Sul palcoscenico dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ieri è
andato in scena lo spettacolo del botta e risposta russo e statunitense
sulle politiche delle super potenze in Medio Oriente. Obama, dallo
scranno Onu, ha difeso la politica Usa, attaccato Damasco (unico
responsabile della crisi, ha detto il presidente), rigettato una sua
possibile partecipazione all’eventuale governo di transizione, accusato
la Russia di atti unilaterali, a partire dall’annessione della Crimea.
Pochi minuti dopo è toccato al presidente russo: Putin ha denigrato
la strategia Usa, accusato Washington e alleati del Golfo di aver
infiammato le tensioni finanziando gruppi terroristi, ribadito la
necessità di riconoscere Assad, unica soluzione alla guerra civile.
Posizioni distanti. A parole. Perché la realtà dei fatti,
dettata dagli equilibri militari e politici sul campo, è ben diversa: le
due super potenze fingono una guerra fredda che non c’è. Quella che c’è
è la volontà di uscire puliti dalla crisi siriana, salvaguardando i
propri interessi strategici ed economici, perché – com’è ovvio – nessuno
lavora mosso dall’interesse di tutelare il popolo siriano.
A margine dell’Assemblea Generale Onu, i due si sono incontrati, per
la prima volta da due anni, e hanno discusso a porte chiuse per oltre
un’ora e mezza. E le parole, utili a mantenere le posizioni di fronte ai
media e alle rispettive opinioni pubbliche, hanno lasciato spazio alla
tutela degli interessi reciproci.
Dopo l’apertura di Obama, nel discorso all’Assemblea, al dialogo con Russia e Iran, nell’incontro tra i due presidenti Mosca e Washington hanno deciso di lavorare insieme, su un terreno comune:
“Abbiamo punti in comune e abbiamo differenze – ha detto Putin ai
giornalisti – Penso che ci sia un modo per cooperare sui problemi che
stiamo affrontanto”.
Ovvero, raid congiunti e coordinati contro l’Isis in Siria:
Putin l’ha definita una nuova coalizione globale, come quella che
sconfisse la Germania nazista di Hitler. Questa potrebbe essere
la scappatoia, che tiene per ora a lato la questione scottante, la
presenza o meno del presidente Assad. Mosca lo vuole, Washington no. Si
giungerà ad un compromesso: Assad potrebbe prendere parte alla
transizione politica in un negoziato con le opposizioni volto alla
formazione di un governo di unità. E in una seconda fase lasciare spazio
ad una figura del suo establishment, meno problematica e che salvi la
faccia (e gli interessi) di tutti gli attori regionali e globali.
Un segnale chiaro dell’intenzione, dettata dalla necessità,
di dialogare l’ha data lo stesso Obama: l’amministrazione Usa ha sospeso
il costosissimo programma di addestramento dei ribelli moderati.
Un programma fallimentare, smascherato dalle ultime vicende, a partire
dalla consegna dell’equipaggiamento militare da parte di un’unità appena
addestrata ai miliziani di al-Nusra. La decisione segue l’ammissione
del generale Austin, capo delle operazioni militari nell’area, secondo
il quale i combattenti effettivi preparati dagli Usa non sono più di 4 o
5.
All’assenza di una strategia statunitense fa da contraltare la
massiccia presenza dell’asse sciita, sostenuto dalla Russia: 150mila
miliziani combattono nel campo siriano, guidati da Teheran, sola forza
ad oggi – a parte i combattenti kurdi – a tenere le posizioni contro i
gruppi islamisti che controllano oltre un terzo del paese. Fa da
contraltare anche il centro di coordinamento messo in piedi a Baghdad
da russi, siriani, iraniani e iracheni e volto a definire e gestire le
operazioni militari nei due paesi invasi dallo Stato Islamico.
Sullo sfondo resta una proposta russa, riportata dal vice ministro
degli Esteri di Mosca, Bogdanov: entro ottobre potrebbe partire un nuovo
tavolo del negoziato a cui prenderanno parte Stati Uniti, Russia,
Turchia, Egitto ed Iran. Per uscire dalla crisi siriana con un accordo
che ormai è palesemente necessario, soprattutto per chi in 4 anni non è
riuscito a rovesciare Assad.
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