In una nota di qualche giorno fa sul mio profilo Facebook ho scritto di non capire l’esultanza con cui vari amici, più o meno collocabili nell’area della sinistra radicale (concetto sempre più vago) celebravano la vittoria di Tsipras. Per motivare le mie perplessità elencavo una serie di fatti:
1) è la vittoria di un governo che si è impegnato ad applicare senza se e senza ma le condizioni imposte dai creditori che (ricordiamolo) sono assai più dure di quelle che il 60% dei Greci aveva respinto con il referendum (convocato e successivamente ignorato da Tsipras);
2) è una vittoria accolta con sollievo dai media e dagli oligarchi europei come un segnale di stabilità e una garanzia dell’effettuazione delle “riforme”;
3) l’astensione ha sfiorato il 50%, per cui il 35% di Syriza vale un 20% scarso degli elettori e il partito ha perso 300.000 voti (non pochi in un piccolo paese);
4) dai sondaggi risulta che la maggioranza dei voti persi riguardano elettori giovani (il "Guardian" parla infatti di uno slittamento della base elettorale verso le classi medie e le fasce di età più elevate).
Dov’è allora la vittoria?
Il post ha ottenuto molti gradimenti ma anche i commenti risentiti dei true believers di Tsipras (con argomentazioni che ricalcano quelle dei partitini della sinistra radicale “ufficiale” e della galassia di forze impegnate nella costruzione di una formazione socialdemocratica alternativa al centro renziano). Non ho la presunzione di spiegare a costoro perché sbagliano, mi limito a chiarire quali sono le differenze di prospettiva che ci dividono.
In un lucido editoriale dal titolo “Lezione di realismo da Atene”, firmato da Paolo Mieli e uscito sul Corriere del 22 settembre scorso, si leggono, fra gli altri, questi passaggi: “presto si capirà che le elezioni greche di domenica scorsa sono state vinte da Angela Merkel”, ancora: “ad essere decisiva è stata la velocità con la quale il capo del governo di Atene si è liberato del suo ministro Varoufakis e ha ratificato quella che lo stesso Varoufakis definisce oggi la resa del 13 luglio”; infine: “in una stagione di crisi, se non ci si vuole abbandonare a una deriva sudamericana, le cose da fare sono pressoché segnate e alla sinistra tocca il compito enorme di farle e di difendere ad un tempo i diritti dei più deboli”.
Le prime due citazioni non richiedono commenti, la terza merita invece uno sforzo di traduzione: c’è una velata minaccia (l’allusione alla “deriva sudamericana” evoca immagini di guerra civile nel caso i “populismi” di sinistra violassero i limiti prefissati dal dio mercato); quanto al “compito enorme” della sinistra in caso di crisi, sappiamo bene cosa significhi: far digerire alle classi subordinate le lacrime e il sangue necessari a reintegrare i profitti (spacciando la fregatura per difesa dei “diritti dei più deboli”).
Purtroppo tutte le sinistre europee (anche quelle “radicali”, che si accodano pur di lucrare qualche vantaggio elettorale) negli ultimi decenni hanno svolto alla perfezione questo “enorme compito”, ed è per questo che oggi siamo all’anno zero della capacità di resistenza ai diktat di chi comanda (nelle imprese e nei governi). So già cosa mi verrà obiettato: chi non accetta di essere realista fa la fine di Unità Popolare, che non ha nemmeno superato la soglia del 3%.
A parte il fatto che un nuovo partito non si inventa in due mesi, io penso che i veri oppositori vadano cercati fra quei cittadini (ovviamente non tutti) che non sono andati a votare, esprimendo la loro sfiducia nei confronti di un sistema politico che non offre più alcuna reale alternativa.
Di fronte al fallimento delle sinistre europee è sempre più chiaro il motivo per cui esperienze come Podemos (pur affondando le radici nella storia della sinistra spagnola) rifiutano di definirsi di sinistra. Si riparte da zero, o meglio si riparte da due pilastri: no all’Europa e no alle immediate velleità di governo. No all’Europa, perché questa Europa non è riformabile e dev’essere solo combattuta, no a velleità immediate di governo perché (e la triste parabola di Tsipras è lì a dimostrarlo) oggi andare al governo significa solo eseguire gli ordini delle oligarchie che incarnano gli interessi del mercato.
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