Solo taluni personaggi discretamente supponenti o eminentemente propagandistici, che pure rivestono ruoli anche d’alto profilo nella Nato, possono fingere stupore nella presa della città di Kunduz da parte talebana. Il flop più recente delle loro geostrategìe ha la denominazione di Resolute support, il piano che dallo scorso dicembre ha lasciato 13.000 marines e istruttori statunitensi nelle diverse basi aeree afghane: Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost, da dove continuano a partire F-16 e droni per azioni “antiterroristiche”. A questi s’uniscono, ruotando, contingenti di varie nazioni (l’Italia resta in prima fila) che partecipano alla missione di polizia internazionale secondo i dettami del Pentagono. L’intento è formare un’efficiente struttura militare interna che dovrebbe garantire una sicurezza minima alla quotidianità. Ma secondo la cronaca, già enunciata più volte nei mesi scorsi, il passaggio di consegne fra l’Isaf e l’Afghan National Army risulta in oggettiva difficoltà. Dietro a roboanti numeri si celano solo diffuse debolezze. L’esercito locale è giunto a contare 400.000 uomini, ma spesso il reclutamento segue interessi soggettivi incentrati su un salario da riscuotere (fino a 500 dollari) che per la famiglia dell’afghano in divisa significa sopravvivenza, almeno fino alla sopravvivenza del congiunto. Inoltre è sempre presente una cospicua quota d’infiltrazioni che l’insorgenza riesce a introdurre fra i militari. Niente di nuovo sotto il sole, dunque, dopo quattordici anni dall’inizio della “risolutiva” Enduring freedom utile solo a mantenere l’economia di guerra statunitense.
L’attuale conduzione politica locale, oltre a mostrare contraddizioni del binomio Ghani-Abdullah, servito ad accontentare i potenti alleati di entrambi che rispondono ai nomi noti di Dostum (vicepresidente) e altri indomiti signori della guerra alla Sayyaf ed Hekmatyar, mostra tutta la sua impotenza. Essa è divisa fra: accondiscendere alle direttive di Washington, spartirsi gli aiuti internazionali, più gli introiti della produzione e traffico di oppiacei che ha raggiunto il 97% della quota mondiale, soppiantando totalmente quello che negli anni Settanta era il triangolo d’oro indocinese. Le forze talebane sono state sempre presenti in molte province del Paese, sia nel proprio rilancio del 2003-2005, sia negli anni seguenti. Hanno resistito a operazioni complesse del biennio 2009-2010, pianificate dai generali McChrystal e Petraeus, (un esempio per tutti è stato il cosiddetto “Colpo di spada” nell’Helmand, la più imponente azione aeromobile dalla guerra vietnamita). I turbanti neri applicavano pratiche storiche della guerriglia, sganciandosi e ricomparendo in zone diverse, ma conservando un rapporto con la popolazione e gli stessi avversari, rendendosi disponibili a discutere con americani e raìs locali, fra cui l’ex presidente Karzai. I colloqui intavolati già nel 2010 fra il capo della Cia Panetta, quindi da Holbrooke, con gli uomini del mullah Omar e una parte della Shura di Quetta, testimoniano una tendenza talebana alle scelte tattiche. Senza, però, chiudersi in una subalternità di fatto. Se ogni trattativa riuscita tende a concludersi con un compromesso che porta la rinuncia a qualcosa, i Taliban, pur senza lasciare un brillante ricordo della propria guida della nazione dal 1996 al 2001, sono rimasti attori attivi sulla scena. Agli occhi di tutti.
Paradossalmente proprio il mantenimento d’uno stato d’occupazione del Paese, assieme alle considerevoli perdite sul campo riscontrate dalla coalizione Nato che introdusse un numero crescente di contractors (fra il 2012 e 2013 ne sono stati calcolati circa 160.000), ha aumentato il mito della resistenza talebana all’invasione duratura dell’Occidente. Ogni afghano, eccetto chi è considerato collaboratore o venduto allo straniero, è contrario alla soluzione militare attuata da Washington e dagli alleati. Perché essa non emancipa la nazione e ne tarpa un’economia autoctona, limita la libera crescita d’una società civile, coi bombardamenti aerei, che di fatto proseguono, produce vittime civili. L’insorgenza è vista da molti come una guerra di liberazione, le stesse figure dell’attivismo democratico che abbiamo più volte intervistato (Malalai Joya, Belquis Roshan, Selay Ghaffar) si pronunciano contro la mistificante missione Isaf e l’attuale mantenimento d’una presenza delle truppe Nato nel Paese. I talebani, inseguendo il piano di jihad antioccidentale, oltre a vantarsi di difendere il Paese, diffondono fra strati crescenti della gioventù un modello da perseguire, che in molti casi risulta più attraente di progetti pacifici che le poche componenti alternative e democratiche riescono a indicare. Peraltro negli ultimi mesi spaccature interne a gruppi talebani, che si rapportano alla rete di Haqqani e all’area delle Fata, ha creato una sorta di competizione sul fronte armato. Ahktan Mansour, il nuovo leader che ha rimpiazzato il mullah Omar, non intende cedere spazi interni a possibili aperture verso Al Baghdadi. Le prove di forze di Kunduz servono anche a delineare appartenenze e gerarchie.
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