“E’ ora di espandere la pace con Israele ad altri paesi arabi”. E’ la
volontà, espressa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi in
un’intervista all’Associated Press durante i lavori
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una richiesta che ha fatto
emozionare il premier israeliano Benjamin Netanyahu – che ha subito
accolto con calore le parole di Sisi – e lo ha spinto a chiedere al
presidente palestinese Abu Mazen di “tornare immediatamente al tavolo
del negoziato per riprendere i colloqui di pace”.
Secondo quanto detto dal presidente egiziano, infatti, un maggior
numero di potenze arabe incluse nel processo di pace potrebbe accelerare
la soluzione della “questione palestinese”. Una parte della
soluzione, che il Cairo sta portando avanti in stretta collaborazione
con le autorità israeliane, riguarda invece solo una porzione della
“questione palestinese”: annientare Hamas, alleato di quella Fratellanza
Musulmana che l’attuale presidente egiziano ha estromesso dal
potere con un colpo di stato nel luglio 2013 e tentato in tutti i modi
di estirpare dalla vita politica e sociale egiziana nei mesi successivi.
Dopo aver chiuso il valico di Rafah – unica porta di Gaza con il
mondo esterno – riaperto dal precedente governo islamista e smantellato
molti dei tunnel che dalla Striscia corrono verso l’Egitto come via
alternativa al traffico di beni che Israele non lascia passare, ora il
Cairo è impegnata in un’opera ben più massiccia: inondare il
confine con acqua pompata dal Mediterraneo, per riempire il sedicente
“canale” scavato nella zona demilitarizzata tra le due frontiere. Fonti
della polizia locale a Rafah hanno rivelato al portale Middle East Eye che l’Egitto avrebbe distrutto il 95 per cento di gallerie che collegano la Striscia di Gaza all’Egitto.
L’obiettivo sarebbe quello di inondare tutti i rimanenti tunnel, che
sarebbero profondi fino a 20 metri e correrebbero in territorio egiziano
anche per 300 metri.
Non solo tunnel, però: il fine sembrerebbe quello di
smantellare qualsiasi linea commerciale tra i due lati della frontiera.
Il canale è infatti stato scavato su terreni abitati nella parte
egiziana di Rafah: per far posto alla zona cuscinetto intorno all’opera,
che va dai 500 ai mille metri, interi quartieri sarebbero stati rasi al
suolo e i rispettivi abitanti ricollocati con la scusa di creare delle
“fattorie ittiche”. Prima ancora, però, l’Egitto aveva inondato
con l’acqua di mare quei terreni, abitati su entrambi i lati da
contadini: oltre alla distruzione dei già magri mezzi di sussistenza
della popolazione dell’area, era stata sollevata la questione del crollo
delle case dovuto a un abbassamento del terreno inondato.
Anche Israele ci aveva provato: la costruzione di un canale
lungo il confine precedeva infatti i piani di Tel Aviv di innalzare il
famoso muro “anti-infiltrati”. Poi, però, i danni ambientali e il
pericolo di infiltrazione delle falde acquifere avevano fatto propendere
per la barriera, che però non ha fermato in alcun modo la
costruzione e l’uso dei tunnel da parte di una popolazione sotto assedio
da nove anni.
Ora ingegneri e autorità locali cominciano a denunciare i danni del pompaggio dell’acqua marina, come rivela Middle East Eye: oltre a un aumento
della salinità di venti volte all’interno delle falde acquifere, che
potrebbe portare a un danneggiamento della struttura del suolo e
all’impossibilità di coltivare ortaggi nella zona, il rischio maggiore è
che la popolazione abbia sempre meno accesso all’acqua potabile.
Il sistema di purificazione delle acque è infatti al collasso sia per i
tagli all’elettricità sia per la difficoltà di far entrare i pezzi di
ricambio usurati del sistema di pompaggio dal valico di Erez. Un nuovo
pericolo per quella che viene considerata una “prigione a cielo aperto” e
che, secondo le ultime stime dell’Onu, sarà inabitabile a partire dal
2020.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento