L'industria dell'auto è saltata su una mina, e nessuno sa dire quale sarà il conto finale dei danni. Una cosa, però, a cinque giorni dall'esplosione dello scandalo Volkswagen, si può dire con certezza, sono convolti tutti i costruttori, nessuno escluso.
Come facciamo a dirlo? Se dovessimo dar retta solo alle capacità induttive, potremmo dire: se qualcuno fosse stato “pulito”, già saremmo travolti da paginate di pubblicità che garantiscono “compra i nostro modelli, inquinano con certezza meno di Vw”.
E invece nulla, tutti abbottonati. Per stare solo all'Italia, ecco come John Philip Jacob Elkann, giovane ma già presidente di Fiat Chrysler Automobiles (oltre che di altre controllate dalla famiglia Agnelli) ha risposto a un “suo” giornalista de La Stampa: «Non commentiamo quello che accade ai concorrenti, vedremo di capire meglio dalle indagini», come se Vw non avesse già confessato di aver frodato il mercato con un software per mascherare la reale portata delle emissioni al momento dei test. Poi, temendo forse di passare per omertoso, aggiunge: «E’ un fatto molto grave. Ma attenzione, come ha precisato l’Acea (associazione dei costruttori europei dell'auto, ndr), è specifico di una società e non un problema dell’intero settore dell’auto». Notate bene: potrebbe affondare la lama nel burro, affermare che i modelli Fiat sono completamente a posto e rientrano senza sforzi nei parametri richiesti sia negli Usa che in Europa, che i clienti Vw possono correre alle concessionarie Fca, che i delinquenti devono essere azzerati dal mercato, che ora si aprono nuovi scenari di espansione a livello globale per i marchi sotto la sua gestione...
E invece nulla, risponde come un rapinatore dopo
l'arresto di un complice, misurando le parole per non irritarlo a
distanza e non provocare una chiamata di correo. Del resto il suo
braccio operativo, Sergio Marchionne, a botta calda, aveva giustificato
senza problemi il comportamento di Vw: se sarà costretto a rispettare gli standard Euro 7, che dovranno entrare in vigore nel 2020, aumenterebbe di «1.800-2.000
euro a vettura il costo delle norme sul CO2 fissate per il 2020: se si
abbassa la soglia delle emissioni di CO2 cambia la natura industriale, i
prezzi salirebbero e venderemmo meno macchine». Del
resto, il quotidiano di Confindustria già ha cominciato a tratteggiare
la “comunicazione” che giustificherà la rinuncia ad abbassare le
emissioni nocive con il più classico “i limiti sono inutili se le industrie non possono raggiungerli”.
Perfetto. La domanda-bomba è appunto questa: perché le industrie automobilistiche non possono abbattere le emissioni fino ai livelli prescritti,
senza neanche esagerare in fermezza o controlli, per tentare di
diminuire l'avvelenamento dell'ambiente in cui tutti noi viviamo?
La
prima ragione, evidenziata da laboratori di ricerca indipendenti e da
ambientalisti specializzati nel settore auto, è di tipo economico: per
ottenere quei risultati bisognerebbe montare più filtri, e più
efficienti, e soprattutto cambiarli molto spesso. Più costi per il
costruttore, come ammette Marchionne, ma anche per l'utente finale,
costretto a passare dal meccanico molto più spesso. Il risultato nel
miglioramento ecologico è insomma chiarissimo: si venderebbero meno auto in un momento in cui già il settore soffre di sovracapacità produttiva (100 milioni di vetture costruibili, solo 60 vendibili).
La
prima risposta appare però incompleta. Se agli automobilisti è stata
fin qui evitata la seccatura di farsi pulire spesso i filtri, spendendo
di più per la manutenzione, che fine fanno i materiali filtrati, dopo la combustione nel motore? Non è difficile da indovinare: se non devono esser tolti manualmente, vengono scaricati in aria o per terra.
Persino
i filtri antiparticolato dei motori diesel – che in Italia sono
prodotti e commercializzati in regime di monopolio da Pirelli e Iveco
(chi ricorda più “Agnelli-Pirelli, ladri gemelli”?) – producono più
inquinanti, invece che meno. Parola del Procuratore generale del
Tribunale di Roma, Pignatone, che ha aperto un'inchiesta perché "oltre a immettere nell'aria altre sostanze nocive,
determina la trasformazione del to, ossia polveri sottilissime non
misurate dai dispositivi di monitoraggio in uso, ma ben più nocive per
la salute umana". Insomma, raddoppia i danni.
Non fanno molto meglio i motori a benzina, appena un po'
meglio quelli a gas. Ma neanche le ibride sono esenti da magagne, tanto
che le case costruttrici conducono i loro test in condizioni davvero
inusuali. Come testimonia Enrico De Vita, ex direttore di Quattroruote, "L’auto
comincia la prova con la batteria carica e può fare anche tre quarti
del ciclo in elettrico. Ma il dato di consumo sarà quello della poca
benzina usata per finire il percorso. Il costo dell’elettricità viene
conteggiato zero". Inutile dire che l'elettricità deve venir
prodotta da qualche altra parte, con centrali a gas, carbone, nucleare,
ben che vada idroelettriche; insomma, quel che non viene inquinato qui, viene inquinato da un'altra parte. E in ogni caso, i dati sono
“abbelliti” di molto, anche grazie ad altri piccoli accorgimenti come “pneumatici a basso rotolamento
allo spegnimento dell’alternatore, dai pannelli aerodinamici nel
sottoscocca a vari alleggerimenti nel corpo vettura, dalla scelta di
laboratori spagnoli localizzati ad alta quota (ove l’aria è più
rarefatta) a oli extra fluidi”.
Di nuovo e per sempre: così fan tutti i produttori, per questo tacciono. Volkswagen potrebbe annientarli tutti, svelando altri trucchi usati da ciascuno.
Ma se nessuno riesce ad abbattere le emissioni al di sotto di certi livelli, vuol dire che c'è un limite fisico,
non solo economico o tecnologico. E i limiti fisici non si aggirano con
la “comunicazione”, né col software intelligentissimo. In natura, si
studiava quando si studiava, “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto
si trasforma”. Ma se usi idrocarburi per la mobilità, in motori a
combustione interna (efficienza massima intorno al 30%), semini residui
di idrocarburi per ogni dove.
Il
fatto stesso che, tra mille resistenze, si sia comunque affermata nel
mondo una certa sensibilità alle tematiche ambientali, non può essere
certamente ascritto né alla lungimiranza delle èlites
economico-politiche (che avrebbero volentieri continuato a tenere tutti
gli occhi ben chiusi), né alla particolare pressione dei movimenti
ambientalisti, in fondo piuttosto “tenerelli” quanto a mobilitazione
antagonista. È dunque piuttosto la reazione – lenta e cautelosa – a un
montare di problemi ormai innegabili: dall'aumento della temperatura
media in ogni angolo della Terra allo scioglimento dei ghiacciai,
dall'aria irrespirabile nelle grandi metropoli (con un vasto parco auto
perennemente in moto e circondate da centrali produttrici di energia)
alle modificazioni climatiche con conseguenze catastrofiche.
Nel raggiungimento del limite fisico l'industria
dell'auto ha dato un grande contributo. Il più “di massa”, se non il
più pesante in assoluto. Con lo scandalo Volkswagen, diventa evidente
che tutto un modo di vivere e produrre è incompatibile con la
sopravvivenza dell'umanità. O, per lo meno, con la sopravvivenza di tutta questa umanità (sette miliardi e spiccioli, ormai).
Sul piano teorico non è certo una novità dire che il capitalismo è
un modo di produzione folle, irrazionale e omicida-suicida perché,
essendo trainato dall'accumulazione e orientato dalla ricerca del
massimo profitto, punta a una crescita infinita in un mondo che al contrario è finito; ovvero limitato, una palla persa nello spazio. La novità sta nel fatto che ora questa follia si manifesta in “cose”,
davanti ai nostri occhi che non vogliono ammettere l'enormità del
fatto. L'industria dell'auto, pur punzecchiata dalla concorrenza più
spietata e incentivata in ogni modo (con soldi pubblici) per ridurre al
massimo le emissioni inquinanti, ad un certo punto ha sbattuto in prima
persona contro il limite fisico (impossibile ridurle sotto una certa
soglia) e si è arresa: inutile investire ancora in ricerca, tanto vale
barare.
Un'anima
bella potrà eccepire: “ma questo è un comportamento criminale, indegno
di un'industria seria, viola la fiducia che noi consumatori e cittadini
le abbiamo fin qui concesso!”.
È
sempre stato così. La storia delle industrie è un seguito incalcolabile
di truffe ai consumatori e ai cittadini. Potremmo citare i “grandi”,
come Volkswagen o lo Schmideiny di Eternit, fino ai piccoli avvelenatori come Ciravegna (lo scandalo del vino al metanolo, con almeno 23 morti e un numero molto superiore di accecati o comunque intossicati).
Ma potremmo anche citare tutti i grandi crack finanziari, con le banche
impegnatissime nel vendere ai propri clienti ignari proprio quelle
azioni che non si potevano più vendere sul mercato, ecc. E' sempre
stato così e non smetteranno mai. Volontariamente, almeno.
Nessun
capitalista, se non qualche piccolo imprenditore travolto dalla
vergogna di aver fallito, ha mai rinunciato al tentativo di salvarsi
ammazzando i clienti. Il che non è un problema morale,
risolvibile a forza di regole e sanzioni. È la natura dell'impresa
capitalistica, che cerca il profitto, non la “soddisfazione dei bisogni
sociali” o “il progresso dell'umanità”. Se soddisfazione a volte c'è, e
progresso anche, è per “incidente”, come sottoprodotto derivato, non
come scopo.
Tenteranno
di smorzare il più possibile, ma questa crisi, per l'industria che
riempie da un secolo le strade e l'immaginario del mondo, può segnare
l'inizio di molte fini. Allacciate le cinture.
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