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02/06/2015

Analisi del voto delle regionali: “Matteo stai sereno”

Manca ormai una manciata di sezioni che, a questo punto, sono totalmente ininfluenti rispetto al risultato finale, per cui possiamo, pur con un minimo di approssimazione, fare un ragionamento più compiuto sull’accaduto e partiremo da un ragionamento sui numeri assoluti.

Nelle sette regioni considerate i voti validi espressi sono stati 2.130.000 circa, l’anno scorso (arrotondando per comodità) furono 4.260.000 dunque, il numero è letteralmente dimezzato. In minima parte questo è dovuto a fluttuazioni demografiche, ma nella quasi totalità si tratta di un astensionismo aggiuntivo a quello già abbastanza alto degli ultimi anni ed, in diverse regioni, i votanti sono scesi sotto il 50%. Ormai si è presa l’abitudine di non comunicare il numero delle schede bianche e nulle, per cui non sappiamo quanto in questo dimezzamento incida questa componente.

Confrontando i risultati delle quattro maggiori formazioni politiche (al netto dall’integrazione presumibile dei voti delle civiche di fiancheggiamento), si ottiene che:

- il Pd ha perso 2.130.000 voti (passando dai 4.262.000 dell’anno scorso ai 2.129.000 di domenica, una perdita esatta di 1 elettore su due);

- il M5s ha perso 885.000 voti (passando da 2.208.000 a 1.323.000);

- Forza Italia ha perso 883.000 voti (passando da 1.787.000 a 954.000);

- solo la Lega ha aumentato i suffragi di 344.000 unità (da 511.000 a 855.000).

Ma, come si sa, c’è stato il fenomeno delle civiche fiancheggiatrici (particolarmente rilevante in Puglia e Campania) per cui, applicando uno scorporo prudenziale di 1/3 dei loro voti otteniamo di dover aggiungere:

- al Pd 450.000 voti circa (per cui la flessione si riduce a circa 1.700.000 voti);

- a Fi circa 160.000 (in gran parte in Campania; la flessione si riduce a 720.000 voti);

- Il M5s, come è noto, corre sempre senza liste apparentate per cui il dato resta il precedente;

- alla Lega occorre aggiungere i 427.000 della lista civica per Zaia ed una lista minore sempre in Veneto, ed, anche se in questo caso lo scorporo di 1/3 sembra eccessivo, applicando per uniformità questo criterio, otteniamo circa 300.000 voti in più che vanno ad aggiungersi ai 344.000 voti in più del calcolo precedente.

Passiamo alle percentuali sul totale delle sette regioni (nella prima voce consideriamo il voto secco del partito, fra parentesi  quello con l’integrazione dei 2/3 delle civiche di fiancheggiamento):
- Pd 24,91% (30,55%)
- M5s 15,48% ( 15,48%)
- Fi 11,16% (13,03%)
- Lega 10,01% (13,11%)

Rispetto alle elezioni di 1 anno fa:

- il Pd, che aveva il 41,49%, perde il 16,58%, perdita che si riduce all’11,2% se teniamo conto della quota presumibile delle civiche fiancheggiatrici;

- il M5s, che aveva il 21,49%, cala del 6,01%;

- Fi, che aveva il 17,39% scende al all’11,16%;

- La Lega sale dal 4,97% al 10,01%;

Questo il quadro.
Primo dato: l’impressionante aumento dell’astensionismo, tanto più rilevante quanto si consideri che questo nuovo flusso in uscita dal voto valido ed espresso arriva dopo solo un anno da quello imponente delle europee a sua volta succeduto 15 mesi dopo il calo più contenuto delle politiche.

Certamente, nelle elezioni amministrative c’è un calo fisiologico rispetto alle politiche, quando si mobilitano anche i meno “partecipanti” (un po’ come quelli che seguono il calcio solo in occasione dei mondiali), però qui non siamo nei limiti del fisiologico, sia perché ad ogni turno elettorale scende il numero dei votanti e non c’è recupero nelle successive, sia perché il fenomeno tocca livelli pericolosamente prossimi al punto di rottura. Una parte dell’astensionismo – diciamo fra il 10 ed il 15% – è fisiologico (impedimenti temporanei, età troppo avanzata ecc.), ma la quota eccedente va assunta come il segnale di un malessere politico che può produrre dinamiche sistemiche molto pericolose.

In primo luogo dal punto di vista della legittimazione delle istituzioni: quale legittimazione ha un governo scelto dal 30-32% di votanti che a loro volta sono meno della metà degli aventi diritto? Un governo espressione del 15-16% del corpo elettorale può benissimo giovarsi dell’ortopedia di un sistema elettorale che gli consegna il 54% dei seggi, ma che peso politico ha?

Ma, si dirà, “negli Stati Uniti…”: l’Europa non è gli Stati Uniti e qui le cose si valutano con un metro diverso. Questa tendenza è destinata a sfociare in una rottura oggi imprevedibile nelle forme ma intuibile nella gravità. La casta politica tende a rimuovere il problema con il solito ipocrita fervorino televisivo nella mezz’ora di attesa delle prime proiezioni, dopo di che tutto torna come prima, come se una fetta dell’elettorato avesse deciso si suicidarsi o di fare voto di astensionismo anche per le successive votazioni: “Meglio! Meno siamo e meglio stiamo!”.

E’ un calcolo imbecille che non capisce che se fasce così consistenti di elettori si astengono non dipende da un disinteresse per la politica, ma da una profonda insoddisfazione per l’offerta politica. Dopo di che, può accadere che all’improvviso si materializzi un flusso a favore di un partito antisistema che potrebbe avere anche forti connotazioni autoritarie e di destra. O magari potrebbero prendere corpo forme di protesta molto dure. Dobbiamo pensare al terrorismo o a forme di lotta armata? Non credo: ci sono anche modi diversi per manifestare la propria profonda insoddisfazione verso il sistema politico: nuove più forti ondate di “forconismo” o di forme di lotta come il blocco di autostrade o jacquerie urbane; oppure un improvviso e massiccio sciopero fiscale, o altre forme di disobbedienza civile. Il che non sarebbe affatto negativo se avesse un indirizzo democratico e di sinistra, ma, in situazioni di questo tipo, è più facile che tutto questo finisca per avere caratteristiche opposte.

Dunque, smettiamola di guardare a questo fenomeno come ad una innocua tendenza fisiologica di adattamento a trend internazionali (cioè americani) di cui non c’è ragione di preoccuparsi, ed assumiamo il problema politico per la sua effettiva gravità.

Il punto è che l’offerta politica non soddisfa le richieste di una fascia che ormai si avvicina alla metà del corpo elettorale. Questo è un dato che dovrebbe preoccupare in particolare il M5s che, nel 2013, sembrò rappresentare il canale di rientro dall’astensionismo e che, invece, nei turni del 2014 e 2015 sembra non solo non esserlo più, ma essere accomunato agli altri partiti fra quanti versano il loro obolo al crescente astensionismo. Il risultato odierno non è affatto cattivo se si pensa che il M5S non ha una struttura adeguata ad affrontare elezioni locali che gli vanno regolarmente male e se si considera che, in questa occasione, Grillo non si è speso; dunque ha di che rallegrarsi. Questo, però non toglie che c’è una zona d’ombra con cui deve misurarsi: se la percentuale complessiva (quel 15,48%) non è negativa, tutto considerato, colpisce negativamente il fatto che essa sia stata ottenuta su una percentuale di votanti così inferiore e quegli 885.000 voti che mancano all’appello non sono da sottovalutare e pongono al M5s il problema del quanto la sua proposta politica e la sua strutturazione organizzativa siano adeguate alla domanda dei troppi che non votano.

Per il resto (sarò più dettagliato in seguito) i dati dicono con molta chiarezza cinque cose:

1) il paese si sta spaccando in due più che mai: tutto il Sud è in mano al centro sinistra, ma gran parte del Nord torna nelle mani del centro destra e d’ora in poi potremmo assistere ad una ripresa delle tendenze centrifughe dall’unità nazionale.

2) fine del bluff renziano e rientro del Pd nei suoi confini strutturali (anzi peggio visto che, soprattutto nelle regioni centro settentrionali il Pd renziano scende sotto i livelli dell’era Bersani e che proprio le candidate renziane Paita e Moretti sono quelle che fanno peggio). Il successo delle europee fu un accidente momentaneo dovuto al collasso di Scelta civica, al brutale calo berlusconiano ed alla passeggera sensazione di novità rappresentata da Renzi che, però, vinse più per demerito degli altri che per merito suo. Il progetto di Partito della Nazione non esiste più, anche se il Pd non ha ancora uno sfidante credibile;

3) Berlusconi è davvero alla fine, anche se il risultato gli consente di allungare un po’ l’agonia;

4) ci sono timidi accenni di ripresa del centro, anche se non emerge ancora un polo catalizzatore;

5) la Lega cresce – unica – ma non va oltre i suoi limiti strutturali di partito nordista.

Più avanti esamineremo nel dettaglio ciascuna di queste tendenze.

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