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22/09/2015

La vittoria zoppa di Syriza

Apparentemente le ennesime elezioni che si sono tenute in Grecia ieri – le quinte in soli sei anni – hanno riportato il paese esattamente al punto di partenza del 25 gennaio. Syriza ha ottenuto il 35.47% dei voti, solo un punto in meno rispetto alle elezioni di inizio anno, e anche i nazionalisti di destra di Anel, che i sondaggi avevano già cancellato dalla mappa parlamentare, riescono invece a superare l’asticella del 3% e ad ottenere 10 seggi con il 3.69% dei voti.

Volendo, Alexis Tsipras – che nel discorso tenuto ieri sera ad Atene davanti ai suoi sostenitori ha accuratamente evitato di citare il Memorandum da lui firmato a luglio – potrà formare in pochissimi giorni un esecutivo fotocopia rispetto a quello che era andato in pezzi solo poche settimane fa, anche se ricorrendo solo a Panos Kammenos avrebbe a disposizione solamente pochi deputati in più di quelli richiesti per governare: 155.

Ma solo apparentemente il risultato di ieri ricalca quello del 25 gennaio, e solo un analista disattento o interessato può non notare le enormi differenze. Intanto la scarsa affluenza alle urne: ieri ha votato solo il 56.5% degli aventi diritto, mentre a gennaio alle urne si erano recati il 64% dei greci. Le elezioni di ieri hanno fatto registrare uno dei tassi di partecipazione tra i più bassi della storia della Grecia del secondo dopoguerra, e non si tratta di un bel segnale. Fisiologico, hanno messo le mani avanti in molti commentando il dato, visto il frequente ricorso alle urne che ha ‘stancato’ gli elettori. Peccato che solo pochi mesi fa, a inizio estate, il referendum sull’accettazione o meno del terzo memorandum a base di austerity, privatizzazioni e tagli abbia invece mobilitato assai di più l’opinione pubblica. La verità è che la capriola di Tsipras, la capitolazione di Syriza e di Anel alle imposizioni capestro dell’Unione Europea e del Fondo Monetario hanno dilapidato in pochi mesi uno straordinario patrimonio di speranze, mobilitazioni, disponibilità alla partecipazione che difficilmente potrà essere recuperato in questo quadro niente affatto entusiasmante per i greci.

Il 35% ottenuto ieri da Syriza – che pure ha incassato all’ultimo minuto utile molto del voto degli indecisi, smentendo molti dei sondaggi che la davano sotto il 30 – è assai più leggero e quindi meno significativo della quota apparentemente simile conquistata quasi otto mesi fa, in numeri assoluti e in quanto a peso specifico.

E qui veniamo al secondo dato: la Syriza che ha vinto le elezioni di ieri è un partito molto diverso da quello che si affermò il 25 gennaio. Le minoranze interne più radicali e più disponibili ad una rottura con il quadro esistente – l’Ue, l’Euro, la denuncia del debito – sono state nel frattempo espulse da un meccanismo decisionista dell’entourage di Tsipras che ha privato il partito della possibilità di discutere, di confrontarsi, di aggiustare il tiro. Ed oggi la "Coalizione della Sinistra Radicale" è un partito geneticamente modificato, un partito governista e subalterno alle compatibilità capitalistiche assai più che nei già tristi giorni di luglio quando Tsipras dimostrò, nei fatti, che non si può tenere insieme l’illusione della riforma democratica dell’Unione Europea con la pretesa di annullare l’austerity e riconquistare sovranità e giustizia sociale.

Terzo elemento: rispetto a gennaio Syriza ha perso 4 seggi, e Anel deve rinunciare a tre eletti avendo perso un punto percentuale. Una maggioranza assai debole per un governo che nei prossimi mesi dovrà gestire l’applicazione delle misure lacrime e sangue contenute nel Memorandum accettato da Tsipras a luglio “per salvare il paese dalla catastrofe”. Misure che l’esecutivo dovrà far ingoiare ai greci insieme alle altre che già la troika in versione quartetto si prepara ad imporre ad Atene. D’altronde il braccio di ferro dei mesi scorsi – finito come è finito – ha dimostrato la scarsa capacità e volontà di resistenza della sinistra ellenica, che cedendo a luglio si è messa nelle condizioni di dover accettare altri memorandum, altri ricatti, altre imposizioni in un paese più debole e più disilluso dove le grandi lotte degli anni scorsi sono state dilapidate in nome di una “Altra Europa” che invece sono le oligarchie e la macchina burocratica continentale – ancora più matrigna e spietata – a costruire a passo di carica. Se vorrà costruire ‘quel governo forte e stabile’ che Tsipras ha evocato ieri, il primo ministro incaricato dovrà probabilmente allargare la maggioranza a destra, ai socialisti o ai centristi, come del resto aveva già fatto quando la ribellione dei deputati della sinistra di Syriza lo aveva convinto ad accettare i voti dei “partiti del sistema” pur di portare a compimento la resa davanti a Bruxelles e a Berlino. E quindi, anche se rafforzato da un numero di deputati congruo, un siffatto governo sarebbe ancora più debole, arrendevole, inadatto ad affrontare e a risolvere i problemi del popolo greco.

Di fatto lo Tsipras che ieri ha dimostrato di essere ancora vivo e vegeto e di aver conquistato – almeno per ora – un posto stabile e di primo piano nel panorama politico ellenico, è un vero e proprio fantasma. Che forza contrattuale, che capacità decisionale potrà avere un governo che esclude a priori ogni rottura e che si definisce 'responsabile'?

Saranno in molti a determinare le sorti della Grecia: l’Unione Europea, i mercati, gli alleati di governo, gli oligarchi. Non Tsipras, né il suo partito, che hanno deciso di rinunciare alla battaglia per attestarsi sulla più apparentemente comoda e realistica linea della ‘riduzione del danno’, promettendo una impossibile gestione più razionale ed egualitaria del massacro sociale ordinato da nord. Confortati del resto da una buona parte dell'elettorato che, nonostante tutto, continua a credere che si possano ottenere più rispetto e più giustizia sociale all'interno del soffocante quadro della gabbia europea.

Sul fronte opposto, le elezioni di ieri hanno dimostrato la scarsa presa sull’elettorato greco delle formazioni della sinistra comunista e di rottura. I transfughi di Unità Popolare, nonostante la notorietà dei suoi animatori, non sono riusciti neanche a superare lo sbarramento del tre per cento, e con il 2.86% sono rimasti fuori dal parlamento (i rallegramenti per la sconfitta di Lae all’interno di Syriza la dicono lunga sulla natura del partito nella nuova versione 2.0). Sarebbe bastato lo 0.8% conquistato da Antarsya a far superare l’asticella ad Unità Popolare e portare in parlamento una battaglia che per ora dovrà rafforzarsi nella società, tra i lavoratori, i disoccupati e i giovani, ma i veti incrociati e la tradizionale rissosità della sinistra antagonista ellenica hanno fatto saltare l’accordo.

I comunisti del KKE hanno “resistito” ottenendo esattamente quel 5.5% che avevano strappato a gennaio, ma in una situazione tale ci si poteva e doveva aspettare un risultato migliore che capitalizzasse il fallimento storico e strategico di Syriza. Comunque le tre forze, sommate, si avvicinano ad un non certo disprezzabile 10%.

Ad avvantaggiarsi della situazione, più che una Nuova Democrazia ferma sul 28% già conquistato a gennaio, sono stati soprattutto le formazioni centriste. In particolare i socialisti alleati di Dimar che dal 4.7 e 13 seggi sono risaliti al 6.28% e 17 eletti; e poi i liberali di To Potami che pur scendendo dal 6.05 (17 seggi) al 4.1% (11) vengono affiancati dall’Unione di centro (3.43 e 9 eletti). 

Non c’è stato invece il temuto boom dei neonazisti di Alba Dorata, che comunque non solo si confermano come terzo partito, ma portano la loro pattuglia in parlamento da 17 a 18 eletti, ottenendo un 7% tondo tondo nonostante pochi giorni fa il loro leader, Michaloliakos, si sia assunto la responsabilità politica dell’omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas rivendicando di fatto la linea squadrista del movimento. Un campanello d’allarme che non va sottovalutato, una legittimazione popolare dei neonazisti che va rintuzzato rafforzando le battaglie contro l’austerity ma anche per inceppare e rompere il meccanismo che la genera, l’Unione Europea.

Intanto la Grecia, come in una sorta di grottesco ‘gioco dell’oca’, sembra ritornata alla casella di partenza, dimostrando che non necessariamente il malcontento generato dai diktat e il conseguente peggioramento delle condizioni materiali di vita sono in grado, di per sè, a mettere in discussione la ritrovata egemonia ideologica e politica della borghesia europea.

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