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18/08/2018

Dal degrado al disfacimento


Il crollo del ponte autostradale a Genova sembra aver segnato un passaggio d’epoca nella triste vicenda italiana degli ultimi 30 anni: si è transitati da uno stato di degrado ad uno di disfacimento del Paese.

Risaltano, in queste ore, arroganza, impreparazione, approssimazione dei nuovi esponenti di governo e davvero c’è da dubitare sulla possibilità di uscirne con una possibilità seria di rinnovamento culturale della nostra convivenza civile e politica.

Ciò affermato e evidenziata anche la necessità urgente di costruire un’opposizione e un’alternativa, non possiamo dimenticare i passaggi attraverso i quali si sono realizzate queste condizioni di degrado.

Non può essere concessa a coloro che hanno colpevolmente costruito le condizioni del degrado politico e morale dell’Italia la possibilità di ripresentarsi sulla scena politica quali improbabili alfieri del rinnovamento.

Il piano più evidente di questo fallimento epocale è stato dato nel corso degli anni dal processo di deindustrializzazione e di progressiva incuria per i settori dei servizi e della manutenzione del territorio che ha caratterizzato la fase delle cosiddette “privatizzazioni”.

Andando per ordine è il caso però di entrare nel merito del quadro politico generale, e delle relative scelte maturate nel corso degli anni.

Vale la pena, allora, intervenire in questo contesto per ricordare che, prima di tutto, nel corso dell’ultimo ventennio hanno governato tutti: centrodestra, centrosinistra, tecnici, unità nazionale.

Prima di addentrarci però in una schematica ricostruzione degli eventi politici di quest’ultimo ventennio è bene ricordare come la democrazia italiana sia sempre stata fragile, alla mercé delle logiche di uno “Stato duale” che ha visto, tra gli anni ’60 e gli anni’70 almeno due tentativi di colpo di stato, poi una lunga stagione di stragismo di marca fascista e di terrorismo di matrice estremista da sinistra. Entrambe le parti comunque sicuramente inquinate dalla presenza di organismi dello Stato, più o meno deviati.

Tra gli anni ’60 – ’70 si è così delineato un quadro complessivo di incertezza e di difficoltà in una nazione posta al centro del conflitto tra i blocchi e crocevia delle lotte in atto nel Mediterraneo e nel Medio Oriente con un quadro politico dominato, ormai da molti anni, dal tentativo (oggi quasi completamente riuscito) di applicazione del progetto di “Rinascita Nazionale” elaborato dalla loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli, cui risultava affiliato lo stesso Silvio Berlusconi oltre a ministri e parlamentari dell’epoca, imprenditori, esponenti degli organi separati dello stato civili e militari.

Ciò premesso (e da tenere a mente sempre con grande attenzione) passiamo ad elencare i principali passaggi politici verificatisi dal 1994, prime elezioni politiche svoltesi con il nuovo sistema elettorale maggioritario (75%) misto con proporzionale (25%).

Da un primo governo Berlusconi fondato sulla duplice alleanza, al nord del Polo delle Libertà e al Sud del Polo del Buon governo, durato circa 6 mesi, si passò – grazie all’intesa PDS – Lega Nord, al governo tecnico Dini (inizio 1995, dopo il fallimento del tentativo Maccanico del cosiddetto “mostro tricefalo” che avrebbe dovuto realizzare una modifica della Costituzione in senso presidenziale).

Le elezioni del 1996 diedero la maggioranza all’Ulivo (con Rifondazione comunista assestata sulla posizione della cosiddetta “desistenza”), soprattutto grazie alla defezione della Lega Nord dal fronte di centrodestra.

L’Ulivo nel quinquennio, formò tre governi Prodi, D’Alema, Amato con vari passaggi e scissioni parlamentari, sia nell’ambito del centrosinistra, sia del centrodestra (Comunisti Italiani, Udeur).

E’ stata in questa legislatura trascorsa tra il 1996 e il 2001 la fase nella quale l’Ulivo, il centrosinistra, ha dimostrato per intero la difficoltà di una intera classe politica, quella ex-PCI ed ex sinistra DC, a governare il Paese e il suo delicato sistema di relazioni internazionali. Essere approdati al governo soltanto all’insegna della idea di “sbloccare” il sistema politico ha condotto, quale esito naturale di una tale impostazione teorica, non solo a muoversi nel solco già tracciato dall’avversario ma anche a non contrastarne, nello specifico della situazione italiana, gli enormi vantaggi che alla condizione personale del leader del centrodestra erano stati consentiti nel passato.

Da ricordare, sempre in quel periodo, un ulteriore tentativo di modifica della Costituzione sviluppato attraverso la formazione di una Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema.

Tentativo fallito per il ritrarsi all’ultimo momento proprio di Silvio Berlusconi che, beneficato da un inopinato rientro nel gioco politico, preferì conservare le proprie carte per il successivo confronto elettorale.

Consumata la legislatura prima con il tentativo di separazione tra politica e amministrazione attraverso il varo delle leggi “Bassanini”(all’origine di una perlomeno approssimativa semplificazione dell’agire amministrativo nei riguardi delle istituzioni dai frutti sicuramente negativi) e con il brutto passaggio dell’approvazione a maggioranza della modifica costituzionale al titolo V, l’Ulivo fu nettamente sconfitto alle elezioni 2001 dal centrodestra schieratosi al gran completo, inclusa l’UDC. Un risultato netto anche se, come al solito, la maggioranza al Senato (data la legge elettorale che assegnava il premio di maggioranza a livello regionale) risultava quanto mai risicata.

Il governo Berlusconi, formatosi all’inizio della legislatura, resse cinque anni tra continue fibrillazioni e defezioni all’interno del proprio fronte, non realizzando i risultati della promessa “rivoluzione liberale” e tentando anch’esso di modificare la Costituzione attraverso un progetto approvato dal Parlamento e poi bocciato nel referendum popolare confermativo.

Alle elezioni del 2006 l’Ulivo si presentò tramutato in Unione (comprendendo cioè in modo organico anche Rifondazione Comunista).

Le elezioni furono vinte dall’Unione, alla Camera, per 24.000 voti dopo che Berlusconi, ricompattato il suo fronte (salvo l’UDC) aveva portato avanti una fortissima campagna elettorale.

Al Senato, invece, il governo dell’Unione tentò di reggere con uno o due voti di maggioranza, ottenuti grazie alla costante presenza dei senatori a vita.

Caduto il governo Prodi all’inizio del 2008, si arrivò all’esito elettorale segnato da un grande successo del centrodestra con uno scarto di 6 milioni di voti tra centrodestra e il PD incautamente fondato sulla base di una presunta “vocazione maggioritaria” che aveva portato ad una rottura a sinistra, i cui esponenti raccolti nella Lista Arcobaleno risultarono addirittura esclusi dal Parlamento.

Il patrimonio di consenso accumulato dal centro destra fu rapidamente dilapidato per varie ragioni attraverso una crisi verticale e irrecuperabile dell’alleanza politica verificatasi all’interno di una crisi finanziaria di vasta portata a livello globale.

Crisi emblematizzata e resa politicamente sensibile agli occhi dell’opinione pubblica nell’estate del 2011, quando la crescita dello spread e la famosa lettera di Trichet e Draghi allora l’uno presidente uscente e l’altro entrante della BCE, fornirono lo spunto a Giorgio Napolitano per allontanare, con una manovra ai limiti della Costituzione, il governo Berlusconi.

Successivamente, tra il Novembre 2011 e il Febbraio 2013, il governo dei tecnici presieduto da Mario Monti, l’esito pasticciato delle elezioni del febbraio 2013 (con l’ingresso nell’arena parlamentare di un nuovo, molto consistente sul piano dei numeri, “competitor” come il M5S, una formazione dalla caratteristiche personalistiche – populiste), il varo del governo delle “larghe intese” di Enrico Letta, e a metà 2014, grazie ad un altro colpo di mano di dubbia costituzionalità e di cattivo retrogusto sul piano politico, il governo Renzi delle “piccole intese” essendosi nel frattempo scissa Forza Italia, con la defezione di un’ala ministerialista formata da ex-democristiani ed ex-socialisti.

Il governo Renzi, caduto al momento dell’esito negativo del referendum del 4 dicembre 2016 sulle riforme costituzionali, ha rappresentato un momento di passaggio del tutto determinante sul terreno dell’intreccio tra populismo e tensione autoritaria. Momento di passaggio che andrà ricostruito con grande attenzione in futuro.

Il dato più saliente nell’esperienza del governo Renzi è stato quello del tentativo di riforma della Costituzione che indicava chiaramente la prospettiva di una vera e propria “riduzione” nel rapporto democratico tra società e istituzioni. Si è cercato di intaccare la struttura istituzionale dello Stato e del sistema degli Enti Locali, così come era stato disegnato dalla Costituzione Repubblicana, in nome di una sorta di populistica “spending-rewiew” mentre la sostanza dei temi propri di carattere costituzionale e istituzionale erano affrontati in una logica a dir poco dilettantesca dal punto di vista dei risvolti concreti del funzionamento.

Eguale orientamento, di populismo dilettantesco, era già uscito allo scoperto in occasione del progetto di legge elettorale elaborato attraverso l’accordo “Renzi/Berlusconi” che non solo presentava gli stessi profili di incostituzionalità già rilevati in occasione della sentenza della Corte Costituzionale(n.1/2014) sul “porcellum” ma presentava anche risvolti di vera e propria inapplicabilità.

L’importante per il gruppo di potere rappresentato dal governo Renzi (e messo lì da finanziatori che avevano scopi ben precisi rispetto al rapporto proprio finanza/democrazia, con l’intento prioritario di tagliare – appunto – la democrazia) era quello di blindare la propria posizione, tener fuori le opposizioni, continuare a poter nominare i parlamentari: alla Camera con le liste bloccate, al Senato – addirittura – assegnando al Presidente della Repubblica (vero artefice, da molto tempo, di questa svolta autoritaria) la determinazione della maggioranza del consesso.

Un tentativo clamorosamente fallito dopo aver raccolto per una breve stagione un effimero consenso ma tale comunque da aprire la breccia al passaggio successivo, alimentando una ulteriore reazione negativa le cui espressioni politiche oggi verifichiamo nell’opera di governo.

Questa la storia che è stata ricostruita sommariamente proprio per ricordare, anche attraverso le date dei diversi passaggi, come tutti, proprio tutti, abbiano partecipato al governo. Nelle figure dei ministri dei vari governi troviamo ex-estremisti di destra vicini a Ordine Nuovo ed ex-estremisti di sinistra militanti in Democrazia Proletaria.

Non dimenticando, inoltre, che nel 2005 si verificò anche un mutamento nella legge elettorale, con l’accentuazione del meccanismo maggioritario assegnando alla coalizione vincente uno spropositato premio di maggioranza alla Camera (da realizzarsi senza raggiungere alcuna soglia preventiva) e regalando ai partiti, o meglio ai loro leader (nel frattempo il dato del personalismo politico era cresciuto esponenzialmente di peso) la facoltà di nominare, in pratica, l’intero emiciclo promuovendo, ovviamente, i singoli attraverso il criterio della fedeltà piuttosto che quello della capacità. Crebbero così di numero e d’importanza i “cerchi magici” formati da adulatori/trici profittatori/trici intorno ai leader, veri e presunti. Pratica questa delle “cordate di potere” che appare addirittura essersi implementata nell’attualità M5S – Lega, se guardiamo alle vicende dello spoil system nei vari Ministeri appena concluso in questi giorni.

Legge elettorale dichiarata poi incostituzionale da una sentenza dell’Alta Corte a seguito del ricorso da parte di un gruppo di coraggiosi (e isolati politicamente) avvocati milanesi.

Una legge elettorale quella del 2005 (ma sarà così anche per l’Italikum, fino al varo dell’incredibile pastrocchio con il quale si è votato il 4 marzo 2018) che finiva con l’esaltare un modo di intendere la partecipazione politica per svilirla e renderla mero fatto strumentale “ad usum personae” e la cui applicazione ha portato ulteriori gravi danni nella credibilità del sistema, contribuendo fortemente ad accentuarne una già evidente fragilità.

L’interrogativo, però, se s’intende cercare di formulare un giudizio politico su quella fase può essere posto in questo modo: c’era discontinuità tra i diversi governi? Esisteva davvero un berlusconismo e un antiberlusconismo, rifacendoci alla teoria che, comunque, quel ventennio ha avuto un “dominus” individuato nella figura del cavaliere di Arcore?

E’ necessario verificare con attenzione i diversi passaggi cercando però di formulare un’interpretazione di carattere globale.

Da questo punto di vista è innegabile come la matrice di ciò che è accaduto negli anni iniziali del nuovo secolo sia da ricercare almeno negli anni ’80 di quello precedente.

Le scaturigini sono da identificare in almeno tre elementi decisivi: il cosiddetto decisionismo dal quale è derivata la teoria della governabilità intesa come fattore assoluto, variabile indipendente; la personalizzazione della politica che Berlusconi ha sicuramente accentuato ma che tutti avevano già tacitamente accettato attraverso la modifica della legge elettorale in senso maggioritario e l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia (1993); il trasferimento della sovranità in materia economica a una superiore tecnocrazia, in particolare a livello europeo, posta assolutamente in linea con il “pensiero unico” e la “fine della storia”. Concetti questi ultimi, affermatisi con la caduta del Muro di Berlino e la stipula del trattato di Maastricht.

Sul piano economico l’accettazione del concetto tecnocratico, del primato dell’economia sulla politica, ha causato l’acquiescenza al fenomeno di una globalizzazione incontrollata e di un processo di finanziarizzazione tali da provocare la reazione di chiusura egoistica cui oggi stiamo assistendo a livello planetario in particolare da parte delle grandi potenze.

Inoltre per cercare di essere il più puntuali possibile nell’analisi vi è da aggiungere l’accettazione della ripresa del concetto di guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti e – addirittura – come mezzo di “esportazione della democrazia”. “Esportazione della democrazia” con i carri armati, in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Somalia, Mali, Darfuor i cui esiti vediamo oggi nella disperazione di profughi e migranti, nella scia di sangue che arrossa le acque del Mediterraneo e segna le piste stradali dei martoriati Balcani.

Un concetto, quello di esportazione della democrazia, accettato da tutti che ha provocato immani disastri anche nel cuore dell’Europa: non si può dimenticare come, nel 1999, fu il governo D’Alema (erano i tempi, ricordate? Dell’Ulivo mondiale) ad autorizzare la partecipazione degli aerei italiani ai bombardamenti di fabbriche ed edifici civili in Jugoslavia.

Si verificò, inoltre, l’accettazione supina, quasi l’esaltazione dell’Unione Europea: l’assenza di una politica seria in quella direzione (mentre la gestione sciagurata dell’ingresso nell’Euro è da addebitare al centrodestra) non solo è risultata esiziale per l’economia ma ha aperto la falla attraverso la quale si sono infilati i germi di una vera e propria infezione che ha attaccato definitivamente una possibile azione della politica non intesa semplicisticamente come espressione di una competizione tra urla incomposte fra chi la sparava più grossa alla televisione. Il disastro europeo ha rappresentato il terreno fertile per questa brutale trasformazione della politica nel peggio del peggio dal punto di vista dell’espressione culturale e della coerenza di un discorso teso a realizzare iniziative concrete.

Tutto questo si è verificato mentre andava per aria l’intero sistema politico italiano, si svuotava di senso la partecipazione politica riducendo ai minimi storici quella elettorale, i partiti si trasformavano in meri comitati elettorali al servizio di questo o di quello, gli Enti Locali mutavano natura e le Regioni da organismi legislativi si trasformavano in soggetti di nomina (molto spessa clientelare) e di spesa (molte volta impropria, come dimostrano le tante inchieste in corso). Inoltre l’elezione diretta dei Presidenti di Regione erroneamente denominati dalla stampa come “Governatori”, ha rappresentato la ciliegina sulla torta della trasformazione di questi Enti da fattore di sviluppo democratico verso il territorio (com’era nell’originaria previsione costituzionale) in sedi di arroccamento di privilegi di varia natura, di corporativismo, di sedi per le scorribande delle lobbie.

I partiti si sono così ridotti a luoghi ideali per l’espressione di cordate fondate sull’individualismo competitivo.

Si affermava sempre di più quello che Mauro Calise ha descritto come “partito personale”, retto da autocrati improvvisati, dotati del potere di scegliere gli addetti ai ruoli istituzionali secondo il criterio della più becera fidelizzazione.

Ci sarebbero altri aspetti da analizzare, dal peso dei mezzi di comunicazione di massa, alla trascuratezza (da parte di tutti i fronti) di elementi fondamentali sul piano economico come quelli riguardanti la programmazione industriale.

E ancora: l’assoluta perdita di ruolo dei corpi intermedi e in particolare dei sindacati, arroccatisi anch’essi dentro l’idea perdente della “concertazione”.

L’idea di “governo” ha sopravanzato quella della rappresentanza politica ed è stato su questa frontiera, assunta dal punto di vista teorico, che è stata sacrificata anche l’identità di quelle forze di sinistra che pure nella loro insegna tendevano a definirsi continuatrici dei soggetti che avevano segnato un’epoca nella seconda metà del ‘900.

Lo scioglimento del PCI avvenuto in nome di un indefinito “sblocco del sistema politico” nel momento in cui lo stravolgimento del quadro internazionale fondato sulla logica dei blocchi annullava anche le possibilità stesse di presenza della socialdemocrazia a livello europeo ha rappresentato il punto dirimente attorno al quale ha svoltato negativamente l’intero sistema.

Lo scioglimento di DC e PSI, partiti artefici delle combinazioni di governo nei quarant’anni precedenti, in virtù dell’esplosione della “questione morale” è apparsa quasi una naturale conseguenza di quello del PCI, provocando così quel “riallineamento sistemico” basato sull’adozione del sistema elettorale maggioritario che fin qui è stato ampiamente descritto nel suo sviluppo e nei suoi esiti.

PCI, DC, PSI non hanno avuto eredi, e da allora sono apparsi vani i tentativi di rianimarne le rispettive identità oppure di fonderne le risultanze in nuovi crogioli.

L’esito del ventennio intercorso tra l’implosione del sistema fondato sui partiti di massa, l’adozione del sistema maggioritario, l’affermazione della governabilità come vocazione assoluta dell’intero sistema politico, l’assunzione di una vera e propria centralità del personalismo fino a sconfinare in un ridicolo “individualismo competitivo”.

Regime personalistico e deriva autoritaria ben emblematizzati, a suo tempo, dalla figura del Presidente della Repubblica durante la tornata “lunga” di Giorgio Napolitano, protagonista di alcuni passaggi davvero border – line sul piano costituzionale, come quelli che hanno portato alla formazione dei governi Monti e Renzi.

Nel frattempo tramontava definitivamente l’idea del bipolarismo all’italiana, perché saltava il tappo del centro destra e si affermava la presenza di un nuovo soggetto: il M5S.

M5S che trova le ragioni della sue affermazione nel privilegiare le esperienze di autorganizzazione e di comunicazione attraverso stili enunciativi che talvolta ricordano quelli del marketing politico o della pratica “autoriflessiva” che hanno nei social media il loro contesto e nell’applicazione da alcuni punti di riferimento teorici rappresentati soprattutto all’interno del concetto di “sovranità imperiale” di Toni Negri.

A questa linea si è affiancata, sfruttando soprattutto l’emergere di forti tensioni sociali legate al fenomeno migratorio, la Lega che abbandonato il Nord, almeno sotto l’aspetto dell’etichetta, ha impostato il proprio discorso populista e sovranista (come si dice adesso) in linea con l’emergere di una destra europea capace di sfruttare le contraddizioni emergenti all’interno dell’Unione.

M5S cresciuto elettoralmente in maniera esponenziale (la crescita della Lega per ora sta soltanto nei sondaggi legati al prorompente attivismo del suo leader) grazie ad una produttiva interpretazione della complessità sociale si espone oggi a tutte le difficoltà esistenti nel misurarsi con un concetto di governabilità che si situa in una dimensione del tutto interna alle logiche di un presunto avversario scelto di volta in volta per accentrare su di esso l’odio e il livore che si sono seminati nella società attraverso il vociare scomposto alimentato dai “social media”

M5S e Lega stanno, infatti, esprimendo un movimentismo virtuale, in sostanza, del tutto interno alle logiche del sistema, indipendentemente dalle posizioni politiche che via via possono essere assunte anche in una forma apparentemente dirompente.

Intanto l’Italia sta passando dal degrado al disfacimento.

In appendice ricordiamo soltanto alcuni passaggi legati alla dismissione dell’intervento dello stato in economia e ad alcuni dei processi di privatizzazione attuati tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale:

1) Smantellamento dell’IRI. Un errore clamoroso (denominiamolo ancora così per “carità di patria”) che fornisce l’idea concreta di ciò che è stata la classe presuntuosamente dirigente di questo Paese: a partire dall’operazione smantellamento delle PPSS e scioglimento dell’IRI negli anni’80. Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI) rimaste in mano all’IRI furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenerlo in vita, trasformandolo in una non meglio precisata “agenzia per lo sviluppo”, il 27 giugno 2000 l’IRI fu messo in liquidazione e nel 2002 fu incorporato in Fintecna, scomparendo definitivamente. Prima di essere incorporato dalla sua controllata ha però pagato un assegno al Ministero del Tesoro di oltre 5000 miliardi di lire, naturalmente dopo aver saldato ogni suo debito.

2) Da non dimenticare il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. In soli quindici anni dal suo avvio (1996) era già costato agli italiani oltre 1000 miliardi di euro, per poi continuare a gravare sulla nostra economia fino a soffocarla: il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, avvenuto nel 1981 per volere dell’allora ministro Beniamino Andreatta. Con un atto quasi univoco, cioè una semplice corrispondenza epistolare con l’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mise fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il disavanzo. Venne infatti rimosso l’obbligo vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i Titoli di Stato emessi sul mercato primario (cioè quelli collocati mensilmente dal Tesoro), che aveva consentito fino ad allora al nostro Paese di tenere sotto controllo il debito pubblico. Perso questo strumento di sovranità monetaria, anticipando quanto sarebbe avvenuto successivamente con l’ingresso nell’Unione Monetaria, l’Italia per finanziare la propria spesa dovette iniziare ad attingere ai mercati finanziari privati, con tassi d’interesse di tutt’altra entità rispetto a quelli garantiti in precedenza. Gli effetti furono immediati: sempre ragionando in euro i 142 miliardi di debito del 1981 (58% del Pil) dopo tre anni erano raddoppiati; dopo quattro, triplicati (429 miliardi), superando quota 1000 nel 1994, pari al 121% del Pil. Un fardello che ci siamo portati appresso al momento dell’adesione all’Unione Europea e alla moneta unica.

3) Subito dopo è da ricordare il processo relativo alla privatizzazione di Telecom (avvenuta con la contrarietà di Gianni Agnelli) e il successivo passaggio, febbraio 1999 presidente del consiglio Massimo D’Alema, ministro del tesoro Carlo Azeglio Ciampi, ministro delle Finanze Vincenzo Visco e ministro dell’industria Pierluigi Bersani, alla cordata dei cosiddetti “capitani coraggiosi” guidati da Roberto Colaninno che lanciò un’Opa da 100 mila miliardi di lire. Nel tunnel della privatizzazione Telecom entra con centomila dipendenti, nessun debito e il primato di aver introdotto in Italia la fibra ottica. L’operazione “capitani coraggiosi” si evolve caricando la società di debiti per il valore del 70% dell’OPA, la cessione di Omnnitel e Infostrada ai tedeschi di Mannesmann e con un aumento di capitale della Olivetti per 2,6, milioni di euro (e la creazione della figura dell’esodato per decine di migliaia di lavoratori costretti ad uscire dal circuito produttivo). Nel 2001 poi la quota dei “capitani” (con un’ingente plusvalenza) fu rilevata da Tronchetti Provera e Benetton. Il debito al 30 settembre 2001 era di 22,6 miliardi di euro, mentre quello di Olivetti era di 17,8. Complessivamente sul gruppo gravava un debito di 40,4 miliardi. Questo fatto documenta il tragico andamento di uno dei più importanti processi di privatizzazione attuato in un settore strategico come quello delle telecomunicazioni;

4) Vicenda Autostrade (oggi di grande e drammatica attualità). Il grosso dei lavori autostradali in Italia finisce a metà degli anni ’70 e in una ventina d’anni, molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere per avvenuto integrale recupero del capitale investito. E invece vengono prolungate. Perché? “Quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’Iri, e l’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade (definita al tempo “gallina dalle uova d’oro”). Il resto della rete, con la sola eccezione della Torino-Milano, era di proprietà di Province e comuni e quindi anch’essa pubblica”. Nel 1999-2000, poi, la privatizzazione (a palazzo Chigi c’era D’Alema). “Il problema vero è che se consideriamo l’enorme allungamento delle concessioni e il sistema delle tariffe, il prezzo è stato troppo basso. Lo Stato ci ha perso dei soldi e per di più, con un regolatore debole come Anas, non è riuscito a trasferire i guadagni di efficienza agli utenti. E così il governo ha concesso ai concessionari tariffe adeguate a ripagare un investimento che è già stato ripagato nei decenni precedenti e gli chiede di fare investimenti in nuove infrastrutture che poi arrivano col contagocce. Risultato: guadagni inauditi. I Benetton in sei anni avevano quadruplicato l’investimento iniziale, Gavio l’aveva visto moltiplicarsi per venti. Oltre al prolungamento delle concessioni – l’ultimo regalo è di Berlusconi: da 30 a 50 anni – ci sono le tariffe, elaborate con un sistema definibile “price cup all’italiana”.

5) Privatizzazione delle ferrovie. Il periodo tra il 1986 e il 1992 fu per le FS uno tra i più difficili della loro storia date le profonde trasformazioni strutturali e organizzative che implicarono una riduzione del personale a meno della metà e la creazione di nuove divisioni e società controllate nonché riassegnazioni di personale e mezzi. Nel 1992 nacque Ferrovie dello Stato – Società di Trasporti e Servizi per azioni, anche in conseguenza delle direttive europee che prevedevano lo scorporo del settore gestione dal settore infrastruttura. Il processo di ristrutturazione portò poi, il 15 dicembre 2000, alla trasformazione dell’impresa in Ferrovie dello Stato Holding Srl. All’interno di Ferrovie dello Stato SpA, il 7 giugno 2000 si costituì Trenitalia SpA (già Italiana Trasporti Ferroviari S.p.A.), a cui fu affidato il trasporto di merci e di passeggeri. Il 9 aprile 2001 fu costituita Rete Ferroviaria Italiana SpA che ebbe l’incarico di occuparsi della rete e delle stazioni, sempre per il perseguimento delle direttive europee citate poc’anzi. Infine il 13 luglio 2001 Ferrovie dello Stato Holding Srl divenne Ferrovie dello Stato SpA. Il 22 giugno 2011, nel corso della presentazione del piano industriale, è stato annunciato il cambio della denominazione in Ferrovie dello Stato Italiane SpA. Negli ultimi anni FS attraversa una fase di generale riduzione del servizio offerto e del numero di passeggeri : infatti, a fronte di una «flessione significativa» dei treni a media e lunga percorrenza sovvenzionati dallo Stato e quindi della corrispondente utenza (-8 e -13 % rispettivamente), e di una minore riduzione dei treni regionali non corrispondente a un calo della domanda (-3 e -1 %), l’aumento dei treni a prezzi di mercato ha recuperato solo una parte dei passeggeri (+2 e +3 % su valori assoluti di un terzo del totale). Il calo dei passeggeri supera il calo del trasporto automobilistico, mentre il traffico passeggeri aereo nazionale è in aumento

6) Un ultimo punto sotto questo aspetto riguardante la definitiva affermazione (e concentrazione) del sistema televisivo privato. Un punto di vero e proprio inquinamento del dibattito culturale e politico nel nostro Paese sostenuto dal formidabile “conflitto d’interessi” sul quale si è basato nel corso degli anni e riguardante il principale protagonista dell’epoca, Silvio Berlusconi. Un conflitto d’interessi determinante proprio per quello che abbiamo definito come “inquinamento” mai affrontato alla radice come, invece, aveva suggerito il padre della politologia italiana Giovanni Sartori reclamando, fin dal 1993, l’applicazione delle legge del 1957 sull’incandidabilità dei soggetti concessionari pubblici. Invito tranquillamente ignorato da tutte le forze politiche.

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