Senza alcuna pretesa di restituire immediatamente un quadro più efficace, pubblichiamo qui un contributo del gruppo che si autodefinisce Wu Ming, perché ci sembra utile ad aprire una discussione vera e seria.
Non siamo naturalmente d’accordo su ogni singola affermazione – la scienza di Marx, per esempio, ci aiuta a capire il presente ben al di là del solo capitolo 23 de Il Capitale – ma è comunque un buon inizio.
Muoversi nel presente biascicando parole (non “concetti”) prese da Repubblica o il Corriere non consente di capire letteralmente nulla dei processi in corso.
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La foto che correda questo articolo è stata scattata a Chemnitz in questi giorni. Si tratta della città che, fino alla caduta del muro, si chiamava Karl-Marx-Stadt
e non deve quindi stupire la presenza del monumento dedicato all’autore
del Capitale. L’istantanea ci rende qui un Marx sotto un cielo plumbeo,
avvolto da manifestanti di estrema destra che brandiscono cartelli che recitano “fermare l’alluvione di immigrati!”. Spunta anche una bandiera tedesca con il Bundeswappen,
lo stemma federale, che vanta una genealogia che risale a ben prima
dello stato nazione. Quindi effetto urgermanisch, germanico ancestrale,
garantito. Con la polizia, in un disordinato cordone sanitario attorno
ai manifestanti, che favorisce l’impressione di abbraccio tra i
dimostranti e la statua. Eppure lo sguardo monumentale e severo di Marx
verso il basso, verso i manifestanti, suggerisce un confronto tra le due
dimensioni, con l’autore del Capitale che sembra a stento trattenere
uno sguardo che incenerisce chi lo circonda.
E’ il Marx di oggi, riportato
improvvisamente alla luce dai comportamenti dell’estrema destra. Un Marx
che appare nella cronaca tra estetica dell’equivoco e quella della
presenza, in qualche modo, ineliminabile. Qualcosa di simile –tra
l’equivoco e la presenza non azzerabile- avviene anche da noi. Come
testimonia il dibattito sul concetto di “esercito industriale di riserva” ripreso anche da autori formalmente o informalmente vicini alla maggioranza gialloverde (come Bagnai e Fusaro)
che suggerisce un ruolo progressista, di difesa della classi popolari
dal contenimento dell’immigrazione. Contro queste posizioni si è
espresso, tra l’altro, Mauro Vanetti su Wumingfoundation nella miniserie “Lotta di classe, mormorò lo spettro” scritta in due puntate, che linkiamo in fondo.
La ricostruzione di Vanetti è fluviale ma molto utile. Ad esempio su due questioni, sostanziali, che riguardano direttamente Marx e Lenin. Del primo viene riportata la celeberrima risposta riguardante il comportamento da tenersi, da parte degli operai inglesi, sulla questione dell’immigrazione irlandese:
non dividetevi, fate lotta di classe assieme e moltiplicatevi. Del
secondo emergono le considerazioni, a lungo trascurate, di Lenin sulle
richieste, durante il congresso della seconda internazionale a Stoccarda
nel 1907, di far passare posizioni di blocco dell’immigrazione cinese
in Usa. Lenin, che considerava queste posizioni succubi dell’ideologia colonialista, stava maturando le posizioni espresse nel celebre testo sull’imperialismo
di dieci anni dopo: tanto più si diffonde il nazionalismo, tanto più è
forte la tendenza, da parte dei paesi espressione della grande finanza, a
sottomettere i paesi che oggi vengono chiamati emergenti. Una posizione
nazionalista da parte della classe operaia, per Lenin, non farebbe che
legittimare i comportamenti della grande finanza. In poche parole, per
l’architetto della rivoluzione d’ottobre i tentativi politici, a
sinistra, di blocco dei flussi migratori, favoriscono, a destra,
l’imperialismo che poggia sulle esigenze dei flussi di capitale.
Oggi, come nel periodo del congresso
della seconda internazionale a Stoccarda (epoca di Lehman Brothers anche
quella con la grande crisi di borsa del 1907-8, le globalizzazioni si
somigliano..) emergono posizioni che vogliono che un eventuale blocco
dell’immigrazione tuteli la, chiamiamola, classe operaia e la sua
funzione progressista. Posizioni alla Fusaro, per capirsi, che giocano
sul paradosso, maliziosamente rivestito da astuzia della storia, di un governo di destra che fa politiche di sinistra. E in Italia solo un governo di destra può farle, queste politiche di sinistra, se si legge Bagnai.
Lasciamo qui perdere l’approccio antropologico conservativo, l’idea che
una classe subalterna possa perdere la propria carica progressista se
messa a contatto con culture subalterne migranti, che in Italia al
momento non interessa quasi a nessuno. E andiamo un attimo da Marx per
evidenziare alcuni passaggi.
Questo non prima di ricordare uno slittamento di significato. La
metafora dell’esercito industriale di riserva, tratta espressamente
dalla cultura militare, oggi non può non fare i conti con la mutazione
dell’idea di guerra, come di quella di esercito, degli ultimi 150 anni.
All’epoca, grandi eserciti si confrontavano sulla superficie
dell’Europa mentre, nei periodi di pace, grandi fabbriche erano abitate
da masse brulicanti. La interscambiabilità tra operaio e soldato, spesso
era la stessa figura sociale in stagioni differenti, aiutava a pensare
il mondo della guerra e quello della produzione, anch’esso agitato da
conflitti, con simili modi di pensare. Tanto che nel primo libro del Capitale (capitolo 23, La legge generale dell’accumulazione capitalistica)
l’analisi della crescita della popolazione inglese, dagli anni ’40 agli
anni ’60 dell’ottocento, assume il significato sia della comprensione
dello sviluppo dei fattori conflittuali contenuti nella produzione che
dell’emergere dell’esercito industriale di riserva destinato a
contenerli. Oggi, l’esercito e l’esercito industriale di riserva, sono un’altra cosa:
diminuiscono i numeri degli effettivi degli eserciti in Europa, e e le
unità produttive tanto più evolvono tecnologicamente tanto meno
impiegano forza lavoro. Insomma la metafora bellica applicata alla
produzione è qualcosa che oggi implica piccoli numeri di effettivi
impiegati, grande potenza d’impatto e alta tecnologia. Con quest’ultima
che impone i ritmi delle mutazioni sia al modo di fare produzione che a
quello di fare la guerra. E con un’altra mutazione essenziale: ai tempi
di Marx l’esercito era un’ottima metafora per indicare i processi di
centralizzazione e di messa a produttività di qualsiasi fenomeno grazie a
una ristretta gerarchia di comando. Oggi guerra e tecnologia
favoriscono conflitti asimmetrici, decentralizzati e complessi che
mettono in difficoltà l’idea di centro, e di comando, di intere porzioni
di realtà.
Insomma l’idea che l’esercito
industriale di riserva sia una qualcosa meramente legato alla
moltiplicazione delle braccia, che siano bianche o immigrate, è oggi
qualcosa di meno immediato di quanto si possa pensare. Ma lo è anche in
Marx che, nel capitolo 23 prima citato, pone lo sviluppo tecnologico, e
non solo i flussi demografici, come precondizione per la formazione di
un esercito industriale di riserva all’interno delle leggi di
accumulazione del capitale. L’esercito industriale di riserva,
in Marx, viene creato giocoforza dal miglioramento produttività
capitalistica e dalla necessità di abbassare i salari. Ma non è, in
Marx, il solo fattore demografico a determinarlo e, tantomeno, a
organizzarlo. Determinante risulta il complesso delle macchine, all’interno di quello che chiama “le condizioni tecniche del processo di produzione”,
e quello dei trasporti. Oggi diremmo che stiamo parlando di hardware e
logistica e non sbaglieremmo nel vedere in Marx in qualcuno che ha visto
bene la nascita di questi processi nella società moderna, quelli che si
sono evoluti poi nelle forme che conosciamo. Ma a Marx non manca
nemmeno la visione del software ovvero la capacità di sfruttare, da
parte del capitale, “le potenzialità intellettuali del lavoro
umano nello stesso modo in cui la scienza si incorpora [nella
produzione] come forza indipendente”. In poche parole le
braccia, nella creazione dell’esercito industriale di riserva, sono una
condizione ma i veri fattori di creazione di questo esercito stanno in
quella che Marx chiamava maschinerie, il macchinismo, nella nascente
logistica, nella scienza che assumerà ruolo centrale produttivo nel
frammento sulle macchine. E, sempre nel capitolo 23, proprio nelle
sezioni dove si parla di esercito industriale di riserva vengono fissate
le leggi generali dell’accumulazione capitalistica (sezione 5). E, in
queste leggi generali, il rapido declino del salario, tra gli
operai, non è dovuto all’esercito industriale di riserva ma al ciclo
espansione-crisi tipico dell’economia capitalistica e alle crisi
finanziarie. Crisi come nella grande crisi, espressamente
citata in questa sezione del Capitale, della London Bank del 1867, e
della finanza speculativa da essa legata, che mise sul lastrico il
settore dei cantieri navali londinesi (e, con questo la classe operaia
che vi lavorava).
In poche parole, a parte l’utile e divertente articolo di Vanetti, pensare
che la destra, cercando di espellere gli immigrati, stia facendo una
politica di sinistra, salvaguardando le condizioni di riproduzione delle
classi lavoratorici è qualcosa che ha a che vedere con la sfera della
polemica ma non con quella della realtà. Perchè, per assurdo,
mantenendo stabile o contraendo una popolazione non si elimina la
maschinerie, la moderna tecnologia, la logistica, la scienza. Tutti i
fattori che oggi permettono di risparmiare, se non di fare totalmente a
meno, della forza lavoro.
Vediamo infatti in breve un fantascenario: eliminando,
manu militari, tutti gli extracomunitari che raccolgono il pomodoro a
Cerignola non ci sarebbero oggi le condizioni economiche per assumere le
braccia dei bianchi a salario sindacale. Ma quelle per la
completa meccanizzazione, in connessione con la logistica più evoluta,
del processo lavorativo riducendo il lavoro a costo zero.
Anche pensare che l’immigrazione sia legata ad un inevitabile processo di declino del salario è storicamente sbagliato.
Basta vedere l’evoluzione del salario, dagli anni ’50 alla fine degli
anni ‘70, dei paesi ad alta immigrazione ed alto sviluppo in Europa
(Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania). O al fatto che in Cina,
paese dotato di un infinito esercito industriale di riserva come di una
seria politica di sviluppo tecnologico, il salario tende a crescere.
Il problema è che c’è una sinistra che è
talmente spiazzata dai processi in corso che pensa con contorsioni
concettuali talmente accentuate da rendersi poco conto di cosa sta
dicendo. Ma questo spiazzamento, alla fine, tocca anche alla destra. Si
pensi che l’Ungheria di Orbàn, con tassi di crescita negli
ultimi anni sempre superiori al 3% e con le frontiere sigillate,
comincia ad avvertire la mancanza di forza lavoro. Importerà
manodopera, tecnologie o avvierà un ciclo di stagnazione? E si tratta di
fenomeni che il sovranismo lo sgretolano, ci mancherebbe.
Una cosa è certa, il capitale
non sta mai fermo. O va comunque più veloce dei modi contorti che la
politica di oggi usa per pensarlo.
Ecco qui i link:
parte 1
parte 2
Naturalmente interventi costruito secondo opinioni o punti di osservazione differenti, in un dibattito così sentito, sono benvenuti. La foto di Marx a Chemnitz si può vedere in tanti modi.
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