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17/12/2014

La partita di Renzi e il futuro dell’Europa

Renzi ha capito che la sua sopravvivenza politica si gioca in Europa. Per quanti effetti speciali possa mettere in campo in Italia, il suo futuro politico non dipende dal Parlamento, dalla “sinistra PD”, dal patto del Nazareno o dall’elezione del capo dello Stato. Oltre che il primo ministro, un altro che sembra averlo compreso è Eugenio Scalfari. L’editoriale di ieri, domenica 14 dicembre, è in questo senso oltremodo esplicito: “la partita dell’Italia si gioca interamente in Europa”. L’aspetto interessante sta tutto nell’uso dell’avverbio “interamente”, che descrive finalmente un ragionamento politico compiuto da parte di un personaggio che, sebbene da posizioni opposte, sembra aver capito la vera posta in palio dei prossimi mesi e anni. Renzi deve convincere la Commissione Europea per poter sopravvivere in Italia. Solo dalla UE possono arrivare quegli strumenti economici – dunque politici – capaci di mantenere a livelli accettabili quel consenso elettorale che altrimenti si sarebbe eroso da tempo. Ma per concederli, l’Unione Europea deve avere la sicurezza di avere mano libera per le proprie politiche produttive. Deve cioè poter usufruire dei territori posti sotto la propria competenza, senza intoppi determinati dai problemi di consenso dei vari governanti locali.

Da questo punto di vista, il governatore della banca centrale tedesca Jens Weidmann ha esplicitato la linea politica della UE: il futuro della UE è verso una sempre maggiore integrazione economica e politica, centralizzando le politiche economiche a Bruxelles, togliendole alle disponibilità dei singoli Stati. Un unico debito sovrano, un unico mercato del lavoro, un’unica politica fiscale. Potrebbero sembrare ovvietà, visto che tale disegno è palese e cerchiamo di smascherarlo quotidianamente. Dette però dentro una crisi economica e di consenso di cui non si vede uscita, assumono tutt’altro spessore. Il significato da leggere dietro le parole del governatore della banca tedesca è allora questo: la crisi non indebolisce il progetto europeista, anzi lo rafforza. E’ un’opportunità di cambiamento, portando a compimento quei processi che la crescita economica impediva, vuoi per la tendenza allo status quo benestante, vuoi per le riottosità della Francia e dell’Inghilterra ad una maggiore devoluzione di poteri politici.

Leggere allora la crisi come intoppo del processo di formazione della nuova entità statale sovranazionale è completamente errato. L’intoppo è la crescita, non la crisi, che invece apre le porte alla riscrittura generale dei rapporti lavorativi, puntando alla costruzione di un nuovo competitor geopolitico imperialista capace di costruire al suo interno quelle sacche di povertà lavorativa capaci di reggere la corsa al ribasso della competizione produttiva internazionale. La delocalizzazione, le esternalizzazioni, le riconversioni industriali, saranno possibili all’interno del contesto europeo, non andando a rafforzare la produttività di altri paesi. Questo impone un percorso di polarizzazione sociale: da una parte una media-ricca borghesia capace di reggere una parte del consumo interno; dall’altra una massa sociale de-contrattualizzata su cui si fonderà la capacità economica continentale.

Questo processo porterà allora al ritorno della crescita economica in futuro. Ma sarà una crescita che non trainerà più i salari e le condizioni medie di vita dei lavoratori, vista la tendenza a ridurre il consumo interno in funzione di una politica economica centrata sull’export competitivo. Questo renderà anche strutturale un alto livello di disoccupazione, strumento principale con cui viene governata la dinamica salariale nei paesi capitalisti. Insomma, se per l’accumulazione capitalista la crisi prima o poi troverà una sua soluzione (se mai si fosse inceppata, potremmo aggiungere), questo non avverrà per il mondo del lavoro, che invece dovrà abituarsi ad un processo di costante e irreversibile impoverimento. Uno scenario che dovremmo sempre più avere in mente quando parliamo di ipotesi riformiste. In tal senso l’ipotesi riformista è politicamente impossibile. Per darsi, infatti, il riformismo ha bisogno di una crescita economica capace di dare sostanza alla mediazione politica. E’ sulla crescita che trovano terreno le politiche redistributive capaci di innalzare economicamente il tenore di vita dei lavoratori inseriti nel processo produttivo, mantenere una “classe media” improduttiva e dare sostanza all’azione politica riformista. Lo scenario della crisi accentua la polarizzazione non solo sociale, ma anche politica. Nella crisi classi spurie e rispettive rappresentanze politiche perdono capacità d’aggregazione. Un terreno potenzialmente favorevole, se ci fosse un soggetto politico all’altezza dei tempi.

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