Per questo vi proponiamo la lettura di un ottimo pezzo tratto da IlSole24Ore – giornale edito da Confindustria, quindi obbligato a fare i conti con la realtà, oltre che con la propaganda – che invece scopre una verità inattesa: il quantitative easing della Bce non ha messo in moto un rialzo delle borse europee, contrariamente a quanto avvenuto rispettivamente negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone dopo le identiche mosse delle relative banche centrali.
Le spiegazioni possibili sono tante, e tutte molto logiche: la Bce si è messa a “stampare moneta” troppo tardi e anche troppo poco (rispetto ai “colleghi”), per di più quando la Federal Reserve smetteva di farlo annunciando al contrario una progressiva e cauta “stretta” (peraltro fin qui sempre rinviata, proprio per non dispiacere ai “mercati”).
Ma la stranezza resta: le banche hanno preso soldi dalla Bce, vendendo titoli di stato europei e/o corporate, ma non si sono precipitate a gonfiare le quotazioni azionarie. Hanno dunque preferito tenerli in cassaforte, in attesa di evoluzioni della congiuntura globale che appaiono ancora incerte, fragili o addirittura preoccupanti.
Se non hanno investito in borsa, comunque, non hanno neanche – o tantomeno – ripreso seriamente a fare il loro mestiere. Ovvero a erogare prestiti a imprese e famiglie. Anche perché le imprese mostrano bilanci affaticati da otto anni di crisi e le famiglie – complessivamente considerate – si trovano a fare i conti con la disoccupazione crescente, i salari fermi o in arretramento e i consumi al palo. L'unico dato apparentemente in controtendenza, da alcuni mesi, riguarda i mutui per la casa, di nuovo in crescita. Ma a guardare i dati da vicino si scopre che per la stragrande maggioranza dei casi le nuove “stipule” non sono affatto nuove: riguardano infatti richieste di surroga di un vecchio mutuo, contratto a tassi di interesse superiore, approfittando del livello zero tenuto dalla Bce e dell'autentico crollo sottozero dell'Euribor (il tasso di riferimento per i mutui immobiliari).
La situazione generale nella zona euro resta dunque immobile, con tassi di “crescita” attesa poco sopra il tasso di incremento della popolazione. Solo da palazzo Chigi si continua a straparlare compulsivamente di “ottimismo”, ma questo è ormai un problema clinico, più che politico...
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Borse europee, primo caso di rosso nel bel mezzo del «Qe». Mentre gli altri mercati hanno fatto il botto
Vito Lops
Nel 2009 gli Stati Uniti hanno reagito al fallimento di Lehman Brothers (settembre 2008) e alla crisi epocale dei derivati subprime pigiando il tasto «Qe». La Federal Reserve, cioè, ha iniziato a comprare titoli di Stato e privati sui mercati aperti. Inondandoli di liquidità. Nel 2009 l’indice S&P 500 è salito del 23,5%, a dispetto degli strascichi della finanza subprime. Il «Qe» del 2009 non è stato l’unico lanciato dalla Banca centrale degli Stati Uniti. Ne sono seguiti altri due, nel 2011 e 2012. L’ultimo programma di acquisti (che in gergo semplificato viene tradotto anche con l’espressione “stampare moneta”) si è concluso a ottobre 2014. Come è andata Wall Street nel bel mezzo di tutto ciò? Ha toccato il massimo di tutti i tempi nella primavera del 2015 quando l’iniezione monetaria era già terminata ma non aveva fatto seguito (contrariamente alle prime previsioni) un rialzo dei tassi. E nonostante le recenti turbolenze, viaggia con un rialzo del 113% rispetto alla fase pre-Qe.
La Bank of England ha fatto più o meno come la Fed. A marzo 2009 ha avviato un programma di acquisto titolo. Fino a gennaio 2010 ha immesso liquidità per 200 miliardi di sterline. A ottobre 2011 la BoE ha riattivato il Qe espandendo il programma di 75 miliardi di sterline. Altri ritocchi da 50 miliardi a febbraio 2012 e luglio 2012 per un totale di 375 miliardi di sterline. Nel 2009 (primo anno di Qe) l’indice Ftse 100 della Borsa di Londra è salito del 21%. A fine 2012 era ai massimi storici, nel bel mezzo del «Qe».
E siamo alla BoJ, Bank of Japan. A fine 2012 annuncia un massiccio piano di «Qe» per riportare l’inflazione nell’orbita del 2%. Nel 2013 l’indice Nikkei guadagna il 56%.
I numeri della recente storia della finanza – quella che ha portato le banche centrali dei Paesi più sviluppati ad adottare armi non convenzionali per arginare la crisi dopo aver spinto al massimo, cioè in prossimità di “0” quelle convenzionali, ovvero i tassi di interesse – indicano che nel bel mezzo del «Qe» le Borse di competenza salgono.
Ed è accaduto anche alle Borse europee che fino a metà aprile 2015 hanno fatto un salto del 20% rispetto a gennaio, proprio dopo che il 21 gennaio la Banca centrale europea ha annunciato i piani del primo «Qe» della storia dell’euro (varato ufficialmente poi a marzo). Da maggio però, la spinta rialzista si è esaurita, nonostante il «Qe» è in programma fino a settembre 2016 e nonostante il governatore Mario Draghi abbia annunciato che non ci sarebbero problemi nel prolungarlo (sia nei tempi che nelle modalità) «ove fosse necessario». Nonostante il buon rimbalzo odierno, le Borse europee restano in rosso da inizio anno (-3%) e sono ancora più in rosso (-15%) se il conteggio parte da marzo, ovvero da quanto operativamente la Bce ha iniziato a comprare titoli per 60 miliardi al mese sui mercati aperti.
Quindi le Borse europee, salvo una clamorosa svolta nell’ultima parte dell’anno, rischiano di conquistare un triste primato: chiudere in rosso durante il primo anno di «Qe». La liquidità aggiuntiva favorita dalla Bce (che di solito è il motivo per cui le Borse vanno bene nelle fasi di quantitative easing) viene controbilanciata da forze esogene, che stanno pesando in questa fase sull’umore complessivo degli investitori. «La coincidenza del Qe con i timori di rallentamento della seconda economia del mondo e il possibile rialzo tassi della Fed fanno da contrappeso – spiega Vincenzo Longo – . Nel caso si concretizzasse questo scenario il «Qe» non renderebbe le Borse immuni da questa scossa. Le banche preferiranno rimanere liquide e non concedere prestiti. Ma al momento è presto per dirlo. Il mese chiave per capire in che trend siamo sarà ottobre».
L’Europa “paga” quindi probabilmente il fatto di essersi mossa in ritardo nella strada espansionistica e di aver insistito troppo nella fase di austerità durante la recessione. Per eguagliare, in termini espansivi, le altre banche c’è ancora molto gap. Lo ha confermato nei giorni scorsi il vicepresidente della Bce Vitor Constancio che ha spiegato con numeri alla mano perché la Bce si potrebbe preparare a mettere il turbo al Qe che al momento prevede acquisti mensili per 60 miliardi di euro fino a settembre 2016.
«L'ammontare totale acquistato rappresenta il 5,3% del Pil della zona euro, laddove quello che ha fatto la Fed vale almeno il 25% del Pil statunitense, mentre quello attuato dalla Banca del Giappone rappresenta il 64% del Pil nipponico e quello della Banca d'Inghilterra il 21% del Pil britannico. Quindi siamo molto lontani dalle altre banche centrali. Non si tratta di un benchmark, ma lo spazio se serve c'è”. Più chiaro di così.
Il turbo-Qe procederà di pari passo ad aspettative di inflazione via via riviste al ribasso. Il problema dei Paesi avanzati è che non riescono a rinormalizzare l'inflazione in area 2%. Un percorso che nei prossimi mesi/anni potrebbe contagiare anche la Cina (dove l'inflazione è crollata negli ultimi anni dal 7% al 2%) e i Paesi emergenti. Il punto è: faranno prima Usa, Eurozona e Giappone a uscire dalla spirale della deflazione oppure impiegheranno meno tempo Cina e Paesi emergenti ad entrarvici risucchiando il tentativo di normalizzazione di Usa, Eurozona e Giappone? Una bella domanda, anche per le Borse.
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