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03/04/2015

Il polo imperialista europeo porta i Pigs in una trappola

Nel forum del 7 marzo a Bologna dedicato a “Il piano inclinato degli imperialismi”, Luciano Vasapollo ha sviluppato un'ampia relazione – corroborata da numerose schede e slide – nel quale ha ricostruito le tappe e i nodi irrisolti della crisi dell'accumulazione capitalista. Particolare attenzione è stata dedicata a come questa crisi abbia investito l'Europa mettendo in moto l'edificazione dell'Unione Europea e dunque la costruzione di un polo imperialista europeo da gettare nella competizione globale. Un'ampia parte della relazione è stata ovviamente dedicata all'alternativa da mettere in campo rispetto al progetto imperialista di integrazione economica e monetaria realizzata con l'Unione Europea, una tesi questa – quella dell'Alba euromediterranea – ampiamente sviluppato nel libro “Il risveglio dei maiali” ormai tradotto in diverse lingue e oggetto in discussione in tutti i paesi Pigs. Pubblichiamo uno stralcio della relazione di Luciano Vasapollo al forum promosso dalla Rete dei Comunisti a Bologna, ricordando che il testo integrale verrà pubblicato sulla rivista Contropiano in uscita per metà aprile.

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Dalla relazione di Luciano Vasapollo:

(….) Sempre attraverso i dati OCSE possiamo ragionare su quanto accaduto nel nuovo secolo, in questi ultimi 15 anni. Analizzando la produzione mondiale notiamo che la piccola e relativa crescita ha provocato una moltiplicazione del debito complessivo pertanto è stata finanziata non dal profitto reinvestito ma dal debito. Utilizzando dati ufficiali, ovvero “mondo sviluppato” e “in via di sviluppo” vediamo la relazione di questa crescita con l’indebitamento pubblico:

- nei paesi a capitalismo maturo il rapporto è stato circa 1 a 2, la crescita è stata finanziata con un livello quasi doppio di aumento del debito pubblico;

- nelle regioni emergenti la crescita, ha fatto si che il livello di debito aumentasse solo di un terzo di quel valore espresso dalla crescita appunto.

Si evince che la necessità di finanziare la crescita con il debito pubblico appartiene ai più ricchi che dovrebbero mettere a produzione la ricchezza realizzata, invece non riescono e si indebitano accelerando la crisi. Nei 7 anni prima della crisi dei subprime (dal 2000 al 2007, come data simbolica della crisi immobiliare) gli USA crescono di 4,2 miliardi di dollari e il debito di 4,8 mentre nell’Eurozona c’è una crescita di 6,1 miliardi di dollari ed è finanziata per 3,9 di debito. Mentre gli USA utilizzano un modello importatore sorretto attraverso il debito, la locomotiva europea che è la Germania utilizza un modello esportatore, quindi con surplus nella bilancia dei pagamenti.

Nei 7 anni seguenti, dopo la crisi finanziaria dei sub-prime, si verifica un aumento del debito pubblico spaventoso. La crescita degli USA realizza il triplo di quel valore in debito pubblico. L’UE ha addirittura avuto una decrescita complessiva del PIL (il -1%) però a fronte di questa perdita ha accumulato 3,2 miliardi di debito.

È evidente come il debito pubblico non possa essere aumentato perché i lavoratori hanno consumato al di sopra delle proprie possibilità non essendo aumentato il potere di acquisto salariale (blocco dei contratti, inflazione dichiarata e non, precarietà del lavoro, diminuzione della spesa sociale e dei salari indiretti, oltre che di quello differito), ma il debito pubblico finanzia le imprese private attraverso mille forme diverse come la rottamazione, gli incentivi alla produzione, la defiscalizzazione, ecc.

Quanto detto fino ad ora è relativo al debito pubblico, tuttavia è aumentato anche il debito privato delle famiglie. Solo negli USA il debito privato è aumentato di 3 volte quello pubblico, nell’Eurozona di 2 volte. Quindi c’è un problema di indebitamento di massa che non è la causa della crisi finanziaria ma una conseguenza che va ad aggravarla perché in assenza di crescita le politiche di riduzione del salario inducono a una crisi di sottoconsumo (meno potere d’acquisto meno capacità di consumare).

I burocrati del capitale stanno provando a proporre le politiche per ridurre il debito. Raggiungere il 60% del rapporto debito pubblico-PIL nei paesi mediterranei è impossibile perché non c’è crescita, non si genera surplus e anche se ci fosse viene mangiato tutto dagli interessi passivi pagati sui titoli del debito pubblico. La ricetta non può continuare a essere quella di tagliare la spesa sociale ma bisognerebbe essere in grado di aumentare significativamente gli investimenti produttivi, cioè generare lavoro, lavoro buono, a pieni diritti e a pieno salario per rilanciare il potere d’acquisto e rafforzare lo Stato sociale. La terapia invece applicata fin ora ai PIGS (più Irlanda e Cipro) ha portato ad un aumento senza precedenti della disoccupazione, una crisi finanziaria che solo in quest’area ha bruciato 2 milioni di posti di lavoro a tempo pieno a cui va aggiunto l’aumento dei lavori precari. Considerando anche le politiche di aggiustamento degli ultimi due anni per l’assenza di credito alle piccole imprese bisogna aggiungere altri 3 milioni di disoccupati. È un massacro sociale.

Ed è interessante riportare un articolo di ottobre 2014 in cui Joschka Fischer, ex Ministro degli esteri tedesco, critica la politica della Germania e sostiene che al momento il suo paese: “sia attualmente il più grande pericolo per l’Europa. «Se non cadono i tabù tedeschi»… e se non si esce dallo stallo provocato dalla politica dei «piccoli passi», tanto cara ad Angela Merkel e bollata come pragmatismo «pigro» e «difensivo», l’epilogo tragico è certo.
«Bisogna prepararsi seriamente alla fine del progetto europeo» scrive l’ex ministro degli Esteri tedesco nel suo nuovo libro dal titolo eloquente, «Scheitert Europa?» («L’Europa fallisce?») che è anzitutto un durissimo atto di accusa contro la Germania della Cancelliera. L’ex enfant prodige dei Verdi tedeschi, figura chiave dei governi Schroeder, traccia un bilancio amaro della crisi, che ha messo in luce una verità fondamentale sulla moneta unica: era stata progettata «per il bel tempo». L’uragano della bolla immobiliare americana e lo scoppiare della Grande crisi l’hanno colta impreparata. Ma se lo tsunami dei subprime ha preso piede nel Vecchio continente, è anche per l’incapacità di molti politici di capirne la portata. Un anno dopo il crash, il ministro delle Finanze Peer Steinbrueck continuava a parlare di «crisi americana». Senza accorgersi che «i lembi del suo frac stavano già prendendo fuoco», scrive Fischer… E nell’autunno caldo del 2008, Angela Merkel si rese responsabile di una decisione che contribuì secondo l’ex ministro degli Esteri ad accelerare il disastro finanziario: rifiutò una soluzione comune europea sin dall’inizio, inaugurò il triste filone dell’«ognun per sé».

Fischer ritiene inoltre devastante l’austerità «alla tedesca», perché ha imposto ai Paesi del Sud Europa una deflazione interna dei salari e dei prezzi che avrebbe ora bisogno di essere mitigata da una «soluzione comune per tutti i debiti pregressi». Bloccando quest’opzione, Berlino sta condannando il Sud Europa alla «trappola» della spirale dei debiti, cioè a non uscire mai dalla crisi. E il politico accusa il suo Paese di avere la memoria troppo corta, in questo accanimento pedagogico contro i partner meridionali. «Sorprendente», scrive, che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra in cui l’Europa nel 1952 le abbonò tutti i debiti. Senza quel regalo, «non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati», la Germania «non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico»…

All’inizio della crisi, osserva Fischer, l’Europa [è stata investita da un] fiume…in piena…Merkel ha delegato al «governo sostitutivo dell’eurozona», come Fischer chiama la Bce, l’onere del salvataggio. Ma si tratta di una soluzione, alla lunga, destinata a fallire. Né Schmidt, né Kohl, è l’affondo finale di Fischer, avrebbero reagito in modo così «indeciso» e «con lo sguardo rivolto all’indietro» alla crisi come la Cancelliera: avrebbero anzi approfittato dell’impasse per fare un altro passo importante verso l’integrazione europea"

E ancora più sorprendenti sono le parole di Obama il quale parlando “della Repubblica Ellenica, ha sottolineato come sia difficile fare le riforme giuste in un paese in cui il PIL è crollato del 25% in pochi anni, proprio a causa dell'austerità di bilancio imposta ad Atene dagli altri paesi europei e, in particolare, dalla Germania di Angela Merkel.”.

Il caso della Grecia, paese tra i più colpiti dalla crisi economica, ha posto tra gli altri un problema di compatibilità della moneta euro con le varie realtà nazionali. Posto che i paesi europei che hanno adottato l’euro non hanno economie nazionali in alcun modo confrontabili, occorre tener conto che paesi che adottano la stessa moneta non hanno politiche economiche armoniche. A differenza del dollaro l’euro non ha dietro una struttura politica unica; il fatto che tra i paesi dell’Eurozona vi siano disaccordi anche profondi testimonia come l’euro è un progetto comune che però divide e non unisce l’Unione Europea.

L’aggiustamento strutturale voluto è dogmatico, dato che è cosa nota come i tecnici non siano in grado di raggiungere quell’obiettivo, anche perché la risposta è da strutturarsi sempre in funzione delle dinamiche della crisi sistemica e delle politiche della competizione globale tra USA, UE e a loro volta anche finalizzate a rallentare l’espansione di potere e mercato da parte dei BRICS.

L’unica politica alternativa sarebbe quella di modificare la relazione e la composizione dei soggetti economici vincitori e dei perdenti con diverse politiche pubbliche. Ovviamente gli agenti che detengono i titoli del debito pubblico sono i beneficiari degli interessi, per cui non si vuole fare una politica a favore dei PIGS perché ci rimetterebbero questi operatori economici che sono le banche degli Stati Uniti e quelle britanniche (capitalismo anglosassone), oltre al sistema bancario francese e tedesco. Ma il debito pubblico dei paesi mediterranei non è tra le mani esclusive della finanza del Nord Europa dato che le banche degli stessi PIGS detengono il 12% del loro debito.

Il problema è che bisogna passare dall’aggiustamento dell’economia per adattare il debito ad una politica che è l’unica via, ovvero che aggiusta il debito per adeguarlo alle necessità della politica all’economica. Se il debito non può essere pagato non si deve pagare perché altrimenti si provoca una capitalizzazione dell’interesse dalla quale non si può uscire. Sono provvedimenti che realizzano la sottomissione dell’economia al comando della politica già applicate in Argentina nel 2001 o in Ecuador qualche anno fa, ad esempio quest’ultimo non ha restituito agli organismi finanziari il debito illegittimo.

Rifiutare il debito è una decisione che può avere vari gradi di applicazione (rifiuto parziale, rifiuto con rinegoziazione della somma e delle condizioni, ecc.). Però la priorità politica non può essere liquidare il debito, quando ciò significa far aumentare la disoccupazione e aggravare l’impoverimento dei lavoratori. Quando la speculazione ha raggiunto un volume che supera tutte le possibilità di crescita della produttività, di sostenibilità di sfruttamento delle risorse naturali, e di sviluppo delle forze produttive, l'unica alternativa alla svalorizzazione (distruzione) massiccia di capitale è demercantilizzare il denaro.

Non si tratta di dare nuove funzioni a una Banca Centrale, ma di nazionalizzare il sistema finanziario, cominciando dai suoi agenti principali , trasformando il capitale monetario in denaro pubblico, in bene comune, destinandolo alla produzione sulla base di una pianificazione democratica dell'attività produttiva, (qualcosa di simile a ciò che nel secolo scorso chiamavano “socialismo”).

Si pone infine il tema anch’esso operativo ma che pone da subito l’orizzonte strategico della rottura, dell’”abbandono” delle aree capitaliste come l’Europolo su basi di praticabilità immediata.

L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dei paesi centrali dell’Europolo, cioè il polo imperialista europeo, e per indebolire la posizione commerciale e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione internazionale del lavoro imposta dai paesi centrali.

Non si tratta di risolvere soltanto con le minacce di fallimento, il volume di debito implicato nei PIGS è di un livello tale che può modificare il sistema finanziario internazionale. Non serve solo restringere le attività finanziarie ma evitare assolutamente il potere delle multinazionali rilanciando un piano di socializzazione, nazionalizzazione e statalizzazione dell’economia a partire dal ruolo nazionale della Banca Centrale. Si tratta di fare politiche a maggiore sostenibilità sociale con un forte intervento pubblico in modo che i benefici non vadano al sistema finanziario o al sistema industriale decotto. La Germania spinge più di tutti per mantenere questa situazione, però dovrebbe capire che continuare a colpire il sistema della spesa pubblica può creargli problemi anche interni e non si sa cosa avverrà anche in Nord Europa (…..)

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