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28/09/2015

L'Egitto che affoga Gaza

“E’ ora di espandere la pace con Israele ad altri paesi arabi”. E’ la volontà, espressa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi in un’intervista all’Associated Press durante i lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una richiesta che ha fatto emozionare il premier israeliano Benjamin Netanyahu – che ha subito accolto con calore le parole di Sisi – e lo ha spinto a chiedere al presidente palestinese Abu Mazen di “tornare immediatamente al tavolo del negoziato per riprendere i colloqui di pace”.

Secondo quanto detto dal presidente egiziano, infatti, un maggior numero di potenze arabe incluse nel processo di pace potrebbe accelerare la soluzione della “questione palestinese”. Una parte della soluzione, che il Cairo sta portando avanti in stretta collaborazione con le autorità israeliane, riguarda invece solo una porzione della “questione palestinese”: annientare Hamas, alleato di quella Fratellanza Musulmana che l’attuale presidente egiziano ha estromesso dal potere con un colpo di stato nel luglio 2013 e tentato in tutti i modi di estirpare dalla vita politica e sociale egiziana nei mesi successivi.

Dopo aver chiuso il valico di Rafah – unica porta di Gaza con il mondo esterno – riaperto dal precedente governo islamista e smantellato molti dei tunnel che dalla Striscia corrono verso l’Egitto come via alternativa al traffico di beni che Israele non lascia passare, ora il Cairo è impegnata in un’opera ben più massiccia: inondare il confine con acqua pompata dal Mediterraneo, per riempire il sedicente “canale” scavato nella zona demilitarizzata tra le due frontiere. Fonti della polizia locale a Rafah hanno rivelato al portale Middle East Eye che l’Egitto avrebbe distrutto il 95 per cento di gallerie che collegano la Striscia di Gaza all’Egitto. L’obiettivo sarebbe quello di inondare tutti i rimanenti tunnel, che sarebbero profondi fino a 20 metri e correrebbero in territorio egiziano anche per 300 metri.

Non solo tunnel, però: il fine sembrerebbe quello di smantellare qualsiasi linea commerciale tra i due lati della frontiera. Il canale è infatti stato scavato su terreni abitati nella parte egiziana di Rafah: per far posto alla zona cuscinetto intorno all’opera, che va dai 500 ai mille metri, interi quartieri sarebbero stati rasi al suolo e i rispettivi abitanti ricollocati con la scusa di creare delle “fattorie ittiche”. Prima ancora, però, l’Egitto aveva inondato con l’acqua di mare quei terreni, abitati su entrambi i lati da contadini: oltre alla distruzione dei già magri mezzi di sussistenza della popolazione dell’area, era stata sollevata la questione del crollo delle case dovuto a un abbassamento del terreno inondato.

Anche Israele ci aveva provato: la costruzione di un canale lungo il confine precedeva infatti i piani di Tel Aviv di innalzare il famoso muro “anti-infiltrati”. Poi, però, i danni ambientali e il pericolo di infiltrazione delle falde acquifere avevano fatto propendere per la barriera, che però non ha fermato in alcun modo la costruzione e l’uso dei tunnel da parte di una popolazione sotto assedio da nove anni.

Ora ingegneri e autorità locali cominciano a denunciare i danni del pompaggio dell’acqua marina, come rivela Middle East Eye: oltre a un aumento della salinità di venti volte all’interno delle falde acquifere, che potrebbe portare a un danneggiamento della struttura del suolo e all’impossibilità di coltivare ortaggi nella zona, il rischio maggiore è che la popolazione abbia sempre meno accesso all’acqua potabile. Il sistema di purificazione delle acque è infatti al collasso sia per i tagli all’elettricità sia per la difficoltà di far entrare i pezzi di ricambio usurati del sistema di pompaggio dal valico di Erez. Un nuovo pericolo per quella che viene considerata una “prigione a cielo aperto” e che, secondo le ultime stime dell’Onu, sarà inabitabile a partire dal 2020.

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