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07/10/2015

Se negli Stati Uniti torna la lotta di classe

Il voto degli operai americani della Fiat Chrysler coglie tutti di sorpresa: il sindacato UAW (United Automobile Workers), che era convinto di avere firmato un buon contratto, Marchionne, che sperava di essersi assicurato un nuovo periodo di pace sociale e i media che paventano il dilagare dell’ideologia “populista” (“UAW Contract Vote at Fiat Chysler Takes a Populist Tone” titola un allarmato New York Times).

Lo UAW aveva scelto di iniziare la stagione dei rinnovi contrattuali del settore con l’impresa che rispetto ad altri marchi, come la Ford, gode di minori margini di profitto e che, grazie alla crisi della Chrysler di qualche anno fa, aveva consentito alla Fiat di interpretare il ruolo di salvatrice e di imporre livelli salariali bassi in cambio del mantenimento dei posti di lavoro. Così, se si fossero strappati consistenti miglioramenti per quello che veniva considerato l’anello debole dei rapporti di forza, pensavano i leader sindacali, il compito sarebbe risultato più agevole nelle altre fabbriche. In effetti gli aumenti da 19 a 25 dollari ora per i nuovi assunti e da 28 a 30 per i veterani (oltre a un bonus una tantum di 3000 dollari) era più di quanto si fossero aspettati, per cui davano per scontata l’approvazione dell’accordo da parte della base. Invece è arrivato un secco no da parte di una maggioranza che, per un caso emblematico, non è molto lontana da quella con cui i cittadini greci avevano respinto (inutilmente!) le pretese dei creditori internazionali.

Da una serie di interviste ai lavoratori e dall’analisi dei post pubblicati su Facebook il NYT ha cercato di ricostruire i motivi del rifiuto: non si è fatto nulla per imporre all’azienda di rinunciare alla strategia dei “due terzi” (i nuovi assunti hanno avuto un aumento, ma senza garanzie di ottenere ulteriore mobilità), vengono considerati insufficienti sia i livelli di assicurazione sanitaria e accantonamento a fini pensionistici, sia le promesse di non procedere a delocalizzazioni. Molti hanno detto/scritto che le concessioni fatte a Marchionne anni fa non hanno più ragion d’essere perché ora la produttività e i conti dell’azienda sono migliorati.

Il sindacato si difende dicendo che si tratta di un eccesso di aspettative che non tiene conto dei vincoli rigidi imposti dall’andamento del mercato globale, media e opinionisti attribuiscono invece l’eccesso di “pretese” operaie al dilagante sentimento populista (vedi sopra), citando il crescente – e sempre più sorprendente – successo del candidato socialista alla nomination Bernie Sanders. Sta di fatto che, come ho già più volte sottolineato in precedenti interventi su queste pagine, oggi la lotta di classe sembra riprendere slancio in Paesi che sembravano averla definitivamente accantonata, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, piuttosto che nella vecchia Europa, segnata dal malinconico tramonto della socialdemocrazia.

Resta da vedere se gli operai della Fiat Chrysler dovranno rinfoderare, come è successo ai cittadini greci, la loro volontà di resistenza e saranno indotti ad accettare il “realismo” dei dirigenti sindacali. L’esito, come ha giustamente osservato uno degli ex leader del movimento Occupy Wall Street, Jonathan Westin, dipenderà soprattutto dal fatto se la volontà di resistenza si tradurrà in scioperi e manifestazioni – seguendo l’esempio dei lavoratori dei fast food di New York che hanno strappato il quasi raddoppio del salario minimo – perché “la maggior parte delle vittorie non si ottengono al tavolo delle trattative ma scendendo in strada”.

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