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29/09/2015

La bonifica mancata di Bagnoli


Bagnoli è un simbolo. Innanzitutto del principale progetto di Antonio Bassolino, il protagonista della scena politica napoletana dagli anni ’90 in poi. Doveva cambiare tutto, ripartendo dalle ceneri lasciate dalle acciaierie e dal peggior modello di sviluppo del sud Italia. È diventato il fallimento di un’intera città. Una porta spalancata verso i peggiori affari, le speculazioni su terre contaminate. Un sogno diventato incubo.


Appare come un trampolino, che si stacca sull’orizzonte. Se lo percorri guardando verso il mare la sensazione di scoprire una via nascosta alla fine fa dimenticare la terra desolata lasciata alle spalle. Il pontile nord di Bagnoli, in fondo, serviva anche a questo. Scordarsi il passato, lanciarsi verso il futuro, in un tuffo metaforico, con doppia carpiata liberatoria. Invece è un baratro. Una passerella tragica. Arrivi alla fine del percorso, sei costretto a girare i tacchi, riprendendo il cammino contrario. Verso terra. Verso l’inferno. Doveva cambiare tutto, ripartendo dalle ceneri lasciate dalle acciaierie e dal peggior modello di sviluppo del sud Italia. Dove gorgogliavano veleni impronunziabili, lì Napoli poteva ritrovare una speranza di riscatto, un modello differente. Per una volta in questo paese si progettava, si tentava di disegnare il futuro prossimo venturo. È diventato il fallimento di un’intera città, una catastrofe più che annunciata. Una porta spalancata verso i peggiori affari, le speculazioni su terre contaminate. Forse per sempre.

Il nome era semplice. Bagnoli futura, società di trasformazione urbana. Era nata per restituire terra e futuro al quartiere nord di Napoli, tra i Campi Flegrei, Pozzuoli e Pianura. Zona tosta, differente dal resto della città, dove un secolo di industria pesante ha forgiato una classe operaia che sembra uscita dai film di Elio Petri. Orgogliosa. Consapevole di rappresentare l’emancipazione dalla Napoli un po’ pezzente di Lauro, non più costretta a salire con le valige di cartone verso il nord delle fabbriche. Insieme al polo automobilistico e aeronautico di Pomigliano d’Arco, Bagnoli era quel motore di acciaio che il meridione sognava da decenni. La fine è arrivata lentamente. Prima i licenziamenti degli anni ’80. Poi la chiusura. I macchinari venduti alla Cina, all’India, al Bangladesh. Lasciando un cratere deserto, una macchia di verde pallido, interrotta dal rosso ruggine di qualche pezzo di archeologia industriale.

Bagnoli è un simbolo. Prima di tutto del principale progetto di Antonio Bassolino, il protagonista della scena politica napoletana dagli anni ’90 in poi. L’idea della trasformazione dell’ex Italsider, il bacino elettorale da sempre della sinistra erede del Pci, nasce parallelamente alla sua ascesa. Anzi, diventa il punto di forza del progetto di governo di Napoli, la vetrina della rinascita partenopea. Già nel 1995 aveva in mente tutto: risanare, per trasformare l’intera area flegrea in polo turistico e della ricerca scientifica. Lo chiamava semplicemente “Progetto Napoli”.

Lo portò in giro per il mondo, alla caccia di finanziatori internazionali. Partendo da New York, dove, nel marzo del 1995, Bassolino presentò il dossier “Bagnoli redevelopment area”, invitando le banche Usa ad entrare nel business, finanziando società miste pubblico-private. Il preside della facoltà di Scienze economiche di Yale, Joseph La Palombara, benedì il progetto: “Napoli ha grande potenzialità, ma usate la vostra principale risorsa, la fantasia”. Specialità locale che immediatamente si scatenò, disegnando centri congressuali da duemila posti, alberghi di lusso, fiere e mostre. Davanti ad un mare incontaminato. Era la promessa fatta a quella classe operaia base dell’ascesa di Antonio Bassolino, uscita senza lavoro e con poche speranze dalla chiusura della siderurgia. Turismo, nuovi posti di lavoro. Il sole e la spiaggia.

Il sogno diventato incubo

Quando nel 2002 il comune di Napoli – con una piccola partecipazione della provincia e della regione – inaugurò Bagnoli futura, sul tavolo i progettisti disegnarono un futuro glorioso. Prima la bonifica. Poi la creazione di una cittadella dei sogni: un parco dello sport, un auditorium con caffetteria e servizi, un belvedere ricavato dal comignolo dei fumi delle ex acciaierie, un acquario, un parco urbano, gli studios per accogliere il movimento cinematografico partenopeo. E la lunga passerella del pontile nord, lanciata verso il mare. E ancora, spiagge liberate dai veleni, stabilimenti balneari, locali per la movida, con a monte un parco urbano e perfino un bosco per la meditazione. Un sogno. Ben finanziato, con quasi 260 milioni di euro da spendere, tra fondi ereditati e stanziamenti futuri. Dodici anni dopo tutto è finito nei libri di un curatore fallimentare. Arroccato nel cuore dell’ex area industriale.

La strada che porta alla sede della società di trasformazione urbana attraversa l’antico quartiere operaio. Edifici fine ottocento, balconi con i panni stesi, le finestre del piano terra aperte sulle cucine. Scopri che sei a Napoli osservando i canarini appesi fuori dal club dedicato a Ciro Ferrara. L’unico ritrovo pubblico è il minuscolo giardinetto all’inizio della via, con le panche di ferro e una scacchiera per il gioco della dama sulle cassette di frutta. Poi una striscia di asfalto, fino al cancello della Bagnoli futura. “Chi cercate? Qui non c’è più nessuno”. La guardia giurata è quasi sorpresa. Da quando il tribunale ha dichiarato il fallimento lo scorso giugno anche gli uffici sono entrati ufficialmente a far parte del deserto di Bagnoli. I cartelli che indicano la direzione sono ormai coperti dall’erba e la strada che scende verso l’immensa macchia verde dove un tempo forgiavano l’acciaio sembra non portare più da nessuna parte. “C’è solo il procuratore, il curatore fallimentare”. E per entrare nell’auditorium? “E’ chiuso, è tutto chiuso”. E il parco dello sport? “Nessuno ci può entrare”. Non c’è più nulla. La passarella sopravvive grazie ai lavoratori socialmente utili messi in fretta e furia dalla giunta De Magistris come guardiani. Ma l’ascensore per i disabili è bloccato dall’inevitabile cartello “guasto”.

La bonifica mancata

Il male, a Bagnoli, è però più profondo. Ha attinto la radice del progetto di trasformazione, l’acqua, la terra e l’aria. Per i magistrati napoletani – che nell’aprile del 2013 hanno sequestrato l’area dell’ex Italsider – c’era poco da sognare. Paradossalmente la bonifica – ovvero il cuore dell’intervento – si era trasformata in un disastro ambientale, contornato da un’ipotesi di truffa e falso ideologico.
Carte truccate, secondo i magistrati, per la classica operazione della polvere sotto il tappeto. Con un gioco delle varianti di progetto i vertici di Bagnoli futura cambiano, almeno un paio di volte, il tipo d’intervento: in molte zone non ci sarà più la bonifica – che vuol dire rimuovere le sostanze pericolose, smaltendole altrove, riportando i luoghi allo stato originale – ma una “messa in sicurezza”. Operazione molto meno costosa. D’altra parte il luogo scelto per depositare i rifiuti pericolosi – la discarica a Pianura – non aveva ricevuto le autorizzazioni antimafia, facendo saltare un tassello fondamentale del piano d’intervento. Con la modifica in corso d’opera del progetto si decide di non rispettare più i valori di contaminazione rigidi previsti per il verde pubblico e le zone residenziali, ma quelli meno severi imposti dalla legge per le aree commerciali, industriali e di infrastruttura. Un escamotage, una porta d’uscita secondaria. Il terreno sotto il campeggio di tre ettari – ad esempio – viene considerato genericamente “d’interesse pubblico”, prevedendo – invece della bonifica radicale – una copertura con altro terreno dell’area contaminata. Così avviene per il Parco dello sport. Ma accade anche di peggio, raccontano le carte dell’inchiesta.

La De Vizia Transfer – società che si aggiudica l’appalto per la bonifica, prima indagata e poi prosciolta dal Giudice dell’udienza preliminare di Napoli – inizia a scavare le terre. Il cratere dell’ex acciaieria restituisce i suoi veleni: le ruspe affondano in morchie maleodoranti, intrise di oli contaminati. Quelle scorie – raccontano i magistrati – non sono mai uscite dai cantieri. Le hanno mescolate con terre di riporto, utilizzate, a loro volta, per la “messa in sicurezza” delle aree da destinare ai diversi parchi tematici. Quella che prima era una contaminazione a macchia di leopardo è diventata un’unica diffusa area avvelenata, creando – spiega il Gip – un “disastro ambientale”. Con ipotesi di responsabilità che arrivano fino alla direzione generale del Ministero dell’Ambiente, retto all’epoca da Gianfranco Mascazzini.

Anche peggio è accaduto sul lato del golfo. All’incrocio tra via Bagnoli e via Coroglio c’è il vecchio edificio dell’istituto alberghiero “Rossini”. Architettura anni ’70, una barriera tra la spiaggia e il centro del quartiere, ha aperto le porte agli alunni del 1995, sull’onda lunga del progetto bassoliniano. Di fianco c’è la stradina che porta al mare. “Divieto di balneazione. È consentita solo l’elioterapia”. Godetevi il sole, per il resto non c’è niente da fare. Sulla spiaggia si apre l’immagine più paradossale e significativa di Bagnoli. Le sdraio aperte, gli ombrelloni, le cabine, la musica, i bambini con i secchielli e le palette. Davanti agli scogli c’è la rete metallica, che blocca l’accesso al bagnasciuga. Appena fuori dall’ingresso agli stabilimenti le bancarelle sembrano far finta di nulla, continuando a vendere braccioli, canotti e ciambelle. È come se il mare ci fosse veramente.

Se i veleni sono nati a monte, qui la cancrena si chiama colmata. È un’area vasta, basata sui resti usciti dalle fonderie. Doveva essere rimossa e smaltita a Piombino, raccontano. Tutto è rimasto lì, immobile, mentre dal cratere dell’ex Ilva – poi divenuta Italsider – le scorie scendono senza sosta verso il mare. E così a Bagnoli ci si accontenta. “Solo elioterapia”, con traduzione in inglese di fianco. Dovesse arrivare un turista.

Risalendo via Bagnoli verso le colline si costeggia l’intero muro di recinzione dell’Italsider. Cassonetti teoricamente pensati per la differenziata che contengono di tutto, marciapiede che si stringe fino a sparire. Poi il cancello azzurro della candela, il comignolo “recuperato” che doveva ospitare il belvedere. Rigorosamente chiuso, rivolto verso il nulla: un balcone dieci metri per dieci, senza nessun collegamento con la torre dei fumi. Al massimo ti puoi godere il paesaggio lunare dell’erba pallida che ricopre il cratere abbandonato. Pochi metri ed ecco la “Porta del parco”, l’auditorium, una delle pochissime opere realizzate. Poco più di duecento posti, un’area di ristorazione, il centro benessere, il wi-fi gratuito. Sulla carta, perché tutto oggi è chiuso e inaccessibile.

Un classico napoletano

Cos’è stata, in fondo, la bonifica di Bagnoli? “Un classico napoletano, come il presepe”, commentava – tra le risate – l’ex direttore generale del Ministero dell’ambiente Gianfranco Mascazzini. Destino tragico di un’intera città, dipinto con feroce lucidità da Ermanno Rea, nel suo “La dismissione”, il racconto dello smantellamento del polo industriale: “Le fabbriche a Napoli non hanno indotto nessuna modernizzazione. Dicevamo: l’Ilva entrerà nel vicolo e lo bonificherà. Alla lunga è accaduto l’inverso: il vicolo è entrato nell’Ilva e l’ha inquinata”. Un veleno mortale.
Il “classico napoletano” alla fine si è materializzato il 13 febbraio 2013, quando Bagnoli futura è stata messa in liquidazione. Con conti disastrosi, che hanno portato al fallimento. Sui 268 milioni di euro stanziati risultano realmente spesi la metà, 136 milioni. Di questi solo 82 milioni di euro – secondo la stessa società – sono serviti per la bonifica. Il resto? La porta del Parco – oggi chiusa al pubblico – si è presa una consistente fetta della torta, 43 milioni di euro. Il resto? Con i conti sono, alla fine, saltati anche i progetti. Il consiglio di amministrazione scarica tutta la colpa sulla magistratura: “Il sequestro (…) ha contribuito ad aggravare le già precarie condizioni economico-finanziarie”, scrive il presidente del Consiglio d’amministrazione Omero Ambrogi. Cessioni delle aree edificabili bloccate, problemi con il sistema creditizio, progetti già avviati che si fermano: le indagini – assicurano gli amministratori della società – sono una catastrofe, che “possono far sorgere dubbi sulla continuità aziendale”. E i conti in rosso, con debiti accumulati nel corso degli anni, ben prima dell’intervento della procura di Napoli? “Sono caratteristiche della gestione di un società di trasformazione urbana, che concentra i costi nei primi esercizi”. Poi verrà l’utile, assicurano gli amministratori, cedendo le aree bonificate destinate a spazi e commerciali e residenziali. La via classica seguita da gran parte delle bonifiche in tutta Italia, partendo dalla Lombardia. Peccato che, per i magistrati e i periti del tribunale, su quelle terre non può nascere neanche una capanna.

Le aree verranno vendute – o svendute, viste le condizioni , per pagare i debiti dei fornitori, spiegano gli amministratori nell’ultima relazione. I contributi arrivati dall’Unione Europea – pari a 46,3 milioni di euro – per attività mai concluse dovranno, probabilmente, essere restituiti. La scelta indicata nella relazione firmata lo scorso anno alla fine era una via obbligata: mettere tutto in liquidazione, cercando di salvare il salvabile. O almeno la faccia. Così non è stato. I creditori hanno presentato l’istanza di fallimento, poi accolta, lo scorso giugno, dal tribunale di Napoli. Ma la catastrofe era iniziata molto prima. Nella stessa relazione allegata al bilancio del 2012 appare evidente come il core business – la bonifica – fosse venuto meno ben prima del sequestro dei magistrati: “Dai documenti della direzione dei lavori (…) – si legge – si deduce che le attività negli ultimi due anni hanno generato un avanzamento estremamente contratto”. E ancora: “Anche nell’area ex Eternit l’attività di bonifica ha registrato nell’ultimo periodo significative discontinuità”. Fermi anche i lavori per le infrastrutture “per questioni economico-finanziarie”.

Che potrà accadere ora? Probabilmente nulla, ed è l’ipotesi peggiore. Si dimenticherà per anni Bagnoli, le reti di acciaio continueranno a bloccare l’accesso al mare, l’erba coprirà le poche opere realizzate, e dall’archeologia industriale si passerà ai ruderi dell’Italia della seconda Repubblica. L’arrivo degli speculatori. Il progetto di un nuovo quartiere dedicato alla cultura, alle arti, allo sport e al mare svanirebbe del tutto, lasciando lo spazio ad un deserto circondato da cemento. O, come aveva annunciato Luigi De Magistris in una conferenza stampa nel 2012, l’ex Italsider potrebbe trasformarsi in un distretto dei rifiuti. A “impatto zero”, aveva assicurato l’assessore all’ambiente Tommaso Sodano. A quel punto gli obiettivi di bonifica si abbasserebbero, con valori raggiungibili senza grandi problemi. Poco senso avrebbero il parco urbano, le zone verdi e la promessa di una Napoli differente.

È quasi il tramonto. I cancelli del pontile nord si chiudono. Scendendo le scale si può guardare il cemento consumato e il ferro rosso di ruggine che sorreggono la striscia che si lancia verso il mare. È la polvere nascosta sotto il tappeto di Bagnoli. È quel “classico napoletano” che tanto faceva ridere i vertici del ministero dell’Ambiente. Un’apparenza, un cadeaux elargito per non cambiare nulla. Guardando il mare, oltre l’orizzonte, dove i conti in rosso e le terre contaminate non riescono ad arrivare.

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