di Michele Paris
L’assassinio nel pieno centro di Mosca del leader dell’opposizione
“liberale” russa, Boris Nemtsov, come prevedibile è stato sfruttato da
governi e media ufficiali in Occidente per orchestrare una nuova
campagna di discredito nei confronti di Vladimir Putin. Se nessuno, o
quasi, ha per ora collegato l’esecuzione del 55enne ex vice-primo
ministro direttamente al Cremlino, le reazioni isteriche registrate a
Washington, Londra e Berlino, assieme alle dichiarazioni di condanna e
alle richieste per una rapidissima indagine sull’accaduto, intendono
lanciare un messaggio inequivocabile: cioè che il responsabile quanto
meno morale dell’accaduto non può essere altri che lo stesso presidente
russo.
Il premier britannico David Cameron, dopo avere invocato
un’indagine “trasparente”, apparentemente senza imbarazzo, ha elogiato
il defunto Nemtsov per la sua “vita dedicata a un impegno instancabile
per il popolo russo, per il diritto alla democrazia e per la libertà”,
nonché per mettere “fine della corruzione”.
Identico auspicio per
lo scioglimento rapido del mistero dell’assassinio è stato espresso
dalla Casa Bianca, da dove Nemtsov è stato definito un “instancabile
difensore dei diritti dei cittadini”. Angela Merkel, a sua volta, si è
detta “sconvolta” dalla morte di quest’ultimo, per poi celebrare il suo
“coraggio nel criticare le politiche del governo” di Mosca.
Accuse
più esplicite a Putin per avere causato per lo meno indirettamente la
morte di Nemtsov sono giunte invece prevalentemente dai commentatori
dei giornali “mainstream” occidentali, da politici che ruotano attorno
all’opposizione “non ufficiale” e filo-occidentale russa o, ancora, dai
deliri senili di “falchi” come il senatore repubblicano americano John
McCain.
A seconda dei casi, Putin sarebbe così responsabile di
avere creato un “clima di odio” tra la popolazione che ha portato
all’assassinio di Nemtsov (New York Times) o un “clima di
impunità”, nel quale gli oppositori del Cremlino “vengono costantemente
perseguitati e attaccati, anche dal governo russo, per le loro idee”
(McCain).
Al di là della pressoché innegabile natura autoritaria
del governo di Vladimir Putin, una riflessione razionale sui fatti di
venerdì scorso a Mosca non può che confermare la totale incertezza sui
veri responsabili dell’assassinio di Nemtsov.
Le modalità e i
tempi dell’esecuzione, inoltre, sollevano parecchie perplessità, poiché
sembrano essere stati scelti dagli assassini proprio per dare il
maggiore rilievo possibile all’evento. Infatti, il politico russo è
stato ucciso nei pressi del Cremlino e meno di due giorni prima di una
manifestazione di piazza dell’opposizione che egli stesso avrebbe dovuto
guidare.
Se Putin o qualcuno della sua cerchia fossero stati i
mandanti, è evidente che avrebbero commesso un clamoroso autogol, alla
luce delle prevedibili reazioni in Occidente in un momento in cui le
tensioni sono già alle stelle per la crisi in Ucraina. Da tenere in
considerazione, inoltre, il fatto che Nemtsov rappresentava una
modestissima minaccia per il Cremlino, se non, al limite, nella misura
in cui avrebbe potuto rientrare in un disegno per il cambio di regime a
Mosca orchestrato da Washington sul modello di quanto accaduto a Kiev un
anno fa.
Malgrado
ciò, in Occidente qualsiasi seria considerazione sulla vicenda è stata
messa da parte per rinvigorire la crociata anti-Putin in atto,
esattamente come era stato fatto la scorsa estate all’indomani
dell’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines (MH-17) sui cieli
ucraini. In quell’occasione, l’attentato era stato immediatamente
attribuito alla Russia o ai “ribelli” filo-russi - nonostante gli indizi
indicassero piuttosto possibili responsabilità del regime o delle forze
armate di Kiev - con il consueto accompagnamento di una campagna
diffamatoria nei confronti del numero uno del Cremlino.
All’interno
del governo di Mosca, in ogni caso, il portavoce di Putin, Dmitry
Peskov, ha definito l’assassinio una “provocazione”, messa in atto per
destabilizzare la Russia e, inevitabilmente, supportare i tentativi
occidentali di costruire un’alternativa percorribile all’attuale regime.
Questo
sembra essere anche il punto di vista che caratterizza l’indagine
avviata dalla Commissione Investigativa, la quale fa capo al Cremlino e
che starebbe valutando possibili ulteriori connessioni con la crisi in
Ucraina o il fondamentalismo islamico. Nemtsov era fortemente critico
della gestione della vicenda ucraina da parte di Putin, mentre aveva
apertamente appoggiato il settimanale satirico francese Charlie Hebdo
dopo la strage nella redazione parigina nel mese di gennaio.
L’altro
aspetto assurdo emerso dalle cronache occidentali di questi giorni è il
ritratto di martire della democrazia di Boris Nemtsov, il cui
curriculum lo colloca piuttosto tra politici di destra che hanno
contribuito alla somministrazione di rovinose politiche economiche
ultra-liberiste nella Russia post-sovietica.
Poco più che
trentenne, negli anni Novanta Nemtsov venne nominato governatore della
regione di Nizhny Novgorod e successivamente ricevette la chiamata da
Boris Yeltsin per trasferirsi a Mosca a ricoprire la carica di ministro
dell’Energia e in seguito di vice-primo ministro.
Nemtsov era
considerato una sorta di protetto del defunto presidente russo tanto da
essere stato indicato a un certo punto come suo possibile successore. In
quegli anni, Nemtsov fu tra i protagonisti dell’implementazione di una
vera e propria terapia d’urto per favorire la transizione al capitalismo
nell’ex Unione Sovietica, promuovendo, tra l’altro, privatizzazioni
selvagge e lo smantellamento del welfare, creando così da un lato una
classe di oligarchi multi-miliardari e, dall’altro, povertà dilagante e
devastazione sociale tra la popolazione.
Secondo un ritratto pubblicato domenica dall’agenzia di stampa ufficiale russa Sputink,
a partire dal 2003 Nemtsov si sarebbe occupato più di affari che di
politica e con un certo successo, visto che le sue entrate totali nel
2008 ammontavano a oltre 7 milioni di dollari.
Dal
2012, poi, l’ex vice-premier era alla guida del Partito Repubblicano
Russo-Partito Popolare della Libertà, mentre nel 2013 era tornato alla
politica attiva con l’elezione a membro del parlamento regionale di
Yaroslavl.
L’abbraccio dei valori democratici da parte di
Nemtsov, comunque, era giunto soltanto in concomitanza con le sue
sventure politiche, cioè dopo l’estromissione dal governo, e, come molti
altri membri dell’opposizione “liberale” russa, anch’egli si sarebbe
ben presto allineato ai governi occidentale, in particolare a
Washington, con la speranza di tornare a occupare una posizione di
potere grazie all’aiuto americano.
Precisamente per questa
ragione, assieme al convinto sostegno a politiche di libero mercato,
l’opposizione appoggiata dall’Occidente risulta profondamente screditata
tra la popolazione russa ed è in grado di raccogliere qualche consenso
solo all’interno della classe media relativamente benestante.
La
stessa marcia di protesta andata in scena domenica a Mosca, e
trasformata in un evento in memoria di Nemtsov, ha registrato la
partecipazione di qualche decina di migliaia di persone solo in seguito
al clamore suscitato dall’assassinio di due giorni prima. Nei giorni
scorsi, invece, tra gli stessi organizzatori era forte la preoccupazione
per un possibile flop della manifestazione, in linea appunto con
l’incapacità dell’opposizione “liberale” e filo-occidentale di
rappresentare una qualche alternativa credibile al governo dell’odiato
Putin.
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