Il voto degli operai americani della Fiat Chrysler coglie tutti di
sorpresa: il sindacato UAW (United Automobile Workers), che era convinto
di avere firmato un buon contratto, Marchionne, che sperava di essersi
assicurato un nuovo periodo di pace sociale e i media che paventano il
dilagare dell’ideologia “populista” (“UAW Contract Vote at Fiat Chysler Takes a Populist Tone” titola un allarmato New York Times).
Lo UAW aveva scelto di iniziare la stagione dei rinnovi contrattuali
del settore con l’impresa che rispetto ad altri marchi, come la Ford,
gode di minori margini di profitto e che, grazie alla crisi della
Chrysler di qualche anno fa, aveva consentito alla Fiat di interpretare
il ruolo di salvatrice e di imporre livelli salariali bassi in cambio
del mantenimento dei posti di lavoro. Così, se si fossero strappati
consistenti miglioramenti per quello che veniva considerato l’anello
debole dei rapporti di forza, pensavano i leader sindacali, il compito
sarebbe risultato più agevole nelle altre fabbriche. In effetti gli
aumenti da 19 a 25 dollari ora per i nuovi assunti e da 28 a 30 per i
veterani (oltre a un bonus una tantum di 3000 dollari) era più di quanto
si fossero aspettati, per cui davano per scontata l’approvazione
dell’accordo da parte della base. Invece è arrivato un secco no da parte
di una maggioranza che, per un caso emblematico, non è molto lontana da
quella con cui i cittadini greci avevano respinto (inutilmente!) le
pretese dei creditori internazionali.
Da una serie di interviste ai lavoratori e dall’analisi dei post
pubblicati su Facebook il NYT ha cercato di ricostruire i motivi del
rifiuto: non si è fatto nulla per imporre all’azienda di rinunciare alla
strategia dei “due terzi” (i nuovi assunti hanno avuto un aumento, ma
senza garanzie di ottenere ulteriore mobilità), vengono considerati
insufficienti sia i livelli di assicurazione sanitaria e accantonamento a
fini pensionistici, sia le promesse di non procedere a
delocalizzazioni. Molti hanno detto/scritto che le concessioni fatte a
Marchionne anni fa non hanno più ragion d’essere perché ora la
produttività e i conti dell’azienda sono migliorati.
Il sindacato si difende dicendo che si tratta di un eccesso di
aspettative che non tiene conto dei vincoli rigidi imposti
dall’andamento del mercato globale, media e opinionisti attribuiscono
invece l’eccesso di “pretese” operaie al dilagante sentimento populista
(vedi sopra), citando il crescente – e sempre più sorprendente –
successo del candidato socialista alla nomination Bernie Sanders. Sta di
fatto che, come ho già più volte sottolineato in precedenti interventi su queste pagine,
oggi la lotta di classe sembra riprendere slancio in Paesi che
sembravano averla definitivamente accantonata, come gli Stati Uniti e
l’Inghilterra, piuttosto che nella vecchia Europa, segnata dal
malinconico tramonto della socialdemocrazia.
Resta da vedere se gli operai della Fiat Chrysler dovranno
rinfoderare, come è successo ai cittadini greci, la loro volontà di
resistenza e saranno indotti ad accettare il “realismo” dei dirigenti
sindacali. L’esito, come ha giustamente osservato uno degli ex leader
del movimento Occupy Wall Street, Jonathan Westin, dipenderà soprattutto
dal fatto se la volontà di resistenza si tradurrà in scioperi e
manifestazioni – seguendo l’esempio dei lavoratori dei fast food di New
York che hanno strappato il quasi raddoppio del salario minimo – perché
“la maggior parte delle vittorie non si ottengono al tavolo delle
trattative ma scendendo in strada”.
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