Renzi ha capito che la sua sopravvivenza
politica si gioca in Europa. Per quanti effetti speciali possa mettere
in campo in Italia, il suo futuro politico non dipende dal Parlamento,
dalla “sinistra PD”, dal patto del Nazareno o dall’elezione del capo
dello Stato. Oltre che il primo ministro, un altro che sembra averlo
compreso è Eugenio Scalfari. L’editoriale di ieri, domenica 14 dicembre, è in questo senso oltremodo esplicito: “la partita dell’Italia si gioca interamente
in Europa”. L’aspetto interessante sta tutto nell’uso dell’avverbio
“interamente”, che descrive finalmente un ragionamento politico compiuto
da parte di un personaggio che, sebbene da posizioni opposte, sembra
aver capito la vera posta in palio dei prossimi mesi e anni. Renzi deve
convincere la Commissione Europea per poter sopravvivere in Italia. Solo
dalla UE possono arrivare quegli strumenti economici – dunque politici – capaci
di mantenere a livelli accettabili quel consenso elettorale che
altrimenti si sarebbe eroso da tempo. Ma per concederli, l’Unione
Europea deve avere la sicurezza di avere mano libera per le proprie
politiche produttive. Deve cioè poter usufruire dei territori posti
sotto la propria competenza, senza intoppi determinati dai problemi di
consenso dei vari governanti locali.
Da questo punto di vista, il governatore
della banca centrale tedesca Jens Weidmann ha esplicitato la linea
politica della UE: il futuro della UE è verso una sempre maggiore
integrazione economica e politica, centralizzando le
politiche economiche a Bruxelles, togliendole alle disponibilità dei
singoli Stati. Un unico debito sovrano, un unico mercato del lavoro,
un’unica politica fiscale. Potrebbero sembrare ovvietà, visto che tale
disegno è palese e cerchiamo di smascherarlo quotidianamente. Dette però
dentro una crisi economica e di consenso di cui non si vede uscita,
assumono tutt’altro spessore. Il significato da leggere dietro le parole
del governatore della banca tedesca è allora questo: la crisi non
indebolisce il progetto europeista, anzi lo rafforza. E’ un’opportunità
di cambiamento, portando a compimento quei processi che la crescita
economica impediva, vuoi per la tendenza allo status quo benestante,
vuoi per le riottosità della Francia e dell’Inghilterra ad una maggiore
devoluzione di poteri politici.
Leggere allora la crisi come intoppo del
processo di formazione della nuova entità statale sovranazionale è
completamente errato. L’intoppo è la crescita, non la crisi, che invece
apre le porte alla riscrittura generale dei rapporti lavorativi,
puntando alla costruzione di un nuovo competitor geopolitico
imperialista capace di costruire al suo interno quelle sacche di povertà
lavorativa capaci di reggere la corsa al ribasso della competizione
produttiva internazionale. La delocalizzazione, le esternalizzazioni, le
riconversioni industriali, saranno possibili all’interno del
contesto europeo, non andando a rafforzare la produttività di altri
paesi. Questo impone un percorso di polarizzazione sociale: da una parte
una media-ricca borghesia capace di reggere una parte del consumo
interno; dall’altra una massa sociale de-contrattualizzata su cui si
fonderà la capacità economica continentale.
Questo processo porterà allora al
ritorno della crescita economica in futuro. Ma sarà una crescita che non
trainerà più i salari e le condizioni medie di vita dei lavoratori,
vista la tendenza a ridurre il consumo interno in funzione di una
politica economica centrata sull’export competitivo. Questo renderà
anche strutturale un alto livello di disoccupazione, strumento
principale con cui viene governata la dinamica salariale nei paesi
capitalisti. Insomma, se per l’accumulazione capitalista la crisi prima o
poi troverà una sua soluzione (se mai si fosse inceppata, potremmo
aggiungere), questo non avverrà per il mondo del lavoro, che invece
dovrà abituarsi ad un processo di costante e irreversibile
impoverimento. Uno scenario che dovremmo sempre più avere in mente
quando parliamo di ipotesi riformiste. In tal senso l’ipotesi riformista
è politicamente impossibile. Per darsi, infatti, il riformismo ha
bisogno di una crescita economica capace di dare sostanza alla
mediazione politica. E’ sulla crescita che trovano terreno le politiche
redistributive capaci di innalzare economicamente il tenore di vita dei
lavoratori inseriti nel processo produttivo, mantenere una “classe
media” improduttiva e dare sostanza all’azione politica riformista. Lo
scenario della crisi accentua la polarizzazione non solo sociale, ma
anche politica. Nella crisi classi spurie e rispettive rappresentanze
politiche perdono capacità d’aggregazione. Un terreno potenzialmente
favorevole, se ci fosse un soggetto politico all’altezza dei tempi.
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