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25/09/2015

Lampedusa, frontiera del conflitto globale


Qui di seguito il testo del contributo della redazione di Contropiano al "Forum contro le frontiere" in corso in occasione della VII edizione del Lampedusainfestival organizzato dal collettivo Askavusa.

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Presidi permanenti di sostegno ai migranti come quello di Ventimiglia, la determinazione del movimento No Muos, l’attuale attivazione di una rete contro l’esercitazione denominata Trident Juncture, realtà giovanili che promuovono convegni nazionali per comprendere gli attuali sviluppi della Nato: sostenuti da quell’ottimismo della volontà che mai ci mancherà, ci sentiamo di affermare che c’è vita su Marte. Quando infatti si tratta di trovare interlocutori, anche solo relativamente a quei temi che riguardano l’intreccio degli epifenomeni economici e militari sul piano internazionale, quelli appena elencati sono esempi di una certa ripresa di ragionamenti e pratiche condivisibili lungo tutta la penisola, e che crediamo possano costituire uno dei punti di partenza per costruire discorsi e pratiche di rottura con l'attuale opportunismo della classe dirigente mitteleuropea e con il buonismo di certo umanitarismo complice. È per questo che come redazione di Contropiano seguiamo da tempo, con report, documentazione e approfondimenti le sorti di questi fuochi vivaci nelle tenebre sotto le quali il senso comune e il sistema informativo e mediatico sembrano voler coprire la realtà. Crediamo infatti che dai fenomeni apparenti, passo dopo passo, sia possibile ricostruire insieme la trama da cui essi si sono dipanati, tentando di risalire alle concause e alle responsabilità di chi trae vantaggio dalla gestione delle contraddizioni della nostra epoca. Queste tematiche, dibattute anche al Lampedusa in Festival, rientrano proprio in uno di quegli ambiti di indagine che sollevati davanti agli occhi del “pubblico di classe” più largo possibile dovrebbero indurlo ad attivarsi e a lottare, obiettivo che poniamo alla base dell’esistenza stessa del nostro giornale, funzione che anche qualora riuscissimo ad assolvere è certamente necessaria ma non sufficiente per contribuire al cambiamento che vogliamo vedere nel domani. Per questo, seppure materialmente impossibilitati a presentarci sull’isola, abbiamo colto l’invito a prendere parte a quello che ci sembra un dibattito ricco e articolato. Questo vuole quindi essere il nostro breve contributo al ragionamento comune.

Nel suo ultimo rapporto annuale, l’Unhcr parla di oltre sessanta milioni di persone costrette a fuggire dal proprio paese, per trovare scampo e riparo da guerre economiche e militari. Un fenomeno che nell’area euro-mediterranea sta assumendo i connotati di un vero terremoto politico e sociale. In questi giorni - con non poche difficoltà, dovute in parte alla recente pausa estiva ma soprattutto allo sbandamento generale che investe la variegata area che compone la cosiddetta sinistra “radicale” e di “movimento” del nostro paese - si stanno organizzando in varie città iniziative di solidarietà attiva verso e al fianco delle migliaia di profughi che fuggono da guerre di aggressione e dallo sfruttamento intensivo delle loro terre. I paesi d’origine del flusso umano che sta investendo l’intera Europa disegnano la geografia degli ultimi 25 anni di ingerenze “umanitarie”, di interventi economici, finanziari e politici i cui i responsabili sono ben noti a tutti: USA, Unione Europea, NATO, Israele, petromonarchie del Golfo persico, multinazionali di riferimento. Sulle macerie dell’ex Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia, dell’Ucraina, della Siria, dello Yemen si è costruita la catastrofe di oggi, che nessun mare, tantomeno muri di contenimento potranno fermare.

Per questo è necessario aprire una breccia nella coscienza dei partecipanti a manifestazioni come le Marce delle Donne e degli Uomini Scalzi. In tutto il continente si vedono migliaia di persone onestamente democratiche e tante realtà collettive aderire in questi giorni alla chiamata in solidarietà con i profughi che premono alle frontiere della fortezza europea. Una cortina di buonismo di cui la classe dirigente dell’Unione Europea, e i suoi attori nazionali, stanno opportunisticamente cercando di ammantarsi tramite un’operazione mediaticamente riuscitissima. Un lavacro per le coscienze di chi ha le mani ancora sporche del sangue versato nelle guerre che ha alimentato dal Nord Africa alla Jugoslavia, passando per il Medio Oriente.

Ad animare i cuori di tanti tra coloro che aderiscono a queste marce è un sentimento di solidarietà con i migranti che condividiamo al 100%, ma dietro quale si sta dando adito a un restyling ideologico di tutt’altro tipo, in cui i veri responsabili rimangono impuniti, se non ne vengono addirittura assolti. Tra essi ritroviamo appunto quel segmento di borghesia internazionale che da alcuni decenni si sta organizzando intorno e attraverso la costruzione delle istituzioni e dei trattati europei, a cui oggi gli esiti della politica estera comunitaria stanno tornando addosso come un boomerang. Ma la costruzione di un apparato statale passa anche per la capacità di trasformare il rischio di una epocale sconfitta in un’ altrettanto decisiva vittoria. Ed è quello che purtroppo sta accadendo.

Infatti non possiamo certamente affidare le nostre speranze a chi come Merkel, leader non eletto di istituzioni comunitarie senza fondamento democratico, accetta oggi di aprire le frontiere assediate da una marea umana mossa proprio dalle politiche perseguite dalla classe dirigente del suo paese e di tutta l’UE. Un’apertura che tenta di fare una diabolica distinzione tra immigrati economici e profughi di guerra, speculando sulle vite di chi si vorrebbe convertire in nuova forza lavoro da sfruttare in un continente in cui vige la precarietà. Un’apertura che viene permessa solo dove e quando non è più possibile risolvere il problema reprimendo e nascondendo la polvere sotto il tappeto, e che oggi non mette in discussione l’impianto comunitario, a differenza di quanto avrebbe fatto non più tardi di due mesi fa accettare l’esito del referendum greco. Non cadremo quindi nella trappola ideologica preparata da chi teorizza il doppio binario degli interventi militari da affiancare con corpi di pace e movimenti umanitari, come candidamente riconosciuto in queste settimane dal capo di stato maggiore del Pentagono alle tv americane. Una strategia che Lampedusa e i suoi abitanti conoscono bene, e che da tempo vediamo essere tenacemente contrastata nelle mobilitazioni controinformative che si attivano a ogni anniversario del tagico naufragio del 3 ottobre 2013. Un’operazione ideologica da parte delle classi dirigenti che a suo modo sta riprendendo enormemente fiato a partire da una data esplosiva sul piano simbolico: la marcia dei presidenti che si tenne l’11 gennaio scorso a Parigi.

Non possiamo che essere lieti che sempre a Lampedusa e nella cornice di questo Festival stia diventando coscienza condivisa la necessità di approfondire le dinamiche attinenti la politica economica per comprendere gli avvenimenti che si sviluppano lungo le frontiere della fortezza Europa. In tutti questi casi, un macroscopico filo rosso si dipana davanti ai nostri occhi: è il soggetto che promuove l’austerity in casa e la guerra alle porte, è quella complessa realtà che si fa carico delle politiche neoliberiste contro chi vive di lavoro e a favore di chi campa sul profitto da essi prodotto, che cresce a traino del mercantilismo mitteleuropeo e della conseguente apertura alle burrascose sorti dei mercati finanziari e delle loro tempeste, che lascia da parte chi è di troppo, e che per sopravvivere ha bisogno di controllare spazi e risorse da conquistare sempre più spesso con l’impiego di eserciti. E’ l’Unione Europea, e quella che abbiamo a malapena abbozzato è la descrizione (...per alcuni poco digeribile) di un polo imperialista in formazione nello scenario di crisi in cui si esaspera la competizione globale. Oggi più che mai abbiamo bisogno però di riconoscere questa realtà, per scomoda che possa essere, di riconoscere il contesto in cui si generano i mali della nostra epoca, se vogliamo tentare una strategia di resistenza e di contrattacco. Ed è per questo che anche nell’imponente fenomeno migratorio dobbiamo cogliere le contraddizioni di classe che mette in luce, perché ci pone una serie di interrogativi e di compiti che ben poco hanno a che vedere col nostro umanitarismo. Non ci aspettiamo quindi che i benpensanti colgano questa opportunità, ma è un compito al quale invece non possono sottrarsi il precariato e i suoi fratelli migranti, accomunati dalla condizione di ipersfruttamento che li candida di per sé a un ruolo di avanguardia nella rottura con le compatibilità di una tecnocrazia europea da cui non hanno nulla da guadagnare.

Non aver paura di sporcarsi le mani affrontando i nodi politici della contemporaneità, riconoscere il ruolo dell’Unione Europea e dei suoi governi come soggetti politicamente caratterizzati per attaccare le fasce più deboli della società, costruire un’ipotesi credibile per uscire a sinistra da questa crisi che non vede la fine. E’ questo l’unico modo per contrastare realmente l’irresistibile ascesa che la propaganda reazionaria di vecchi e nuovi fascismi sta avendo anche tra settori di classe sempre più impauriti e lasciati a se stessi dal vuoto di un ceto politico di sinistra andato al macero. È per questo che le sinistre e i popoli del Mediterraneo, se vogliono tornare a incidere realmente nella materialità degli eventi e sull’autodeterminazione della propria storia, non possono concedersi il lusso di lasciare alle destre populiste, reazionarie e razziste, lo spazio politico di discussione attivabile intorno alle tematiche di rottura con l’imperialismo.

Per chiudere, vogliamo citare lo stralcio di una recente intervista rilasciata da Tanto d’Amico, straordinario narratore per immagini dei movimenti italiani dell’ultimo mezzo secolo, in merito proprio alle immagini pietistiche con cui la stampa generalista ci sta bombardando in queste settimane: “Io credo che queste immagini siano state acconciate e aggiustate ripetutamente anche per organizzare uno scenario politico utile non certo alla nostra parte: mi ricorda un po' le immagini della guerra del Vietnam come quella che riguardano ad esempio My Lai. Quelle immagini furono scattate da soldati, non da giornalisti (neanche embedded), ma da soldati; quelle immagini uscirono quando serviva al governo una motivazione forte per giustificare una exit strategy da un pantano che aveva tolto la vita e decine di migliaia di giovani americani. Fu quest'ultimo infatti il motivo della ritirata dal Vietnam, non certo la compassione dei vertici politici e militari Usa per quella fotografia.”

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