di Michele Giorgio - il Manifesto
Sicurezza e lotta al
terrorismo. È questo che Donald Trump ha ripetuto ad Abu Mazen giunto
ieri alla Casa Bianca fiducioso di poter instaurare un rapporto
fruttuoso con la nuova Amministrazione dopo aver temuto di essere messo
ai margini. Trump peraltro, parlando ai giornalisti, è riuscito ad incrinare ulteriormente la già fragile posizione del presidente dell’Anp tra la sua gente,
proclamandosi sorpreso positivamente da come israeliani e palestinesi
lavorino bene nella sicurezza, in riferimento al coordinamento tra
l’intelligence israeliana e quella palestinese tanto contestato dalla
popolazione nella Cisgiordania occupata.
Abu Mazen ha ascoltato imbarazzato, poi ha ribadito che la
scelta strategica palestinese è arrivare a una pace basata sulla
soluzione dei due Stati con i confini del ’67. E ha sollecitato
l’intervento americano per realizzare le aspirazioni palestinesi. Trump
però ha confermato la linea che aveva espresso a febbraio durante
l’incontro con il premier israeliano Netanyahu. Si è detto convinto che
si arriverà ad un accordo tra Israele e palestinesi ma ha precisato che
«nessuno può imporlo» alle parti, sottolineando che il ruolo degli Usa
sarà solo quello di facilitarlo e di mediare.
Contro ogni ragionevole previsione, Abu Mazen e diversi
funzionari del suo entourage nei giorni precedenti all’incontro alla
Casa Bianca avevano manifestato un cauto ottimismo sui risultati del
primo faccia a faccia con il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Facendo troppo affidamento sulla imprevedibilità di Trump, il
presidente dell’Anp e i suoi consiglieri si sono convinti che
l’Amministrazione Usa, nonostante la sua stretta alleanza con Israele,
sorprenderà tutti con decisioni favorevoli ai palestinesi. Eppure Trump,
nei quattro mesi alla Casa Bianca, non ha messo in mostra una
particolare imprevedibilità in politica estera. Al contrario ha
segnalato che la sua presidenza sarà convenzionale e in linea con
l’atteggiamento avuto in Medio Oriente dagli ultimi presidente
americani, peraltro con un appoggio ancora più marcato a Israele.
Abu Mazen ieri voleva spiegare ciò che l’Anp ritiene si debba fare per arrivare alla soluzione dei Due Stati
– fermare la colonizzazione israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme
Est e fissare in tempi certi la fine all’occupazione militare – e invece è stato costretto sulla difensiva, incalzato da Trump sulla lotta «al terrorismo» e «all’incitamento all’odio».
E durante i colloqui il presidente Usa ha insistito per il blocco dei
pagamenti da parte dell’Anp alle famiglie di palestinesi uccisi durante
il conflitto con Israele o imprigionati (315 mln dlr a 36 mila famiglie,
secondo alcune stime) che, secondo Netanyahu, rappresenterebbero un
«sostegno al terrorismo» e un «riconoscimento per atti di violenza». È
un altro macigno per Abu Mazen, perché la questione tocca le corde più
sensibili della società palestinese, peraltro impegnata ad appoggiare lo
sciopero della fame iniziato 18 giorni fa nelle prigioni d’Israele da
1200 detenuti su iniziativa di Marwan Barghouti, leader incarcerato di
Fatah, il partito guidato del presidente dell’Anp.
Ieri sera circa tremila palestinesi, con bandiere, foto e
striscioni, erano riuniti in Piazza Mandela a Ramallah per manifestare
sostegno alla protesta nelle carceri. Il digiuno va avanti e se gruppi di detenuti hanno messo fine alla protesta, molti altri vi aderiscono ogni giorno che passa. Oggi
cominceranno a farlo altri 50 prigionieri tra cui il leader del Fronte
popolare Ahmad Saadat, il capo del comitato dirigente dei detenuti di
Hamas Abbas Sayyid e di quello del Jihad islamic Zayid Bseisi. Altre
decine, riferisce la stampa palestinese, aderiranno alla protesta il 7
maggio. Tra i manifestanti ieri in strada a Ramallah era forte
la preoccupazione che l’Anp, sotto la pressione di Trump, possa tagliare
i sussidi alle famiglie dei detenuti politici. Una decisione in tal
senso della leadership palestinese innescherebbe sicuramente violenze e
proteste, favorendo il movimento islamico Hamas che già accusa la
presidenza palestinese di “tradimento”.
Non è chiaro inoltre se Abu Mazen sia riuscito in qualche
modo a persuadere Trump a non trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a
Gerusalemme, come il presidente americano aveva detto di voler fare in
campagna elettorale. Trump, secondo le indiscrezioni, potrebbe
annunciare il trasferimento della sede diplomatica – «È ancora sotto
seria considerazione» ha detto due giorni fa il vice presidente Mike
Pence – tra un paio di settimane quando sarà in visita ufficiale in
Israele, durante le celebrazioni organizzate dal governo Netanyahu per i
50 anni dalla guerra dei Sei Giorni e dall’inizio dell’occupazione
della zona araba di Gerusalemme.
A conti fatti Abu Mazen, come si prevedeva, non ha ottenuto da Trump
alcuna assicurazione politica e torna a casa con in tasca solo la
probabile ma non ancora sicura riconferma dell’aiuto economico Usa ai
palestinesi.
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