di Francesca La Bella
Da novembre dello scorso anno i mercati mondiali hanno assistito ad un
calo continuo del prezzo del petrolio. Questo processo ha come causa
principale una strategia di aumento della produzione, fuori dai normali
schemi di mercato in questo settore. Di fronte ad un calo della domanda,
per mantenere il prezzo ad una soglia sostenibile per i produttori,
l’offerta dovrebbe ricalibrarsi, bloccando momentaneamente l’estrazione.
In questo caso, però, i Paesi appartenenti all’OPEC e, in
particolare, l’Arabia Saudita, hanno scelto di attuare una diversa
strategia che, sfruttando le grandi riserve e i minori costi di
estrazione, tende a mantenere bassi i prezzi di vendita indebolendo i
produttori, per lo più non OPEC, che, con minori margini di guadagno,
rischiano di uscire dal mercato.
Secondo molti analisti economici, l’obiettivo di questa politica sarebbe lo Shale Oil statunitense.
Il petrolio estratto attraverso il metodo del fracking, processo di
frammentazione delle rocce che permetterebbe di estrarre petrolio anche
in mancanza di pressione dei pozzi e di esaurimento apparente degli
stessi, sarebbe molto competitivo sul mercato. Si stima, infatti, che
questo nuovo metodo avrebbe permesso agli Stati Uniti, in condizioni di
normale bilanciamento di domanda e offerta, di aumentare
esponenzialmente la propria produzione diventando il primo concorrente
dei Paesi OPEC e, nel breve periodo, il principale produttore mondiale
di petrolio.
Le notizie di questi ultimi giorni,
secondo le quali il prezzo del petrolio sarebbe in leggera ripresa dopo
la frenata della produzione statunitense, sembrano sostenere questa
teoria. Le stime di vari organi di monitoraggio mondiali affermano che
il prezzo del petrolio a 40 dollari al barile avrebbe un impatto
significativo sulle capacità di vendita dello Shale Oil la cui
produzione, a causa degli alti costi, risulterebbe insostenibile.
A tal proposito analisti di Goldman Sachs avrebbero evidenziato un calo
della produzione statunitense tra il secondo e il quarto trimestre 2015
di oltre 250.000 barili al giorno a causa del blocco delle
trivellazioni aggiungendo che 1.500 miliardi di dollari di investimenti
pianificati per la produzione, non risultando convenienti agli attuali
prezzi, sarebbero stati momentaneamente congelati.
Le politiche di saturazione del
mercato attraverso un eccesso di offerta da parte dell’Arabia Saudita
non sembrano, però, aver avuto effetto solo sull’economia statunitense.
Si stima, infatti, che tutti i maggiori produttori mondiali siano stati
penalizzati da queste scelte. Se il vice Ministro dell’Energia russo
Alexei Teksler ha affermato che, sotto la soglia di 40 dollari al
barile, la produzione nazionale potrebbe assistere ad un declino
difficile da arrestare e la Cina aumenta le riserve strategiche di
greggio per cercare di frenare il calo dei prezzi, nei Paesi OPEC la
situazione non è migliore. Secondo un’analisi del Wall Street Journal,
per pareggiare il bilancio del 2015, Algeria ed Iran avrebbero bisogno
di un rialzo del prezzo al barile fino a 130 dollari, Qatar e Kuwait,
rispettivamente a 65 e 54 dollari mentre la stessa Arabia Saudita
avrebbe bisogno di vendere petrolio a 90 dollari al barile.
Ancor più evidenti sono, infine, gli effetti sull’economia irachena. Il
Financial Times riferisce di una lettera inviata a diverse compagnie
internazionali tra cui Exxon Mobil, Royal Dutch Shell, BP e l’italiana
Eni, con la quale il Governo iracheno annuncia la riduzione degli
investimenti nazionali negli impianti nel sud per il prossimo anno a
causa della situazione interna del Paese e del declino dei prezzi del
petrolio. Parallelamente, in un contesto politico e sociale
caratterizzato da forte frammentazione, sia il Governo Regionale Kurdo
Iracheno (KRG) nel nord sia le autorità locali della provincia
meridionaledi Bassora starebbero cercando di rendersi indipendenti dal
Governo Centrale nella vendita del greggio. Se per quanto riguarda il
KRG questo processo è già in atto da molto tempo e, nonostante la
diffida di Baghdad, il petrolio curdo lascia il Paese in direzione
Turchia attraverso l’oleodotto Kirkuk-Cehyan, l’amministrazione locale
in carica a Bassora, avrebbe formalmente richiesto maggiore autonomia di
vendita per sostenere l’economia della provincia, fortemente debilitata
dalla guerra in atto.
Analizzando questo panorama in maniera
complessiva, risulta chiaro come le ricadute delle scelte saudite siano
politiche oltre che economiche. In Paesi dove l’estrazione e la
vendita di minerali fossili contribuisce in maniera sostanziale, ed a
volte esclusiva, al mantenimento dell’economia interna, il declino dei
prezzi del greggio può avere effetti che trascendono dall’ambito
economico. Se valutiamo, in questo senso, la situazione della
stessa Arabia Saudita, questo processo diventa evidente nelle sue
diverse sfaccettature. Gli effetti del calo dei prezzi sui mercati
esteri non è stato immediato e la monarchia saudita ha dovuto far
fronte, anch’essa, agli effetti negativi di questo processo. Se dal
punto di vista dell’economia interna questo ha significato l’avvio di un
programma di diversificazione delle forme produttive con l’apertura
alle fonti rinnovabili, la necessità di nuovi introiti ha indotto ad
agevolare l’ingresso di capitali esteri nel mercato interno.
Parallelamente si è assistito all’impiego delle riserve estere per
limitare l’aumento della tassazione e la cancellazione dei sussidi a
sostegno al consumo. Tagli indiscriminati allo stato sociale
avrebbero, infatti, potuto portare la popolazione a chiedere, per
migliorare i conti del Regno, ad un ritiro dal conflitto contro lo Yemen
che molto sta costando alle casse di Ryad.
Infine merita sottolineare come, dopo la
firma dell’accordo sul nucleare, grande timore di un rilancio
dell’economia iraniana si è diffuso nei mercati mondiali e l’Arabia
Saudita, principale concorrente dell’Iran nell’area, potrebbe aver
utilizzato il suo ruolo nell’OPEC anche per limitare l’ascesa del
vicino. Una crescita delle capacità economiche di Teheran,
rischierebbe di renderne più incisiva l’azione nelle dinamiche
mediorientali con la conseguente perdita di influenza saudita nei tanti
contesti bellici e non in cui il Regno è, formalmente e informalmente,
impegnato.
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