E’ arrivato il momento di parlare con Teheran. Cominciano a capirlo
tutti, anche gli Stati Uniti, che hanno annunciato ieri di voler aprire
un dialogo sulla Siria proprio con la Repubblica Islamica. A parlare è
stata Wendy Sherman, sottosegretario di Stato per gli Affari politici,
spiegando che la questione sarà in agenda quando il responsabile Usa
degli esteri John Kerry domani incontrerà il suo omologo iraniano,
Mohamad Javad Zarif, in sede Onu.
“Siamo sempre stati aperti – ha dichiarato la Sherman – a condurre
colloqui a seconda dei casi. Non perché ci coordiniamo, ma perché
sappiamo con certezza che ci sono interessi paralleli. C’è grande
sensibilità politica in Iran ad avere queste discussioni e probabilmente
alcuni limiti che sono reali, ma è importante impegnarci nella misura
in cui possiamo”. La sensibilità politica della Repubblica islamica
nasce però da posizioni diametralmente opposte a quelle degli Usa:
sostenere il presidente siriano Bashar al-Assad, quando invece
Washington ne chiede – e ne foraggia – da quattro anni la rimozione.
Una rimozione che non è ancora arrivata e che, almeno da parte statunitense, per ora non sembra neanche vicina. Dopo anni di sostegno, pochi giorni fa è stato infatti decretato un nuovo fallimento della politica Usa in Siria con l’annuncio,
fatto dal capo del comando militare centrale statunitense Lloyd Austin
alla Commissione dei Servizi Armati del Senato, di reali numeri della
milizia anti-Assad finanziata da Washington: quattro, forse cinque
combattenti starebbero realmente prestando servizio, mentre un altro
centinaio sarebbe in fase di addestramento. Troppo pochi per
giustificare quei 500 milioni di dollari finora investiti
dall’amministrazione Usa per i cosiddetti “ribelli moderati”. Per
questo, annunciano alcuni funzionari della Difesa, il programma di
addestramento sarà ridimensionato.
Ed è proprio ora che la discussione tra i due storici nemici, freschi
firmatari di un accordo sul nucleare, avrebbe “senso”, a detta del
Sottosegretario di Stato Usa: ora che gli ultimi sviluppi sul campo
stanno cambiando le carte in tavola. Con la Russia sempre più
presente in Siria al fianco di Assad, tanto da spingere Washington a
centrare la discussione di domenica prossima con il titolare degli
Esteri russo Sergei Lavrov proprio su questo. Con l’Isis e le altre
formazioni jihadiste che non appaiono neanche lontanamente indebolite,
nonostante i raid della coalizione anti-califfato iniziati la scorsa
primavera. E con i “ribelli moderati” riccamente foraggiati da
Washington e dai suoi alleati che piano piano stanno cedendo.
L’ultima batosta l’hanno ricevuta qualche giorno fa, quando
all’ennesimo fallimento dell’offensiva di quel che resta dell’Esercito
Libero Siriano per strappare la città meridionale di Deraa alle truppe
governative, le operazioni contro il regime in quella zona sono state
dichiarate “chiuse”. Non dai miliziani stessi, bensì da Washington
e Amman, che dalla Giordania dirigono il “Centro per le Operazioni
Militari” assieme ad alti rappresentanti militari di 14 nazioni
occidentali e del Golfo, fornendo assistenza logistica, equipaggiamento e
stipendi ai miliziani. Una fonte all’interno del Centro ha rivelato al
portale Middle East Eye che gli americani e i giordani avrebbero deciso di chiudere il fascicolo sulla riconquista di Deraa, la prima città ribelle ad aver sperimentato la durissima repressione del regime siriano all’inizio del 2011.
L’ultima offensiva per la riconquista della città è stata pianificata
dal Centro per le Operazioni Militari e lanciata il 25 giugno scorso.
L’operazione “Tempesta del sud”, a distanza di tre mesi, avrebbe –
secondo quanto raccontato dalla fonte interna al COM – prodotto solo 200
morti tra le fila dell’Esercito siriano libero e un enorme spreco di
denaro, oltre a frizioni sempre maggiori tra i miliziani sponsorizzati
da Washington e le fazioni islamiste presenti nella zona, che pure nel
2014 si erano unite ai ribelli cosiddetti “moderati” in un’altra
operazione di riconquista della città.
A fronte della situazione sul campo, torna a farsi spazio
nelle menti statunitensi l’ipotesi della presenza di Assad in una futura
transizione, il secondo cedimento di Washington dopo anni di
intransigenti “no” all’eventualità. Negli ultimi giorni alcuni
funzionari della Segreteria di Stato Usa, tra cui Kerry stesso, avevano
lasciato intendere che l’intransigenza non era più un’opzione. Wendy
Sherman ha chiarito le cose: “Noi non pensiamo che non sia credibile per
Assad rimanere per un certo periodo di tempo come leader del suo paese.
Apprezziamo però che ci possa essere una soluzione politica in
cui Assad sia lì per un certo periodo di tempo mentre avviene la
transizione”.
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