
della Cina: il crollo del Celeste Impero, l'assorbimento del marxismo
ancora in chiave confuciana, la rivoluzione di Mao, le riforme di Deng?
Beninteso che le riforme, la politica della "porta aperta", la "grande
apertura verso il mondo" avessero provocato storture e malesseri era
prevedibile da tutti, ma nessuno si aspettava di vedere falciare tanti
giovani dai cingoli dei carri armati. Meno che mai gli studenti di
piazza Tienanmen.
Invece,
dopo il massacro di quel 4 giugno del 1989 accanto a Deng Xiaoping
riapparvero gli ottuagenari, i conservatori del "Consiglio dei saggi"
usciti dalle tenebre dove erano stati ricacciati dal Congresso del 1987.
Le telecamere si posarono su quei visi immobili, su quella
gerontocrazia della Lunga Marcia che accumulava sospetti sulla perestrojka e sulla glasnost,
moltiplicava le diffidenze sulla sincerità riformista di Gorbaciov e
sul successo duraturo delle sue trasformazioni. Del resto la Cina con
quel processo di “apertura" s'era già spinta più avanti della Russia di
Gorbaciov. Una classe media si stava già consolidando, gli studenti
educati con gli slogan della “porta aperta” esigevano una nuova morale,
l'ala del partito che faceva capo a Zhao Zyang considerava già
inevitabile il varo d'una riforma politica.
Nel 1989 in Cina,
l'egualitarismo, l'obbedienza, il sacrificio erano diventati concetti
desueti. Le riforme economiche stavano uccidendo la vecchia ideologia,
senza crearne una nuova, perché il Pcc, una volta sfaldatasi la retorica
socialista, non aveva saputo far altro che tentare la via del
pragmatismo, che era stata poi quella che aveva dato lo spunto alla
contestazione studentesca. Poi, come accadde nel 1966 ai tempi della
rivoluzione culturale, la Cina fu riportata all'ordine dai militari e fu
annunciato il nuovo rigore dal quale avrebbe dovuto nascere la nuova
Grande Armonia orchestrata dai militari. Sicché Deng, l'uomo delle
riforme che sembrava guardare con simpatia alla Russia di Gorbaciov, si
consacrerà alla Storia come l'uomo che il 4 giugno del 1989 in piazza
Tienanmen seppellì nel sangue un sogno.
A ben vedere, il "Diario
di un Pazzo", scritto e pubblicato nel 1918, conserva il sapore della
profezia, poiché Lu Xun - l'autore - raccolse l'appello comune che
avrebbero voluto lanciare all'unisono tutti i giovani intellettuali
cinesi dell'epoca, le cui idee nuove, le cui speranze, venivano
frustrate dall'apatia, dalla rassegnazione, e dall'ottusità delle classi
dirigenti e della società stessa. «Dovete cambiare, cambiare dal
profondo dei vostri cuori. Dovete capire che non ci sarà più posto per i
mangiatori di uomini in futuro. Se voi non cambiate, finirete tutti
mangiati, gli uni dagli altri... finirete uccisi come i lupi dai
cacciatori, come i rettili!». A distanza di così tanto tempo il suo
appello è quanto mai attuale, e non soltanto in Cina. Provate a
pensarci.
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