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27/08/2018

Gorilla ammaestrati nella fabbrica della conoscenza integrata

"In America la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo sono indubbiamente connessi: le inchieste degli industriali sulla vita intima degli operai, i servizi di ispezione creati da alcune aziende per controllare la «moralità» degli operai sono necessità del nuovo metodo di lavoro.

Chi irridesse a queste iniziative (anche se andate fallite) e vedesse in esse solo una manifestazione ipocrita di «puritanismo», si negherebbe ogni possibilità di capire l’importanza, il significato e la portata obbiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo. La espressione «coscienza del fine» può sembrare per lo meno spiritosa a chi ricorda la frase del Taylor sul «gorilla ammaestrato». Il Taylor infatti esprime con cinismo brutale il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale. Ma in realtà non si tratta di novità originali: si tratta solo della fase più recente di un lungo processo che si è iniziato col nascere dello stesso industrialismo, fase che è solo più intensa delle precedenti e si manifesta in forme più brutali, ma che essa pure verrà superata con la creazione di un nuovo nesso psico-fisico di un tipo differente da quelli precedenti e indubbiamente di un tipo superiore. Avverrà ineluttabilmente una selezione forzata, una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del lavoro e forse dal mondo tout court"

(A. Gramsci, Quaderni del Carcere,
Q 22,11: Americanismo e fordismo)
Gorilla ammaestrati nella fabbrica della conoscenza integrata, edizioni Efesto

Prologo alla seconda edizione.

Tutto nasce da una riflessione politico-culturale di questi mesi nel collettivo del CESTES (centro studi dell'USB, Unione Sindacale di Base) e in particolare, insieme agli Autori, con Massimo Gabella e Lorenzo Giustolisi che vogliamo sentitamente ringraziare per la vicinanza umana, politica, professionale, per il fondamentale lavoro di ricerca e i preziosi suggerimenti che hanno permesso questa nuova elaborazione del testo.

In questi due decenni, dalla prima edizione, quelle che allora erano in parte tendenze sono diventate realtà conclamate.

Questo Prologo cerca, attraverso un percorso che riprende nostri precedenti studi del CESTES, e di altri studiosi marxisti molto vicini come metodo e impostazione di scuola alle nostre strutture politico-culturali, di mostrare come il “lavoro mentale” sia divenuto nei paesi a capitalismo maturo uno dei terreni, non certo l’unico o necessariamente il principale, di appropriazione di pluslavoro nella dinamica dello sfruttamento capitalista della fabbrica sociale diffusa e totalizzante della nuova catena del valore.

Lo sottolineiamo perché anche al tempo della sua prima pubblicazione, il 2000, il libro ebbe una buona accoglienza, suscitando una discussione che si inseriva all’interno di un dibattito che si stava già allora aprendo con molte ambiguità su nozioni come “capitale umano”, “società della conoscenza”, “capitalismo cognitivo” e sui “lavoratori della conoscenza”. Dibattito orientato prevalentemente su posizioni cosiddette negriane e post-operaiste, o meglio del postoperaismo di moda del dire e non fare, con le quali entravamo in discussione duramente polemica, non essendoci mai appartenute per storia e cultura politica.

Non crediamo si possa offendere o risentire nessuno se rivendichiamo che i fatti ci hanno dato ragione nel tempo: le mode passano ma la scienza resta, e il metodo e modello scientifico marxiano si conferma e consolida con il divenire storico della crisi sistemica capitalista, mentre quel dibattito scontava molti limiti in buona fede ma anche continui tentativi di affossamento del metodo scientifico marxiano – come tutte le mode culturali di un inesistente post-marxismo –. Pur cogliendo con acutezza un elemento di novità assolutamente reale, questo dibattito tendeva ad una acritica esaltazione del nuovo soggetto dello sfruttamento capitalistico, il presunto “cognitariato”, perdendosi totalmente il collegamento con gli altri pezzi della classe ormai spezzettata nella fabbrica sociale generalizzata, diffusa, come cercavamo di spiegare con metodo scientifico e allo stesso tempo divulgativo già in questa pubblicazione di circa venti anni fa e in molte altre precedenti e successive in una battaglia delle idee che spesso si è rivelata appunto fuori moda. Ma il tempo o meglio il divenire dei soggetti di classe nella crisi e le dinamiche del conflitto capitale-lavoro ci hanno dato ragione facendo giustizia del chiacchiericcio profondamente contrario, anzi nemico del materialismo dialettico.

Oggi quel processo di proletarizzazione del lavoro intellettuale si è tutt’altro che arrestato, e costringe a ripensare i luoghi classici dell’elaborazione marxiana, leniniana e gramsciana sul rapporto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, sulla teoria dell’egemonia e sugli intellettuali.

La citazione scelta per aprire questa nuova edizione e inserita prima di questo Prologo è tratta dai Quaderni gramsciani, in particolare da quello su Americanismo e Fordismo in cui Gramsci coglie le caratteristiche di fondo della nuova fase di accumulazione capitalistica, basata sulla fabbrica fordista e la produzione di massa, di cui proprio negli Stati Uniti si stavano compiendo sperimentazioni destinate ad allargarsi a tutto l’Occidente.

In particolare, per quanto ci interessa qui, Gramsci analizza l’americanismo come progetto di costruzione di un nuovo soggetto lavoratore, e in definitiva di un nuovo tipo di uomo, adatto alla produzione di tipo tayloristico, fortemente parcellizzata e meccanizzata; gli sforzi della classe dominante sono allora diretti a controllare e limitare gli eccessi compiuti dal lavoratore fuori dall’orario di lavoro, affinché il suo rendimento in fabbrica sia massimo.

Si tratta quindi della formazione di un uomo e di un lavoratore, di un soggetto di classe, corrispondente a una certa fase storica del modo di produzione capitalistico. Con il corretto adattamento di contesto storico, sociale, politico, economico e produttivo, vi è un forte parallelismo con ciò che è in corso da circa 30 anni a questa parte nei cosiddetti paesi a capitalismo maturo, con processi e modelli di accumulazione capitalistica che si fondano maggiormente che in precedenza sull’utilizzo della conoscenza e sulla flessibilità e precarietà della forza-lavoro, e sulla messa diretta a produzione di conoscenza e comunicazione. Insomma, si attuano e sperimentano nuove modalità per “ammaestrare il gorilla” – per usare la terminologia di Gramsci, mutuata proprio da Taylor – ovvero per costruire un lavoratore produttivamente e ideologicamente subalterno agli interessi della ristrutturazione capitalistica nel tentativo di risolvere la crisi globale in una nuova e più feroce dimensione del conflitto di classe, nel dispiegarsi delle modalità della guerra capitalista, militare, economica, sociale, psicologica, massmediatica.

Le pagine che seguono provano a costruire un percorso che colleghi quella pubblicazione del 2000 al nostro oggi.

Per ricostruire compiutamente quello che potremmo definire un filone della teoria marxiana, si deve necessariamente fare un passo indietro.

Siamo in una nuova rivoluzione industriale, dove si generalizza l’applicazione dei progressi scientifici tecnologici, si cambia il modello di accumulazione capitalista, si massifica la sfera dei servizi e delle tecnologie dell’informazione e le comunicazioni raggiungono livelli mai conosciuti nella vita economica e sociale delle grandi nazioni capitaliste.

La fase di sviluppo capitalistico che così si apre si caratterizza per l’uso intensivo della scienza e della tecnologia nella produzione, a un livello qualitativamente e quantitativamente nuovo rispetto al passato, e per un’implementazione della conoscenza come fattore produttivo fondamentale, come elemento di vantaggio competitivo su cui si basa la posizione di dominio globale di multinazionali e poli imperialisti.

Oggi la nuova fase della mondializzazione capitalistica, caratterizzata dall’emergere di diversi soggetti imperialisti su scala globale, è caratterizzata dall’emergere di un nuovo livello che non tempera, ma anzi esacerba le contraddizioni dello sviluppo capitalistico; un livello che richiede e stimola uno sviluppo delle forze produttive, e della scienza e della tecnica applicata alla produzione, ancora maggiore che in passato. Al tempo stesso, i diversi capitalismi in lotta contraddicono sé stessi, non generalizzando questo maggiore sviluppo; la differenziazione nei gradi di accumulazione capitalista si eleva così a condizione necessaria e al tempo stesso dirompente contraddizione nello sviluppo capitalistico e nelle nuove dinamiche imperialistiche.

Questa sintetica scansione storica non deve però far pensare che l’uso della conoscenza sia un novum della fase attuale.

Va sottolineato che la conoscenza si è sempre applicata al sistema produttivo e di per sé essa non rappresenta una “novità epocale” della fase attuale. Tuttavia, la differenza è segnata dalla sua applicazione istantanea ora permessa dalla tecnologia, dalla sua portata globale, e dal fatto che le nuove conoscenze ora rappresentano il fattore determinante del vantaggio competitivo.

Questo provoca ovviamente una ridefinizione non solo dei sistemi produttivi ma anche di quelli formativi nei paesi che per la loro posizione nella competizione globale sono in grado di poter effettivamente puntare sulla conoscenza.

Ne risulta un'economia o società della conoscenza che, in ogni caso, non deve far dimenticare la permanenza e anzi la necessità strutturale di tutta una serie di lavori a basso o bassissimo valore aggiunto e più o meno alto tasso di sfruttamento che convivono a fianco delle nuove professioni molto qualificate, in un quadro di generale precarizzazione dei rapporti lavorativi e della vita stessa.

Questa compresenza è un dato caratterizzante della fase attuale, come ci siamo sforzati di mostrare in maniera più sistematica nel Trattato di economia applicata, in particolare in quelle parti volte alla verifica della vigenza delle leggi di funzionamento del Modo di produzione capitalistico (MPC) nell’economia applicata. Collegando paradigma postfordista e nuova rivoluzione industriale, è inevitabile imbattersi in quella che in quelle stesse pagine abbiamo chiamato “configurazione socio-produttiva dell’economia della conoscenza”.

L’idea, che alcuni hanno ventilato, di una società interamente terziarizzata, in cui la produzione vede venir meno la propria centralità, è un’assurdità, come appare chiaro se si considerano le centinaia di milioni di persone a oggi impiegate nell’industria o nell’agricoltura a livello globale. In tutta Europa, come negli Stati Uniti, il settore secondario è ancora oggi il core business della produzione capitalista.

Uno studioso marxista attento e di grandi capacità analitiche e coerenza di metodo come Mino Carchedi notava già nel 2004 in un saggio pubblicato sulla rivista Proteo che:
“Contrariamente a quanto proposto dai sostenitori di nozioni quali ‘La Nuova Economia’, o ‘La Società dell’Informazione’ o la ‘Società dei Servizi’, che presumibilmente sarebbero basate sul potere e sulla creatività del lavoro mentale, la stragrande maggioranza dei lavoratori mentali non sono produttori indipendenti, liberi di creare teorie, scienze, tecniche ecc. Piuttosto, essi sono soggetti al dominio del capitale. Più precisamente, sono i capitalisti che decidono quale creazioni mentali devono essere prodotte dai lavoratori mentali e i lavoratori mentali non solo devono produrre quanto loro richiesto ma sono anche assoggettati al controllo e alla sorveglianza dei capitalisti (o chi per loro) e quindi alle nuove e vecchie forme di dominazione menzionate più sopra. Per esempio, il lavoro mentale, come quello materiale, è assoggettato a continue ondate di innovazioni tecnologiche e ristrutturazioni che, tendenzialmente, dequalificano le mansioni dei lavoratori mentali. Ciò è molto distante dalla ‘realizzazione di se stessi attraverso il lavoro’, che sarebbe una prerogativa del lavoro mentale. La cosiddetta ‘Società dell’Informazione’, o meglio detto questa nuova fase del capitalismo, è ben lontana dall’aver reso obsolete le relazioni di produzione capitalistiche”.
Di fronte a tutto questo torna prepotentemente a imporsi la questione del ruolo degli intellettuali organici alla classe, che è quello di evidenziare le condizioni di ampia diffusione della conoscenza e della sua mercificazione, sviscerare le basi metodologiche e concettuali per le quali transita la creazione del valore.

Parlare di “società della conoscenza”, dunque, può essere accettabile solo nella misura in cui non si metta in secondo piano la permanenza dei rapporti capitalistici di produzione su cui si impianta la nuova centralità della conoscenza.

Come ha scritto un serio e attento intellettuale cubano, Jorge Nunez Jover,
“caratterizzando la società contemporanea come ‘società della conoscenza’ sembrano suggerirci che si tratta di una qualità planetaria, qualcosa che ci riguarda tutti, quasi per diritto di civiltà. È ovvio che la conoscenza non si spande per il mondo a macchia d’olio. Al contrario la conoscenza, collocata al centro della concorrenza economica e delle relazioni di potere, sperimenta una chiara tendenza alla sua appropriazione privata ed alla concentrazione in imprese, regioni e paesi. Soprattutto nel contesto del dominio neoliberale, la conoscenza è stata sommersa in un tessuto legale, istituzionale, economico, militare, che cancella la condizione di bene pubblico che le venne attribuita tradizionalmente... Perciò appare concettualmente più corretto parlare dell’esistenza di una società capitalista della conoscenza”.
Esistono, in ogni caso, alcuni elementi che possono definire sinteticamente le caratteristiche di una economia basata sulla conoscenza. Nel Trattato li schematizzavamo così:

- nascita di nuovi settori produttivi che coinvolgono produzione, distribuzione e utilizzo della conoscenza;

- la conoscenza stessa si trasforma in un fattore produttivo e in un prodotto, divenendo così elemento decisivo per l’occupazione, la creazione di valore e la crescita economica a lungo termine;

- l’investimento in conoscenza ha rendimenti crescenti e può controbilanciare il rendimento decrescente di altri fattori;

- necessità dell’apprendistato, della formazione continua e dell’innovazione;

- la conoscenza si trasforma nell’elemento centrale del miglioramento della produttività del lavoro e della competitività.

In una economia basata sulle risorse del capitale intangibile, la produttività totale non proviene essenzialmente dai fattori tradizionali, ma dalla conoscenza, mentre cresce l’importanza della produzione non materiale, intangibile.

È la stessa concorrenza spietata tra i capitali a rendere necessaria la ricerca di nuove tecniche di produzione, di meccanismi di ottimizzazione dell’organizzazione del processo lavorativo e in generale di innovazione tecnologica, in modo da aumentare la produttività del lavoro e abbassare i costi di produzione per potenziare le proprie abilità concorrenziali.

La novità della cosiddetta “società della conoscenza” consiste nel fatto che essa accelera la velocità della sua diffusione e la sua portata globale anche attraverso cultura, scuola, formazione, realizzando una espansione globale che comporta anche, in una nuova centralità della comunicazione a tutti i livelli della società, un ambito di dominio sociale complessivo e non limitato alla sola sfera della produzione. È qui che si pone, come si vedrà nel libro, la questione della comunicazione come risorsa strategica nella produzione ma allo stesso tempo proiettata nella totalità del corpo sociale, per l’imposizione di un modello di conformismo funzionale alle esigenze della cultura di impresa, e quindi “deviante”.

I paesi sviluppati, che rappresentano il 20% dell’umanità, sono responsabili di più del 90% della creazione dell’attuale conoscenza scientifica mondiale, mentre il restante 80% degli abitanti del pianeta dispone di una capacità di generazione di conoscenza inferiore al 10%.

È quanto osserviamo anche nella costruzione del polo imperialista europeo, che tende alla concentrazione della ricerca alta in alcune aree, in modo specifico la Germania e i paesi suoi satelliti, tendendo al sostanziale ridimensionamento da questo punto di vista di aree che diventano periferiche, si specializzano in prodotti o fasi del ciclo produttivo a basso valore aggiunto e diventano serbatoi di manodopera a basso costo; è quanto sta avvenendo ad esempio con tutta l’Europa meridionale, i cosiddetti paesi PIIGS.

Ci sembra utile ricordare qui che proprio con Comunicazione deviante iniziava una collaborazione intellettuale per noi di grande importanza, quella con Alessandro Mazzone, amico, compagno e maestro nostro e di tutta la nostra area politica per un decennio pieno, in cui l’elaborazione politica e teorica ha certamente fatto un salto di qualità. Insistiamo tanto su questo punto perché crediamo che il riconoscimento dei maestri sia un passaggio politico fondamentale per ogni generazione che si affaccia sulla scena della produzione teorica e dell’attività politica stessa. Scegliere in alto i propri maestri significa alzare il livello della asticella, forzare il limite, cercare di porsi obiettivi elevati, in poche parole avere un progetto e non vivere alla giornata.

Scrive Alessandro Mazzone nella Prefazione alla prima edizione di questo libro, che abbiamo scelto di ripresentare anche in questa seconda edizione:
“Ma allora, la “fabbrica sociale generalizzata”, come “impresa”, da un lato si estende: perché la tendenza è appunto quella di inglobare la produzione immediata di uomini. Produzione di uomini: non solo come consumatori (c’è anche questo: dall’allevamento e cura dei piccoli mediante merci e servizi vendibili, alla aziendalizzazione della scuola, etc.): ma anche come produttori. Infatti, il fine sia della scuola “aziendalizzata”, in realtà semplice addestramento al lavoro flessibile”, sia della “comunicazione esterna” e “sociale” deviante, è precisamente questo – “produrre” vendendo e condizionare comunicando, quel tipo di forza-lavoro che via via meglio “serve” alla ”accumulazione flessibile”. Per questo lato, dunque, la “impresa” sembra allargarsi nel “territorio” scilicet fisico e umano.

Dall’altro lato, l’impresa (singola) si restringe: perché questa forza-lavoro, così “prodotta” vendendo e condizionata “comunicando”, non è più una grandezza data in un intervallo di tempo più o meno grande  ma può essere ridotta secondo le esigenze della produzione flessibile, e lo sarà sempre di nuovo e meglio progredendo la flessibilizzazione e territorializzazione della ‘fabbrica sociale generalizzata’”.
Tutto ciò semplicemente evidenzia l’esplicitarsi dello stesso modo di produzione capitalistico nella sua attuale fase di sviluppo, considerata a livello globale, nella sua totalità, e così si pongono questioni centrali che le soggettività politiche impegnate nella ricostruzione di una prospettiva di ricomposizione di classe non possono in alcun modo eludere. Sono questioni che chiamano in causa nodi centrali della teoria marxista e che allo stesso tempo presentano decisive implicazioni politiche.

Molti sedicenti marxisti, o post-marxisti, nella foga di cercare “il” soggetto rivoluzionario, hanno assegnato questa posizione al “lavoratore cognitivo” del capitalismo maturo, in grado di costruire una conoscenza collettiva per definizione autonoma dal capitale.

Speculare è la posizione di chi considera obsoleta la divisione della società in classi perché l’operaio-massa non rappresenta più, almeno nei paesi imperialisti, la figura sociale di riferimento per quanto riguarda il proletariato. “In realtà – scrive Roberto Fineschi – Marx parla di ‘lavoratore complessivo’, che è appunto cooperazione, parcellizzazione ed automazione progressiva del lavoro necessario, sussunzione sotto uno scopo transindividuale; è questo il nuovo ‘contenuto materiale’ che si instaura grazie al modo di produzione capitalistico e come tale non è legato alla ‘fabbrica’ più di quanto non lo sia qualunque altro tipo di attività che rispetti le determinazioni formali indicate. Che invece di lavorare al tornio ci si trovi davanti ad un monitor con una cuffia alla bocca non fa differenza da questo punto di vista”.

È chiaro che il lavoro “mentale”, o intellettuale, quello ad alto contenuto di conoscenza, rappresenta oggi un elemento strategico per il processo di valorizzazione capitalistico, in misura nuova nel divenire storico di questo modo di produzione; è altrettanto chiaro che oggi il rapporto tra lavoro mentale e lavoro manuale si presenta in forme diverse dai secoli o dai decenni passati e va analizzato con attenzione, anche per non cadere in errori e semplificazioni che potrebbero rivelarsi disastrosi per concepire strategie politiche adeguate alla fase storica.

A questo tema, Mazzone ha dedicato alcuni lavori fondamentali. Mazzone sottolinea il fatto che non esiste un'attività esclusivamente manuale in senso stretto, perché peculiarità fondamentale del lavoro umano è quella di porre uno scopo e di conseguenza dirigersi verso tale scopo. Se un’attività esclusivamente manuale non esiste, ne deriva per Mazzone che “la distinzione di ‘lavoro manuale’ e ‘intellettuale’ è di grado, non di qualità”, e dunque sempre storica.

Non si dà rapporto tra lavoro manuale e intellettuale in astratto, indipendentemente dal modo di produzione in cui si compie la Riproduzione sociale complessiva (RSC), ovvero il processo complessivo con cui una totalità sociale produce e riproduce i mezzi di sussistenza e dunque sé stessa, e all’interno di questa dal rapporto di produzione fondamentale che la contraddistingue.

È dunque all’interno del processo del capitale che le classi fondamentali producono e riproducono sé stesse, contribuendo alla riproduzione dello stesso moto generale del capitale; quello di “classe” è allora prima di tutto un concetto, al di fuori delle figure di movimento specifiche in cui si può incarnare nelle fasi storiche e nei contesti particolari.

Grano, macchine o programmi per computer, non importa: al livello della relazione fondamentale di classe, l’oggetto e i mezzi della produzione, materiali o immateriali, non contano. La relazione di classe prescinde dalla modalità del lavoro. È fondamentale porsi sempre al livello della comprensione della Riproduzione sociale complessiva, che avviene in forma capitalistica nella formazione economico-sociale contraddistinta dal modo di produzione capitalistico.

Abbiamo bisogno, prima di scendere verso il concreto, di un ulteriore passaggio teorico. Analizziamo infatti adesso un’altra questione centrale nell’analisi dei processi attuali di valorizzazione capitalistica, quella relativa alla distinzione elaborata da Marx tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Anche su questo rimandiamo al Trattato, in particolare al paragrafo su “La centralità del dibattito tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo”, perché i confini tra i due non sono scritti una volta per sempre nella tavola delle leggi.

Secondo la definizione di lavoro produttivo che Marx fornisce, il lavoro dell’impiegato pubblico, della polizia, dei soldati, dei sacerdoti non ha nulla a che vedere con il lavoro produttivo. Non perché questo lavoro sia “inutile” o perché non si materializzi in “cose” e in erogazione di servizi, bensì solo perché è organizzato su principi di diritto pubblico e non nella forma di imprese capitaliste private. La distinzione è infatti relativa al conseguimento del profitto e dunque la produttività del lavoro si misura con riferimento alla legge del valore.

Già l’economia classica aveva considerato l’attività economica come attività produttrice di merci. “Che tutto ciò che esiste nella società attuale abbia la sua ragione d’essere e quindi la sua utilità è ovvio, altrimenti non esisterebbe; ma che tutta la società debba materialmente vivere sul flusso dei beni materiali prodotti è pure un’altra affermazione indiscutibile. Perciò ben facevano i classici a studiare il prodotto, a vedere quello che essi chiamavano prodotto netto e studiare come esso si distribuiva nelle categorie sociali non produttive di merci: ben facevano a parlare di valore e a distinguere il lavoro produttivo di valore da quello che non produceva valore”.

Un impiegato delle poste non è un lavoratore produttivo, ma se la posta fosse organizzata nella forma di un’impresa capitalista privata che riscuotesse denaro per la consegna di lettere e pacchetti, i lavoratori salariati di quelle imprese sarebbero lavori produttivi. È chiaro che le attuali liberalizzazioni e privatizzazioni degli ex servizi pubblici nei paesi a capitalismo maturo, al di là della forma apparente disciplinata in molti casi ancora dal diritto pubblico, in termini reali concretizzano forme di lavoro il cui fine è l’estrazione di plusvalore, e pertanto vanno sicuramente identificate come la nuova frontiera di un lavoro comunque produttivo.

Quando Marx definisce il lavoro produttivo, lo astrae totalmente dal suo contenuto, dal carattere e dal risultato concreto ed utile del lavoro. Egli considera il lavoro solo dal punto di vista della sua forma sociale. Il lavoro organizzato in un’impresa capitalista è lavoro produttivo. Questo aspetto è della massima importanza per una corretta impostazione della questione lavoro manuale/lavoro intellettuale: i valori d’uso prodotti, infatti, non devono essere necessariamente “cose” materiali. La critica all’economia politica di Marx non è assimilabile al materialismo volgare. Ciò che conta sono i rapporti di produzione.

Da questa prospettiva non può considerarsi come produttivo solamente il lavoro utile alla soddisfazione di necessità materiali, escludendo ad esempio quelle culturali, etico-morali, spirituali.

La natura delle necessità non ha nessuna importanza. Allo stesso modo, Marx non assegnò un significato decisivo alla differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. In un passaggio del capitolo XIV del Capitale, egli suppone che i lavoratori intellettuali, o cosiddetti cognitivi, siano indispensabili per il processo di produzione e, quindi, che guadagnino retribuzioni derivate dai lavoratori materiali. Secondo Marx, essi creano valore e plusvalore, perché il capitalista si appropria di una eccedenza rispetto al tempo di lavoro necessario alla forza-lavoro per riprodursi.

Il lavoro intellettuale necessario per il processo di produzione materiale non differisce in nessun aspetto dal lavoro fisico. È produttivo se è organizzato su principi capitalisti. In questo caso, è assolutamente la stessa cosa che il lavoro intellettuale sia organizzato insieme al lavoro fisico in un’impresa, ufficio tecnico, laboratorio chimico o ufficio di contabilità, o che sia separato in un’impresa indipendente, un laboratorio chimico indipendente che abbia il compito di migliorare la produzione, ecc.

Il lavoro produttivo include dunque il lavoro che, benché non sia rappresentato in oggetti materiali, è organizzato su principi capitalisti. D’altra parte, il lavoro che produce ricchezza materiale ma non è organizzato nella forma della produzione capitalista non è lavoro produttivo dal punto di vista marxiano. La differenza dunque tra il lavoro che si concretizza in valori d’uso materiali e quello che produce valori d’uso immateriali è secondaria alla definizione di lavoro produttivo come lavoro che produce plusvalore.

Va ancora specificato che il lavoro produttivo, in Marx, si riferisce al lavoro utilizzato nella sfera della produzione, in opposizione a quello utilizzato nella sfera della circolazione. Produzione e circolazione sono trattate separatamente da Marx nel Capitale, benché contemporaneamente egli non perda di vista l’unità del processo complessivo di riproduzione del capitale.

La distinzione non ha nulla a che vedere, come si vede, con quella tra “lavoro che opera cambiamenti nei beni materiali” e lavoro che non possiede questa proprietà. È produttivo il lavoro utilizzato dal capitale produttivo, ovvero dal capitale nella fase della produzione. Il lavoro del venditore invece non è produttivo perché è contrattato dal capitale nella fase di circolazione (non apporta quindi trasformazioni al valore d’uso, né ne preserva l’integrità dal deterioramento).

Il lavoro dell’attore comico al servizio dell’impresario di teatro è produttivo, benché non provochi cambiamenti nei beni materiali e, dal punto di vista delle esigenze dell’economia sociale, sia meno utile che il lavoro del venditore. Il lavoro dell’attore è produttivo perché è usato dal capitale nella fase di produzione. Il risultato della produzione, in questo caso, non consiste in beni materiali, bensì in giochi, in barzellette, ma questo non modifica il problema. Le barzellette dell’attore hanno valore d’uso e valore di scambio. Il suo valore di scambio è maggiore del valore della riproduzione della forza lavoro dell’attore, cioè supera il suo salario e le spese in capitale costante. Quindi, l’impresario ottiene plusvalore. D’altra parte, il lavoro del bigliettaio di un teatro che vende l’ingresso per assistere allo spettacolo dell’attore è improduttivo, perché è contrattato dal capitale nella fase di circolazione, cioè aiuta solo a trasferire il diritto ad osservare lo spettacolo, il diritto di una persona a godere delle barzellette dell’attore (diritto acquistato con uno scambio di tipo mercantile, merce-denaro, contro merce-divertimento).

Riprendiamo per esteso un passaggio dei Quaderni di Gramsci che appare molto significativo per questi aspetti e per il ragionamento più generale che cerchiamo di fare in questo Prologo:
“Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.”
Si può dunque, per Gramsci, parlare di “intellettuali” quando la “direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale” è quella dell’elaborazione intellettuale; ma mai di “non-intellettuali”, perché “non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale”. Lo stesso rapporto tra “elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso” non è sempre uguale, ma presenta gradi diversi e, ciò che più conta, è storico, anch’esso in costante divenire.

Come sottolinea Carchedi:
“Ricordiamo che per Marx il lavoro è produttivo di plus-valore se impiegato dal capitale e se trasforma valori d’uso in nuovi valori d’uso. Dato che un processo lavorativo è diviso in sotto-processi lavorativi (la divisione tecnica del lavoro), lo stesso principio si applica a tutti questi sotto-processi. Se un sotto-processo è parte della trasformazione di valori d’uso, esso è produttivo di plus-valore. Per esempio, il trasporto delle merci è parte di tale trasformazione perché senza di esso il valore d’uso di tali merci non potrebbe essere tale (la merce non potrebbe essere consumata) nel luogo di destinazione. Per questa stessa ragione, il valore d’uso dell’acqua, ecc. non è pronto ad essere consumato, cioè non è stato completato, fino a quando non è stato fornito nel luogo di consumo. La fornitura di acqua, gas, elettricità, ecc. quindi è un esempio di produzione materiale e il lavoro necessario per la fornitura di tali servizi è produttivo di plus-valore, se fatto sotto relazioni di produzione capitalistiche.

Il lavoro per la fornitura dei servizi postali, del telefono, del telegrafo, ecc. è d’altra parte un esempio della trasmissione di conoscenza. Tale conoscenza deve essere trasmessa al fine di realizzare il suo valore d’uso. Questo è l’ultimo passo nella produzione mentale. Il lavoro necessario per trasmettere quella conoscenza (da non confondersi con la conoscenza stessa che deve essere trasmessa) produce plus-valore perché questo è l’ultimo passo nella trasformazione della conoscenza (come valore d’uso) se ciò accade sotto relazioni di produzione capitalistiche.

Il lavoro per la fornitura dei servizi sociali, per esempio la previdenza sociale, la sanità, pensioni di anzianità, ma anche spettacoli, avvenimenti culturali, ecc. questo lavoro è (parte della) produzione materiale per lo stesso motivo addotto da Marx per la manutenzione dei macchinari. La manutenzione previene il deterioramento dei valori d’uso ed è quindi equivalente alla loro produzione. La differenza è che in questo caso la merce il cui valore d’uso è preservato è la forza lavoro nel suo insieme. Di nuovo, la fornitura di tali servizi è produttrice di plus-valore se avviene sotto relazioni di produzione capitalistica”.
Il lavoratore salariato, dunque non deve essere necessariamente l’operaio classico della catena di montaggio – benché questi siano ancora largamente utilizzati, in quantità tutt’altro che trascurabili, anche nella fase attuale di sviluppo capitalistico–; la questione è la misura in cui il salariato deve vendere la propria forza-lavoro al capitalista, o in termini ancora più generici essere impiegato nel processo di valorizzazione. Il grado di “manualità” del lavoro compiuto non è il fattore decisivo ai fini di una individuazione dei soggetti sociali che compongono il proletariato in una fase data; ciò che conta sono i rapporti sociali antagonistici rispetto alla produzione.

Dobbiamo anche considerare che la ristrutturazione della catena del valore attualmente in corso segnala una chiara tendenza all’estrazione di plusvalore anche dalla sfera della circolazione, che in misura sempre maggiore diventa un settore decisivo nel processo di valorizzazione. Su questo con il Cestes abbiamo elaborato una prima parte di inchiesta sulla attuale composizione del lavoro operaio, dove per lavoro operaio non pensiamo certo alla riduttiva, rassicurante ed identitaria immagine delle tute blu.

La grande fabbrica. Dalla catena di montaggio alla catena del valore non è un’evidenza sociologica, anche se è verificabile sociologicamente, ma la traduzione di una serie di ragionamenti e di modelli che riescono a cogliere le dinamiche profonde e non solo quelle di superficie. Va sottolineato che le modalità concrete di estrazione del plusvalore sono costantemente ridefinite dal capitale, che ha nella sua essenza la necessità di rinnovarsi continuamente. Stare dietro a queste modifiche è un compito complesso che richiede una grande capacità di astrazione agli intellettuali e alle soggettività politiche che si propongono di contrastarlo, ed una capacità di gestire i livelli diversi ma correlati dall’astratto al concreto.

Nell’organizzazione della produzione, la centralità della conoscenza ha comportato il passaggio da modelli aziendali fortemente gerarchici ad altri basati sul progressivo decentramento delle funzioni e su nuove forme di lavoro precario, flessibile, a scarso contenuto di garanzie, ma a fortissima carica ideologica, in un’esaltazione della creatività, della libertà dai vincoli e dalle costrizioni, dell’orizzontalità e della condivisione. Tutti aspetti certamente in sé positivi ma inseriti organicamente in un quadro generale di flessibilizzazione e precarizzazione che ha drammaticamente impattato sulle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori.

Più in generale, si tratta di una falsa libertà spacciata come un mito dalla cultura di impresa che, tramite la comunicazione deviante, in tendenza ricopre l’intero corpo sociale e plasma la stessa sfera valoriale degli individui, che interiorizzano i valori di impresa, la flessibilità, il culto del successo individuale ecc. come propri e risultano così strutturalmente impossibilitati a perseguire forme di solidarietà e azione collettiva.

Questo, in fondo, era il grido d’allarme lanciato da Comunicazione deviante. Questo è il nuovo quadro che abbiamo cercato di descrivere, come area politica, nelle nostre analisi successive, al cui centro possiamo ricordare la raccolta Lavoro contro capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione.

Nella prefazione, intitolata Le ragioni di una sfida in atto, provavamo a descrivere i mutamenti strutturali, produttivi e localizzativi dello sviluppo del sistema economico: «Si viene definendo un nuovo ciclo produttivo legato alla produzione immateriale che mostra come l’impresa e l’economia post-industriale e post-fordista siano fondate sul trattamento del capitale informazione [...] Non si tratta, allora, nei paesi a capitalismo maturo, di un semplice processo di deindustrializzazione, di una delle tante crisi, ma di una radicale trasformazione degli assetti economico-produttivi che investe l’intera società...»

Queste novità richiedono di riprendere e aggiornare alcune questioni classiche. Un contributo importante ai fini di una analisi marxista della conoscenza è dato dalla recente pubblicazione di Carchedi, Sulle orme di Marx. Lavoro mentale e classe operaia. Lo sforzo di Carchedi è quello di analizzare le trasformazioni produttive portate dalle nuove tecnologie, in particolare da Internet, alla luce della teoria marxiana del valore.

Secondo Carchedi, “così come la produzione delle merci oggettive è l’operato di lavoratori la cui attività determinante è la trasformazione di oggetti di trasformazione oggettiva con mezzi di trasformazione oggettiva appartenenti ai capitalisti, allo stesso modo la produzione di conoscenza è opera di lavoratori la cui attività determinante è la trasformazione di oggetti di trasformazione mentale con mezzi di trasformazione mentale”. Gli oggetti di trasformazione mentale sono appunto a base di conoscenza, sia materializzata in oggetti (computer, libri ecc.) che acquisita dai lavoratori e incorporata nella loro forza-lavoro (e dunque non integralmente appropriabile dai capitalisti).

A proposito di Internet, Carchedi ritiene fondamentale distinguere tra agenti mentali e lavoratori mentali. Agenti mentali sono tutti coloro che, non essendo per questo retribuiti, utilizzano Internet per i fini più disparati, generando così quelle informazioni e quei dati che in effetti poi diventeranno profittevoli per i capitalisti, in particolare le grandi corporation che ormai dominano integralmente il settore, ma solo grazie al lavoro svolto dai lavoratori mentali.

Gli agenti mentali, infatti, sono improduttivi, non perché essi non producano valori d’uso materiali ma perché essi non sono inseriti direttamente nel processo di valorizzazione. La conoscenza da essi prodotta con l’attività su Internet, secondo Carchedi, è gratuita nel senso che, una volta prodotta, chiunque se ne può in via teorica appropriare gratuitamente. Per Carchedi ciò è precisamente quello che fa il capitale per mezzo dei lavoratori mentali, ovvero coloro che trasformano la ‘materia grezza’ prodotta dagli agenti mentali in conoscenza profittevole. I lavoratori mentali, coloro che raccolgono, elaborano, trasformano quei dati generando profitto per il capitale, rappresentano dunque a pieno titolo una parte della classe antagonista al capitale, perché con il loro lavoro producono il plusvalore estratto dal capitale.

L’innovazione tecnologica, la scienza non è neutrale, ma ha un contenuto di classe in quanto essa va sempre ricondotta al quadro generale dei rapporti di forza tra le classi rispetto ai quali essa si trova a intervenire. Questo va ricordato anche a proposito delle retoriche cui tanto abbiamo assistito in questi anni a proposito di Internet e delle possibilità democratizzanti ed emancipatrici che esso aprirebbe in quanto tale, in un’ottica che anzi giunge ad assegnare all’innovazione tecnologica potenzialità di trasformazione sociale che essa non ha. Rispetto alla società essa va invece concepita dialetticamente: le trasformazioni potenziali che lo sviluppo tecnologico apporta si possono trovare in contraddizioni con i rapporti sociali di produzione che contraddistinguono una formazione economico-sociale.

L’analisi critica dello stesso termine “rivoluzione scientifico-tecnica” mostra che, da un punto di vista marxista, profondi cambiamenti sociali non possono prendere il via solo a partire dalle rivoluzioni tecnologiche; si rendono necessarie trasformazioni nell’ordine delle relazioni di proprietà perché si produca un cambiamento sociale che modifichi la qualità del sistema di relazioni di produzione oggi dominante. I cambiamenti tecnologici, insomma, di per sé non modificano le relazioni di proprietà e quindi le relazioni di una società.

Questa tendenza alla produzione attiva del consenso tramite una “sovrabbondanza” comunicazionale, una produzione massiccia di “cultura” che in realtà assume le forme di cultura di impresa, di culto dell’individualismo, del libero mercato, ecc. rappresenta null’altro che, da un lato, il corrispettivo ideologico-culturale della nuova modalità di accumulazione che fa della conoscenza e del capitale intangibile una risorsa strategica, dall’altro il punto di arrivo di un processo secolare che è connesso ai fondamenti della società moderna, della società borghese.

Da questo deriva l’importanza del fronte culturale della lotta di classe, della formazione, delle concezioni del mondo, terreno questo su cui l’avversario ha vinto una battaglia decisiva negli ultimi decenni.

Ecco allora che la comunicazione deviante che piega l’intero vivere sociale alla cultura d'impresa rappresenta una vera e propria nuova modalità dell’egemonia, coerente con una nuova fase di sviluppo capitalistico a lei congrua su tutta la società, come scrive Mazzone nella prefazione a questo libro. Non semplicemente imputabile a “escogitazioni manageriali, né a tecniche di dominio aziendale e sociale, che pur ci sono, né a miserie sicofantiche di intellettuali asserviti e o politici da spettacolo”; ma vera e propria forma culturale e politica (o meglio, che procede alla svalutazione della stessa politica) appropriata alla nuova fase storica dell’accumulazione flessibile e dell’applicazione massiccia della conoscenza alla produzione e al vivere sociale.

Non si può comprendere, insomma, se non in rapporto alla totalità del capitale come rapporto e come processo, una modalità e tendenza comunicazionale che crediamo essere stata confermata dalla realtà nei 18 anni trascorsi dalla pubblicazione di questo testo.

E c’è ancora un nodo da sciogliere. È infatti evidente che questa centralità della conoscenza come fattore produttivo modifichi il ruolo dei sistemi formativi, e non certo nella direzione di una diffusione generalizzata o di un aumento condiviso della qualità dell’insegnamento; tutt’altro. Ma nel senso di una riduzione degli spazi di formazione critica e di un assoggettamento totale dei percorsi di studio alle esigenze d’impresa. Come Rete dei Comunisti abbiamo dedicato a questo tema negli ultimi anni una attenzione via via crescente. Ne è prova il convegno di Bologna del 2016 che è poi diventato un numero importante di Contropiano, quello dedicato a Formazione, ricerca e controriforme.

È qui che abbiamo parlato della “fabbrica capitalistica della conoscenza integrata”, che ha molto a che fare con quanto detto finora.
“Tutto sembra indicare che la nuova fase di sviluppo del capitalismo, con tutte le sue contraddizioni crescenti, si caratterizzerà per approfittare della valorizzazione della conoscenza, della formazione: si configura, insomma, la fabbrica della cultura del capitale come principale forza produttiva. Ciò presuppone una nuova forma di produzione sociale, un nuovo ciclo industriale ed una nuova dinamica economica, all’interno della quale lo sfruttamento del lavoro ha nuovi profili.”
Questa modifica struttura il processo di produzione di conoscenza e formazione sempre più sotto forma di relazione mercantile. L’attività formativa e culturale, pianificata e gestita dalle istituzioni, dal Profit State e dall’impresa, deve far convivere l’aspetto produttivo di elementi immateriali atti a qualificare i beni e servizi offerti, aumentandone l’appetibilità da parte del mercato. Chi oggi parla di Alternanza Scuola-Lavoro senza avere in mente questo quadro, si perde il pezzo decisivo, quello che determina in ultima istanza la trasformazione dei sistemi formativi.

Che cosa possiamo opporre a questo processo che tutto ingloba e trasforma? È necessario attuare un processo di rinnovamento prima di tutto culturale e sociale, una conoscenza che si formi e si accumuli a partire dall'importanza data ai valori d’uso, al benessere collettivo, ai diritti dell’umanità, alla solidarietà, all’equità, alla condivisione, alla reciprocità, alla compartecipazione ed elabori fin da subito la società alternativa.

Il senso di questa battaglia è culturale nell'accezione gramsciana del termine, passa da uno scontro egemoniale durissimo nei luoghi di lavoro e nell’intera società, occupa il compito politico per una intera fase storica.

Oggi una generazione di giovani, nata dentro il contesto della comunicazione deviante e sussunti dal capitale come “gorilla ammaestrati”, osteggiata profondamente dal contesto culturale e in totale contrasto col senso comune, si apre alla politica, sentendo forte dentro di sé la necessità di un cambiamento radicale. Con molta determinazione si sta dotando di strumenti di pensiero e di critica della realtà.

E se i “gorilla addomesticati” assumessero nel conflitto la determinazione di non volersi rassegnare a vivere passivamente il dominio della società della comunicazione deviante e della conoscenza messa a valore, e si giocassero la partita nei percorsi del divenire storico della soggettività di classe come gorilla rivoluzionari?

E allora: attenti ai gorilla!

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