A distanza di nove mesi, la nuova vittoria elettorale di Syriza
assume un significato completamente opposto alle speranze suscitate lo
scorso gennaio. Se ad inizio anno la vittoria di un partito eletto
sull’onda del rifiuto verso l’Unione europea poteva oggettivamente
aprire scenari interessanti e potenzialmente deflagranti (come in
effetti è stato fino a luglio, dove la partita era ancora aperta e la
costruzione europeista effettivamente in crisi), oggi questa elezione
rientra nel campo della compatibilità. Un evento inutile.
Come
commentava ieri mattina Sky, “che vinca Syriza o Nuova democrazia
cambia poco, tanto il programma di governo lo hanno scritto questa
estate a Bruxelles”. E’ tristemente così. Dopo alcuni mesi di
traccheggiamento senza bussola, Syriza ha applicato per filo e per segno
il programma delle istituzioni europee. Un programma che probabilmente
una destra di governo avrebbe contrattato persino in condizioni
migliori, riuscendo a strappare margini di autonomia economica che a
Syriza sono stati definitivamente preclusi.
La medesima
fotografia elettorale di gennaio (stesse percentuali, stesse alleanze),
descrive due momenti radicalmente diversi. Anzitutto, c’è il dato
dell’astensione che certifica il fallimento delle politiche di Syriza.
Metà della popolazione non si è recata a votare. L’altro dato è che la
destra, nelle sue varie forme – da Nuova democrazia ad Alba Dorata, da
Potami ad Anel – supera gli elettori di sinistra. Infine, un’elezione
che non prevede programmi di governo alternativi non ha senso, è solo
selezione di ceto politico fine a se stesso.
Questa la
parabola finale della normalizzazione europeista. Se a gennaio la
vittoria elettorale di Syriza aveva terrorizzato gli europeisti più
convinti, oggi viene salutata come assestamento politico del memorandum
europeo. Il risultato elettorale era blindato perché il programma di
aiuti imposto alla Grecia era a sua volta blindato da ogni partito
principale.
Da notare, per finire, l’ennesima flessione
del Kke, che chiarisce meglio di altre analisi alcuni dei vizi capitali
di quella particolare impostazione politica. Otto anni di crisi
economica e di scompaginamento politico greco hanno prodotto il
dimezzamento dei voti del Partito comunista. Alla prova dei fatti, un
certo meccanicismo anti-dialettico e un esasperato massimalismo
inconcludente, sommato alla pervicace fedeltà al feticismo
elettoralistico, hanno estromesso dal gioco un partito che aveva le
potenzialità e le condizioni oggettive per imprimere una svolta alla
politica greca. L’aver scambiato la natura soggettiva di Syriza (un
partito post-socialdemocratico, riformista radicale con venature
populiste), dal fatto oggettivo di un partito trascinato al potere dal
rifiuto popolare verso le politiche europeiste, non comprendendo che
quella contraddizione oggettiva apriva scenari in cui inserirsi, ha
determinato la perdurante irrilevanza del Partito comunista greco,
legato a uno schema politico oggi completamente inservibile.
Per
tali motivi, la vicenda greca ci lascia due evidenze: da una parte, la
sconfitta totale di ogni ipotesi di cambiamento politico; la seconda,
l’attuale incapacità dei comunisti di inserirsi nelle contraddizioni
politiche attuali sapendole amplificare e deflagrare.
Abbiamo perso, come sinistra, l’ennesima grande occasione.
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