"La sfida che abbiamo di fronte
col referendum è quella di ripensare il potere costituente in termini.
Le lotte necessitano di consolidare istituzioni e contropoteri." Un
articolo in anteprima da "Alternative per il Socialismo", numero 42:
"Sabbia nell'ingranaggio"
di Francesco Brancaccio e Francesco Raparelli
L'opposizione alla riforma
costituzionale Renzi-Boschi è, fino in fondo, opposizione alla
catastrofe neoliberale che sta dilaniando l'Europa. Non occorre
essere raffinati costituzionalisti, infatti, per cogliere tra le righe
della riforma l'obiettivo, inequivocabile, di cancellare la democrazia
parlamentare. In combinazione con l'Italicum, il «monocameralismo imperfetto» accentra i poteri nelle mani dell'esecutivo e favorisce la (piena) sostituzione dell'amministrazione per conto del mercato alla politica in rappresentanza del popolo.
Che il meccanismo della rappresentanza,
decisivo per la democrazia liberale (moderna), sia da tempo andato in
pezzi è cosa nota. Di più: l'abbiamo voluto! L'hanno voluto in questi
ultimi decenni i movimenti sociali che, nel segno e nel senso dei
contro-poteri, dell'autogoverno e della proliferazione istituzionale,
hanno radicalmente criticato il principio (sovrano) di rappresentanza.
Il recente fenomeno grillino, poi, se letto a partire dal rilievo della
democrazia digitale, è indubbia esemplificazione – carica di difetti,
intendiamoci – del rifiuto diffuso per la delega, sia essa (ancora)
tradizionalmente partitocratica o, piuttosto, tecnocratica. Ma sappiamo
bene che si tratta di processi assai distinti: quello di Renzi è un
“golpe del mercato”, secondo il dogma della stabilità/governabilità,
contro quel che resta dei contrappesi parlamentari. Flebili quanto si
vuole, largamente neutralizzati, nell'ultimo ventennio, dalla
legislazione fatta di decreti e voti di fiducia, ma pur sempre presenti.
Sappiamo anche, però, che una semplice
difesa di ciò che è stato non basta. Insufficiente per battere Renzi,
inadeguata per fare i conti con la trasformazione della costituzione materiale
del Paese. E non è solo quest'ultima a essere radicalmente cambiata a
partire dalla seconda metà degli anni '70 (parliamo ormai di ben quattro
decadi!): con la fine della Seconda Repubblica, nella transizione a
mezzo di commissariamento neoliberale verso la Terza, è la costituzione formale
a essere stata già pesantemente manomessa. Partiremo dunque dagli
smottamenti – solo alcuni – che hanno investito sia la costituzione
materiale che quella formale (§ 1), per poi concentrare la nostra
attenzione sulla torsione autoritaria imposta dalla riforma Renzi-Boschi
(§ 2) e, infine, insistere sulla sfida costituente che una effettiva opposizione alla riforma pretende (§ 3).
1. Lacerazioni neoliberali
Gli “scalpi” neoliberali che hanno
radicalmente modificato la costituzione materiale del nostro Paese
vengono da lontano, vale la pena ripeterlo. Così come è sempre
necessario insistere sulle lotte che hanno anticipato e, nella
sconfitta, loro malgrado favorito la contro-rivoluzione monetarista. Le
tappe italiche qualificano l'itinerario di un fallimento: sconfiggendo
i movimenti autonomi del lungo '68, il padronato, i sindacati e la
partitocrazia del Bel Paese hanno preparato nel dettaglio la catastrofe.
Certo, il fallimento nel quale siamo immersi è figlio del 2008 e della
crisi globale. Ma c'è una drammatica peculiarità italica, fino in fondo
determinata dalle élite più arraffone, rapaci, mediocri d'Europa.
Gli anni '80 si distinguono per due
passaggi chiave: l'indipendenza della Banca di Italia dalle politiche
economiche, nel 1981; il “decreto di San Valentino”, nel 1984, che avvia
la soppressione della scala mobile (completata poi nel 1992). Ma gli
anni '90 sono indubbiamente i più “prolifici”: gli accordi di luglio del
'93, che sanciscono una violenta “moderazione” salariale e statizzano
compiutamente i sindacati confederali; la riforma in senso contributivo
delle pensioni, del 1996; la massiccia legalizzazione dell'occupazione
precaria, il cosiddetto “pacchetto Treu”, nel 1997. Quindi, dopo lo
sfondamento portato avanti dai «tecnici» (Amato, Ciampi, Dini) e dal
centro-sinistra di Prodi e D'Alema, il fuoco di fila berlusconiano: la
Legge Biagi, con l'inasprimento dei processi di precarizzazione del
mercato del lavoro; la Legge 133/2008 e le prime tappe dell'assassinio
della formazione pubblica, sia scolastica che universitaria.
Una ricostruzione stenografica la
nostra, indubbiamente, ma utile per indicare le mutazioni sostanziali
del Bel Paese: compressione salariale, cancellazione dei diritti del
lavoro e impoverimento; continuo e inarrestabile de-finanziamento del welfare;
neutralizzazione del conflitto e della contrattazione sociale. Quando
ancora oggi, nonostante tutto, ci si riferisce alla prima parte della
Costituzione, più nel dettaglio all'articolo 1, si omette di ricordare
cosa è diventato il lavoro. In un Paese dove 1 giovane su 2 è
disoccupato, dove si lavora gratis (vedi Expo) o per 500 euro al mese
(vedi i voucher), dove gran parte dei servizi pubblici essenziali sono
garantiti dal prevalere, a mezzo del Terzo settore, della
sotto-occupazione, difendere semplicemente la Repubblica del lavoro significa essere complici della catastrofe neoliberale.
Ma è con Monti e Renzi – entrambi
sostenuti da Napolitano e Draghi, oltre che da Berlino – che gli
“scalpi” hanno concluso l'opera.
Partiamo da Monti, primavera del 2012. E ciò significa partire dal Patto Europlus,
accordo adottato dai capi di governo dell’Eurozona nel marzo del 2011 e
attraverso il quale gli Stati assumono l'obbligo di recepire nelle
Costituzioni o nella legislazione nazionale le regole del Patto di stabilità e crescita, così come via via si vanno definendo con il cosiddetto six pack:
l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del
pareggio di bilancio; l’obbligo, per i paesi il cui debito supera il 60%
del PIL, di adottare misure per ridurlo rapidamente, nella misura di
almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60%; automatismo
delle sanzioni per i paesi che violano le regole del Patto. Si passa poi
per la «gabbia d'acciaio» del Fiscal Compact (marzo 2012) che
impegna i paesi ad applicare e introdurre, preferibilmente attraverso
interventi di tipo costituzionale, il pareggio di bilancio e durissime
procedure di «aggiustamento» in caso di «deviazioni» o ritardi nel
raggiungimento dell'obiettivo.
Torniamo a Monti. Il Disegno di Legge
costituzionale che traduce in Italia i diktat di Bruxelles viene
definitivamente approvato, nel completo silenzio stampa (e politico), il
18 aprile 2012 ed entra in vigore il 1° gennaio 2014. Rinnovando gli
articoli 81, 97, 117 e 119, la Legge costituzionale impone il «pareggio
di bilancio» e lo combina con un vincolo di «sostenibilità del debito»
di tutte le pubbliche amministrazioni e gli enti territoriali (vedi le
modifiche sostanziali all'articolo 119). Piena trasformazione in senso ordoliberale,
dunque, della costituzione formale del Bel Paese. Con essa
l'archiviazione definitiva, a mezzo di norma fondamentale, delle
politiche espansive e anti-cicliche nel segno del deficit spending.
Prima di insistere sui colpi da Renzi
inferti alla Costituzione, vale la pena ricordare, seppur molto
rapidamente, le politiche del lavoro e fiscali con le quali il “ganzo”
fiorentino sta proseguendo la radicale modificazione della costituzione
materiale del Paese.
Con il Jobs Act, Legge dal 7
marzo del 2015, lo scalpo dell'articolo 18. Ma si tratta solo di una
piccola parte del disastro. Con il 18 viene eliminato quasi del tutto lo
Statuto dei lavoratori, attraverso la liberalizzazione dei
trasferimenti coatti, del de-mansionamento, del controllo a distanza.
Liberalizzato oltre misura, poi, il lavoro accessorio (voucher); che
perde ogni requisito di occasionalità e qualifica l'espansione a
dismisura dei working poor. Intanto un anno prima, primavera
del 2014, la Legge Poletti aveva liberalizzato i contratti a termine
senza causale, togliendo la possibilità ai precari di impugnarli e
difendersi dall'abuso in sede giudiziaria. Infine, è con la Legge di
stabilità in discussione/approvazione mentre scriviamo che Renzi manda
in fumo l'articolo 53 della Costituzione: si abbassa del 3% l'IRES (ben 5
miliardi l'anno), l'imposta sul reddito delle società, dopo che già
sono state eliminate le tasse sui patrimoni immobiliari. La formula è
chiara: paga meno chi ha di più; e viceversa.
2. Il golpe
Da più parti si riconosce che il
nocciolo duro del progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi
consiste nell’accentramento dei poteri a favore dell’esecutivo. Se
proviamo però a collocare tale progetto nel contesto che abbiamo appena
descritto, non possiamo non cogliere come istanze di accentramento e di “esecutivizzazione” del potere siano già in atto nel nostro Paese da lungo tempo.
Da questo punto di vista, il progetto Renzi-Boschi si pone in netta continuità con la fase del presidenzialismo di fatto
di Napolitano, e dei cosiddetti «governi del Presidente», dandogli ora
compiuta forma costituzionale. L’introduzione di un premierato forte,
nel combinato disposto con la legge elettorale, produce uno spostamento
del baricentro istituzionale, e della determinazione dell’indirizzo
politico, a favore dell’esecutivo. Ne deriva così, in termini di checks and balances,
un grave squilibrio tra i poteri di indirizzo e di controllo previsti
dalla Carta del '48. Si aggiunga – fatto non irrilevante per chi è
attento alla tensione tra il piano della legittimità e quello della
legalità – che questo disegno di riforma è stato approvato da una
maggioranza parlamentare priva di legittimazione sostanziale, perché
eletta con un sistema elettorale – il Porcellum – poi dichiarato illegittimo dalla Consulta. Per chi come noi ha preso parte al movimento studentesco dell’Onda, tra il 2008 e il 2010, la sentenza n.1 del 2014 non ha costituito fattore di scandalo o di stupore: quel movimento aveva ampiamente anticipato, in piazza, la dichiarazione d’illegittimità della Consulta.
Ma proviamo a fare un passo indietro, in
tema di accentramento del potere. Abbiamo assistito, in questi anni,
all’uso di strumenti che hanno forzato la regolare prassi parlamentare, i
rapporti tra parlamento e governo, e più in generale l’equilibrio tra i
poteri. Per fare solo degli esempi: l’uso smisurato della decretazione
d’urgenza e della questione di fiducia da parte del governo (com’è
accaduto rispetto alla stessa legge elettorale Italicum di cui
oggi si discute), le continue forzature della prassi e dei regolamenti
parlamentari nella dialettica tra maggioranza e opposizioni, il ruolo
crescente delle autorità amministrative indipendenti, il ruolo
sostitutivo della magistratura nei confronti della politica. Tutto ciò è
avvenuto – è bene ribadirlo – a costituzione invariata.
Per ricercare le radici profonde di
questo disegno, bisogna varcare gli angusti confini nazionali, e
osservare come sia stata la stessa governance europea ad aver
subito, in particolare dal 2011, una torsione autoritaria che ha
impresso una modifica profonda alle costituzioni dei singoli ordinamenti
nazionali (i «governi del Presidente» in Italia, letti in questa luce,
sono governi commissariali).
Il Fiscal Compact e il MES, che
alcuni giuristi hanno definito come un «diritto europeo
dell’emergenza», vista la dubbia conformità agli stessi trattati
istitutivi della UE, hanno sicuramente contribuito a far saltare gli
assetti di checks and balances, nonché il quadro dei diritti sociali, sanciti dalle Costituzioni dei singoli Stati membri. Così, si sono prodotti ibridi di governance
e governo, che alcuni studiosi hanno provato ad afferrare ricorrendo
alle figure analitiche della dottrina dello Stato e della scienza
politica: «dittatura commissaria», «federalismo esecutivo», «authoritarian managerialism».
Ma al di là di queste definizioni analitiche, a essere stato
costituzionalizzato, sul piano europeo, è il regime puro di concorrenza e
l’impossibilità per i singoli Stati, come dicevamo, di effettuare
politiche di deficit spending. Sono state invece
«decostituzionalizzate» le principali sfere deputate alla riproduzione
sociale, alla «produzione dell’uomo per mezzo dell’uomo».
È nel quadro di questa offensiva
neoliberale che va letta, nel caso italiano, la modifica degli articoli
81, 97, 117 e 119 e l’introduzione della regola del pareggio di bilancio
in Costituzione, vera Grundnorm neoliberale, ed esempio
lampante di “rapidità” del procedimento legislativo (per di più, di un
procedimento aggravato) e di unanimità (hanno votato a suo favore tutti i
partiti allora rappresentati in parlamento).
Ma c’è un altro elemento, rispetto a
questo disegno di accentramento, che deve essere evidenziato: la
riorganizzazione del rapporto e delle competenze tra “centro” e
“periferia”. A noi pare che tale “riorganizzazione” costituisca uno
degli elementi cruciali della riforma Renzi-Boschi, nei termini di un
pesante attacco a quella proliferazione di istanze di autogoverno così
presenti nel nostro paese. La «clausola di supremazia» e il potere
d’intervento diretto del governo sulle autonomie, per ragioni di
«interesse nazionale», puntano infatti ad azzerare i margini di
decentramento costituzionalmente sanciti. In molti hanno descritto
questa parte della riforma del Titolo V della Costituzione come un
disegno di “neo-centralismo statale”. E’ forse più appropriato, nel
quadro della governance neoliberale che abbiamo descritto, ricondurre questo disegno a un federalismo esecutivo.
Nella storia degli ordinamenti federali la clausola di supremazia è
stata l’esito di una lotta per la sovranità, il tentativo cioè di
chiudere il dualismo costitutivo degli Stati federali a favore del
governo centrale (talvolta, dopo fasi di guerra civile). Nell’odierna
configurazione dei poteri a livello europeo, la riscrittura del Titolo V
si presenta non certo come dispositivo di garanzia di un astratto
quanto ingannevole interesse nazionale a discapito delle autonomie
locali, ma come un ulteriore grimaldello per favorire la penetrazione
delle dinamiche estrattive e predatorie del capitalismo finanziario
all’interno delle città e dei territori.
3. Nuova immaginazione istituzionale
Nel descrivere le trasformazioni
costituzionali che hanno agito su scala europea e nazionale, bisogna
sempre partire dal fatto che esse non sono solo l’esito di
trasformazioni “dall’alto”. Come abbiamo sottolineato all’inizio di
questo contributo, il superamento del tradizionale quadro della
mediazione politica e costituzionale, e dei suoi dispositivi di
rappresentanza, è stato fortemente voluto “dal basso”, dall’avvento di
nuove soggettività, irriducibili al compromesso capitale-lavoro, e
dall’emersione di un nuovo modo di produzione fondato sul comune.
Dal nostro punto di vista, ogni problematica costituzionale, come ogni problematica lato sensu
giuridica, impone al pensiero e alla prassi un capovolgimento: dalla
critica del cielo occorre ridiscendere alla critica della terra.
L’indicazione, com’è noto, ci viene data dal giovane Marx della Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico
del 1843-44. Se «la costituzione politica è la costituzione della
proprietà privata», se cioè il contenuto materiale della forma di
governo (e di Stato) va sempre ricercato nella trasformazione dei modi
di produzione, e nella fissazione su di essi di determinati rapporti di
comando e sfruttamento, allora la stessa questione della revisione
costituzionale cambia di segno. Una prospettiva materialista ci impone
perciò di guardare sempre alle trasformazioni della Verfassung (costituzione materiale) nel suo intreccio con la Konstitution
(costituzione formale). La nostra battaglia per il 'No' va perciò
condotta con la consapevolezza non solo di ciò che questo disegno vuole
“cambiare”, ma di cosa è già cambiato, sul piano dei rapporti
materiali, rispetto al compromesso costituzionale del '48 (usiamo qui la
parola compromesso in un senso analitico, essendo la Costituzione del
'48 un compromesso tra forze politiche, sociali e produttive nel segno
della «costituzionalizzazione del lavoro»).
Da qui occorre partire, per definire la
sfida costituente che la campagna per il 'No' porta con sé. Ogni
battaglia difensiva per la Costituzione è destinata a perdere perché non
coglie la sfida che sul piano europeo è necessario porre: la sfida
della riapertura della sperimentazione democratica e dell’immaginazione
istituzionale. Una lotta difensiva è una lotta perdente non solo
perché incapace di stimolare nuove sperimentazioni democratiche, ma
anche perché rischia di rimanere confinata, dunque isolata, all’interno
dei perimetri di una costituzione nazionale. Se l’Europa, con i
suoi muri, le guerre ai suoi margini, e le sue continue lacerazioni,
attraversa già una pesante scomposizione, un 'No' costituente deve porsi
la sfida di attivare processi ricompositivi della lotta di classe sul
piano europeo. Deve cioè porsi il problema della creazione di un nuovo
spazio politico e di nuovi territori esistenziali, oltre la falsa
dicotomia tra lo spazio “liscio” del capitale finanziario e lo spazio
“striato” delle sovranità nazionali.
Del resto, se guardiamo al “ciclo Occupy” del 2011 o alle più recenti lotte francesi contro la Loi travail,
il problema che si è posto è stato anche quello del superamento dei
regimi costituzionali esistenti, a favore dell’invenzione di nuovi
istituti democratici e del welfare. Se nel caso spagnolo
l’irruzione del 15M ha rotto la continuità politica del bipartitismo, in
Francia, nei grandi scioperi e nelle occupazioni delle piazze, è stato
posto all’ordine del giorno il tema del blocco democratico costituito
dal regime presidenziale della V Repubblica, per di più complicato dal
prolungato État d’urgence. Al di là dei pesanti limiti che
queste lotte hanno incontrato – limiti per lo più riconducibili alla
loro base spaziale, i singoli Stati nazionali –, ciò che ci interessa è
la tensione costituente che le ha accompagnate.
Noi crediamo che la campagna
referendaria debba sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda. La sfida
che abbiamo di fronte è quella di ripensare il potere costituente al
plurale e in termini pienamente federativi. Di ripensarlo cioè come potentia.
Ciò di cui oggi le singole lotte necessitano è il consolidamento di
istituzioni e di contro-poteri che consentano l’estensione delle istanze
di libertà, di autonomia e di cambiamento. Anche se in forma del
tutto parziale e frammentata, le esperienze di municipalismo e di
sindacalismo sociale su base metropolitana, ci stanno consegnando una
nuova cassetta degli attrezzi e un inedito modo di fare politica.
Che il 4 dicembre sia un tassello importante, non per riesumare vecchie
sovranità, ma per rilanciare in forza una democrazia – per dirla ancora
con Marx – propriamente «espansiva».
28 ottobre 2016
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