di Michele Giorgio – Il Manifesto
Questa sera alle Nazioni Unite Abu Mazen non lancerà la “bomba” annunciata per settimane. Perché la bomba è diventata un petardo. Di fronte all’Assemblea dell’Onu non proclamerà la fine degli Accordi di Oslo firmati nel 1993 e della cooperazione di sicurezza con Israele. E nel suo discorso non farà neanche un attacco frontale, senza precedenti, alla politica del governo di Benyamin Netanyahu. Pressioni
statunitensi, in particolare del segretario di stato John Kerry, e
anche dell’Europa, hanno spinto Abu Mazen ancora una volta a ingranare
la retromarcia. Assistenti e consiglieri del presidente
palestinese si sono affannati in questi ultimi giorni a rassicurare
americani ed europei. Non ci sarà alcuna “bomba”. Abu Mazen a tratti
sarà perentorio, persino duro. Protesterà per le politiche israeliane
sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme e per la colonizzazione
ebraica dei Territori occupati. Forse detterà un nuovo calendario di
scadenze per la nascita dello Stato di Palestina che in ogni caso
Israele non rispetterà. Tutto qui. Un copione già noto per la
platea dell’Onu che, appena qualche anno fa, ha riconosciuto alla
Palestina lo status di Paese non membro osservatore.
Al Palazzo di Vetro questa sera isseranno per la prima volta la bandiera palestinese ma non ci saranno scossoni. Eppure mai come in questo momento la questione palestinese ha bisogno di tornare sui tavoli che contano.
Il fatto che Barack Obama nel suo discorso di due giorni fa abbia
ignorato i palestinesi e le loro aspirazioni, indica con estrema
chiarezza la posizione che il futuro di Gerusalemme Est, Cisgiordania e
Gaza occupano nelle priorità americane. E questo continuo tira e
molla di Abu Mazen, che parte in quarta e poi frena, si sta rivelando
devastante per il futuro dei palestinesi e per la residua credibilità
del presidente tra la sua gente. Chi, a questo proposito, può
dimenticare il clamore con il quale ad agosto era stata comunicata la
convocazione, a metà settembre a Ramallah, dopo circa 20 anni, del
Consiglio Nazionale Palestinese (Cnp, il Parlamento dell’Olp, quindi di
tutti i palestinesi). «Immetteremo sangue nuovo nelle vecchie
arterie dell’Olp e delle istituzioni palestinesi», spiegavano con enfasi
i solerti funzionari della presidenza. Abu Mazen ha anche dato le
dimissioni da presidente del Comitato esecutivo dell’Olp. Poi,
all’improvviso, senza uno straccio di annuncio ufficiale, gli stessi
solerti funzionari hanno fatto sapere che il Cnp non si sarebbe più
riunito, se ne riparlerà, forse, verso la fine dell’anno. Non
appena si è capito che la convocazione del Cnp sarebbe servita soltanto a
cacciare dall’assemblea gli uomini di Mohammed Dahlan (nemico di Abu
Mazen) e a sostituirli con quelli fedeli al presidente, oltre a sancire
l’esclusione dall’Olp, forse definitiva, del movimento islamico Hamas,
si sono sollevate le fazioni della sinistra palestinese, a cominciare
dal Fronte Popolare, e anche correnti interne a Fatah, il partito
guidato proprio dal presidente.
Intanto nelle strade della Cisgiordania e di Gerusalemme,
come in quelle dei campi profughi palestinesi sparsi nei Paesi arabi,
tante persone neanche sapevano della convocazione del Cnp.
La linea di Abu Mazen della creazione di uno Stato
palestinese attraverso negoziati con Israele è deragliata di fronte al
secco no di Netanyahu e del suo governo di destra e ultranazionalista
della nascita di una entità palestinese realmente sovrana e non invece
confinata in bantustan sparsi per la Cisgiordania (Gaza già lo è).
Da parte loro Stati Uniti ed Unione Europea, in modi diversi,
confermano che non imporranno a Israele scelte che si attendono da
decenni. Abu Mazen perciò è impotente, isolato, messo ai margini in un
Medio Oriente dove è in atto la catastrofe siriana. Non sa quale strada
percorrere mentre esclude categoricamente una sollevazione popolare
contro l’occupazione israeliana. Si è sempre opposto, usando
anche le forze di sicurezza dell’Anp, ad una nuova Intifada palestinese e
non ha alcuna intenzione di interrompere la cooperazione di sicurezza
con Israele nonostante una risoluzione in tal senso approvata nei mesi
scorsi dal Consiglio Centrale di Fatah. Ha aderito alla Corte
penale internazionale ma ora frena le tanto sbandierate, nei mesi
scorsi, richieste di incriminazione di Israele per l’attacco a Gaza nel
2014 e la colonizzazione incessante dei Territori palestinesi occupati.
Tre anni fa all’Onu Abu Mazen aveva saputo accendere i cuori e le
speranze di una fetta consistente di popolazione palestinese, inclusa
quella di Gaza sotto l’autorità di Hamas. Tuttavia lo Stato di Palestina
che ha ottenuto su pezzi di carta non esiste ancora sul terreno, resta
una utopia di fronte a un Israele forte, determinato, sempre ben
sostenuto dagli Stati Uniti, non importa che alla Casa Bianca ci sia
Bush o Obama.
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