Nell’anno in cui anche l’Afghanistan e i territori delle Fata, le aree tribali confinanti col Pakistan, hanno vissuto la comparsa di talebani dissidenti (Tehreek-e Taliban) desiderosi di rapportarsi all’Isis, uno studio condotto sul campo dal ricercatore Borhan Osman mette in luce una presenza stabile e crescente di forze islamiche sunnite alternative agli storici ceppi dei turbanti neri, in crisi di guida carismatica. Si tratta ovviamente di mondi paralleli, perché la presenza talebana è una realtà oggettiva, forte e radicata, cui guarda lo stesso governo ufficiale di Ghani, tenuto in vita dai finanziamenti statunitensi. In contrasto a quest’establishment corrotto, ma anche in alternativa al ruvido fondamentalismo talebano si pongono quattro gruppi esaminati nella ricerca. Tutti puntano a una difesa della tradizione islamica, guardando al maggior patrimonio che il Paese offre: le giovani generazioni.
Hizb ut-Tahrir è un’organizzazione che mira alla rinascita del Califfato: un’unica grande nazione per tutti gli islamici, seguendo il modello indicato dal profeta. Il gruppo, fondato negli anni Cinquanta dal giurista palestinese Taqiuddin Nabhani, risulta radicale negli intenti sebbene segua una pratica non violenta. Solo in una fase recente alcuni membri, una minoranza, si sono espressi per un rapporto coi talebani e con la loro jihad praticata contro le truppe d’occupazione della Nato. Nel 2008 è stata notata una crescita di adesioni al gruppo nelle province di Kabul e Kapisa dove, assieme a Badakhshan e Herat, si concentra il maggior intervento della struttura, rivolto prevalentemente ai giovani delle università. Divulgazione di messaggi tramite seminari, incontri e manifestazioni pubbliche sono le strade battute da Hizb per sostenere l’obiettivo del Califfato. Questo può scaturire da un percorso “entrista” che prevede l’adeguato indottrinamento dei membri del gruppo, un successivo ampliamento alle masse, il conseguimento del potere tramite soggetti penetrati nel governo e nelle Forze Armate. La bella teoria deve fare i conti con la realtà e nel 2009, nel corso delle presidenziali vinte a suon di brogli da Karzai, una trentina di aderenti al gruppo vennero arrestati provocando una contestazione diretta da Hizb ut-Tahrir contro gli stessi princìpi elettorali, denunciati come haram. Da quel momento il network ha formato anche un nucleo semi clandestino con differenti livelli di protezione e segretezza, seppure l’intento politico continui a essere basato su una presenza pubblica che utilizza incontri e dibattiti per fare proselitismo. L’attenzione, come accennato, è rivolta anche a uomini dell’apparato statale e delle forze di sicurezza con cui, però, cresce la contraddizione rispetto a una purezza islamica, sia per l’approvazione fra gli Esecutivi di leggi che contrastano con la Shari’a, sia per la presenza di finanziamenti occidentali anch’essi giudicati “contrari alla linea”.
Jamiat-e Eslah sostiene d’occuparsi di riforme e sviluppo sociale, il suo senso d’islamizzazione si sviluppa sul versante dell’individuo, della famiglia, della società. Il raggruppamento nega l’appartenenza alla grande branca della Fratellanza Musulmana, ma le posizioni politiche s’ispirano al famoso motto di al-Banna secondo cui “l’Islam è Religione e Stato”. S’è calcolato che l’espansione degli ultimi anni ha portato a oltre mille i membri impegnati ufficialmente col gruppo, più diverse migliaia di sostenitori sparsi in venti province, con una concentrazione su Kabul, Kunduz, Herat e Nangarhar. Strutturato anche il settore di comunicazione e propaganda grazie a stazioni radio, un canale televisivo presente a Herat, due campus ospitati nelle università della capitale e di Kunduz, tutto grazie ai cospicui finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo. L’organizzazione proibisce ai suoi membri ruoli nel governo, nel 2005 Eslah partecipò alle elezioni, ottenendo due deputati in Parlamento, dal 2010 non s’è più ripetuto avendo boicottato le consultazioni. Najm (Nehad-e Jawanan-e Musalam) con 1.200 attivisti presenti in molte province è l’ala giovanile del movimento e, grazie allo slancio energetico degli adepti, risulta attivissima. Pubbliche letture islamiche sono l’arma con cui Najm fa viaggiare il suo credo per incrementare il reclutamento che resta una finalità centrale. Chi assolve con meticolosità tale lavoro può guardare direttamente alla militanza in Eslah, che ha un processo di reclutamento rigorosissimo. La valutazione dei membri avviene dopo una prova che varia dai 2 ai 5 anni, superata la quale segue un giuramento di fedeltà alla causa; l’organizzazione garantisce una segretezza interna e richiede ai soci un contributo finanziario che s’aggira su un versamento del 3% del reddito. L’uso dei fondi è sociale: serve per attività caritatevole, servizi medici e di sostegno alle donne, insegnamento e anche all’informazione e alle pubblicazioni.
Hezb-e Islami Youth rispetto agli altri due gruppi attenua le connotazioni ideologiche, sebbene riguardo al tanto dibattuto Bilateral Security Agreement, che trattava la questione del “ritiro” e della permanenza delle truppe Nato sul territorio afghano, il gruppo abbia creato un’intensa campagna polemica e di dissenso con chi, come il presidente Ghani, l’ha ratificato appena assunto l’incarico. Rispetto alle altre formazioni la sua militanza appare più leggera, dati relativi all’ultimo raduno tenutosi a Kabul alla fine del 2013 riconducevano a settecento gli attivisti lì riuniti, la provenienza era da varie province (Nangarhar, Farah, Khost, Wardak). Ma, per diretta ammissione di alcuni partecipanti, si annotava una crisi d’impegno fra una prima fase di adesione orientativa e di sostegno ideale e una successiva di pratica che ovviamente costa sacrificio personale.
Il salafismo afghano, che pure si rifà al movimento fondato nel XVIII secolo in Arabia Saudita da Muhammad al-Wahhab, più che wahhabita preferisce definirsi muwahiddin e, rigettando la classica interpretazione dell’Islam della giurisprudenza, mira a un ritorno agli ideali islamici di diretta dipendenza dal Corano. Differentemente da altri salafiti gli afghani sono relativamente tolleranti verso gli sciiti, seppure momenti di conflitto fra etnìe che professano confessioni diverse (pashtun e hazara) si siano vissuti nella sanguinosissima guerra civile degli anni Novanta. All’inizio del decennio precedente furono i gruppi dei mujaheddin salafiti a lanciare e gestire la grande jihad antisovietica. Fu una fase di espansione di quest’orientamento islamico grazie agli enormi aiuti materiali e spirituali provenienti dall’Arabia Saudita e dal supporto tecnico-militare offerto dalla Cia, che manovrava il conseguente conflitto geopolitico. Il salafismo era diffuso tramite predicatori e canali di formazione e studio che portarono migliaia di giovani nelle scuole coraniche saudite. Durante l’insurrezione antisovietica nelle province di Kunar, Nuristan e Badakhshan vennero dichiarati dei mini Stati islamici che, comunque, ebbero vita breve anche dopo la ritirata dell’Armata Rossa. Abdul Rassul Sayyaf, uno dei più noti Signori della guerra, vicino al fondamentalismo salafita, è rimasto sempre un pragmatico, attento a interessi personali, più che lasciarsi prendere da battaglie d’ortodossia islamica. Un’altra diffusione dei princìpi di rigida interpretazione del libro sono giunti dagli studenti delle madrase pakistane, i taliban appunto, che hanno incarnato una fase del dominio politico del Paese dal 1996 al 2001. Gli attuali gruppi del salafismo raccolgono non solo studenti ma chi non ha un lavoro e vive la contraddizione della subalternità all’apparato dell’assistenza, diventato il motore dei governi-fantoccio che si susseguono dal 2004. Negli ultimi tempi un gruppo salafita come Jamaat ud-Dawah, operativo a Kunar e nel Nangarhar, che pure tiene un basso profilo ideologico, ha scelto d’integrarsi coi talebani. E, caso più raro, c’è notizia di qualche sheikh salafita che predica a favore del disegno dello Stato islamico attuato dagli uomini di Al-Baghdadi.
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