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30/08/2018

Turchia, il fronte Sud della Nato diventa un problema sistemico

La realtà va di corsa, ormai, e chi si attarda è perduto. Dobbiamo guardare alle dinamiche economiche e geopolitiche in modo obbiettivo, quasi da entomologi, perché soltanto se capiamo “la cornice” e “la struttura” entro cui si svolge anche la nostra piccola azione possiamo provare a fare qualcosa di positivo. La “sinistra” che ancora ragiona con i paraocchi degli anni ’90, insomma, è come il cieco che sente suonare le campane, ma non sa dove sono…

Cosa c’è di nuovo al mondo e in Europa? Intanto che si va allargando il fossato tra Unione Europea e Stati Uniti, seguendo la contrapposizione tra interessi tedeschi – capofiliera di buona parte della produzione industriale continentale – e americani. Il fermentare di nazionalismi che attraversano l’Est, la stessa Italia e molti altri paesi del Vecchio Continente, è alimentato non soltanto dal razzismo e dal malessere sociale creato dalle politiche di austerità applicate alla più grave crisi economica del dopoguerra, ma anche da qualche cointeresse Usa.

E’ uno scontro “inter-imperialista” – come si diceva quando i comunisti ragionavano con la testa fredda invece che con le categorie dell’avversario – in cui non c’è da “schierarsi”, ma prima di tutto c’è da capire dove stiamo poggiando i piedi, per arrivare a trovare un sentiero da percorrere.

Tra le novità più rilevanti abbiamo segnalato proprio oggi l’abbozzo di un sistema monetario alternativo incentrato sull’oro anziché sul dollaro. Banalmente, un sistema siffatto elimina la necessità di ricorrere al Fondo Monetario Internazionale, con tutti i suoi ricatti e condizioni capestro, e l’intermediazione di una monta stampata ad libitum, senza più alcun rapporto né con un metallo pregiato, né con altri parametri oggettivi e misurabili.

Una bomba a tempo, per la moneta Usa, da molti anni dominante più per la forza militare dello Stato che la emette che non per la solidità della propria economia, devastata dalle delocalizzazioni produttive e con livelli di disoccupazione interna malamente nascosti da criteri statistici ben poco scientifici.

Protagonisti di questo sistema in via di formazione tre paesi individuati dagli Usa come “nemici”, vecchi e nuovi, come Russia, Iran e Turchia. E proprio quest’ultimo paese – con uno dei peggiori regimi autoritari una “democrazia” ormai ridotta all’esercizio di un voto sempre più truccato – costituisce il legame oggettivo tra quel sistema e la Germania (dunque l’Unione Europea così com’è attualmente).

L’editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza è fin troppo dettagliato, su questo tema, perché sia necessario darne una sintesi. Buona lettura.

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Tutti di corsa ad aiutare la Turchia: ora, si muoverebbe anche la Germania. Ma non solo in quanto rappresenta il sedicesimo Paese per valore di esportazioni, con 21,5 miliardi di euro nel 2017, ed occupa lo stesso posto in graduatoria per le importazioni con 16,2 miliardi, con un saldo attivo di 5,2 miliardi per Berlino.

Ankara è molto di più, anche per la Germania: crocevia geopolitico tra Occidente Atlantico e Russia; snodo essenziale negli approvvigionamenti terrestri alternativi alla rotta su cui transita il North Stream; protagonista nella risistemazione della Siria; pivot alternativo alla alleanza sunnita guidata dalla Arabia Saudita negli equilibri dell’intero Medioriente. Basta pensare all’isolamento completo, diplomatico e di frontiere, deciso da Riyadh nei confronti di Doha, che ha riaperto le relazioni con Teheran, per capire come gli opposti schieramenti siano ormai decisi.

Nei confronti di Berlino non contano solo le ragioni finanziarie contingenti, oppure la reminiscenza delle storiche alleanze con l’Impero Ottomano che risalgono alla Prima guerra mondiale. Ci sono due fattori chiave: la forte minoranza di origine turca che vive in Germania, e che con il suo voto ha fortemente sostenuto la riforma costituzionale che a giugno ha incoronato nuovamente il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, e che può pesare assai nelle prossime elezioni in Germania; gli oltre tre milioni di profughi ospitati in Turchia a spese della Ue, su espressa richiesta della Cancelliera Angela Merkel, per chiudere la rotta balcanica ai migranti che avevano destabilizzato non solo la Germania ma tutti i Paesi per cui transitavano.

La rete di protezione a favore della Turchia ha cominciato a dispiegarsi già il giorno di Ferragosto, quando sulla Gazzetta Ufficiale turca sono state pubblicate le nuove tariffe dei dazi sulle merci importate dagli Usa, in risposta al raddoppio di quelle decise da Donald Trump, che aveva portato al 30% quelle sull’alluminio ed al 50% quelle sull’acciaio per contrastare la eccezionale competitività delle merci turche dovuta alla svalutazione del 40% della lira. Ankara le ha elevate dal 35% al 120% sulle auto americane, dal 40% al 140% sugli alcolici; dal 20% al 40% sul riso, dal 30% al 60% sui prodotti di bellezza.

Lo stesso giorno, l’Emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani era ad Ankara in visita al Presidente Erdoğan: l’incontro si è concluso con l’annuncio di investimenti per 15 miliardi di dollari. Contemporaneamente, si dava conto del colloquio telefonico tra il Presidente turco e la Cancelliera Angela Merkel, da cui era emersa la volontà di rafforzare i rapporti bilaterali: il ministro turco delle finanze e dell’economia Berat Albayrak si sarebbe recato a Berlino entro il mese, in visita al suo omologo. Molto più cauta sembra finora la Cina: ha già fin troppi fronti aperti con gli Usa, per dover aggiungere altra benzina sul fuoco annunciando un suo appoggio finanziario alla Turchia.

Appena cinque giorni dopo, il 20 agosto, la Banca centrale turca ha dato notizia di uno Swap Agreement con la corrispondente CBRT del Qatar, tra la lira ed il Riyal per l’importo massimo di 3 miliardi di dollari, con l’obiettivo di facilitare gli scambi bilaterali e supportare la stabilità finanziaria dei due Paesi.

Le istituzioni finanziarie internazionali, come il Fmi, sono fuori gioco: non si potrà intervenire a favore della Turchia, come è accaduto di recente con l’Argentina, ripetendo nei confronti di Ankara il programma di aiuti concesso nel 2001: le consuete condizioni di Washington stavolta sarebbero politicamente inaccettabili per Erdogan.

Le voci di un probabile sostegno finanziario tedesco di emergenza alla Turchia riecheggiano le posizioni già assunte da Berlino nei confronti dell’Iran, colpito anch’esso dalle sanzioni americane per via del ritiro statunitense dall’Accordo sul nucleare. Una destabilizzazione della regione per via finanziaria a causa del default della Turchia, ovvero per una crisi militare con l’Iran che portasse alla chiusura dello Stretto di Hormuz sarebbe insostenibile per l’Europa, mentre lascerebbe praticamente indifferente gli Usa che in questi anni hanno raggiunti con lo shale gas ed il GNL la piena indipendenza energetica.

La parabola che si sta delineando porta quindi la Germania ad una ulteriore presa di distanza dagli Usa: non riguarda più solo la richiesta di aumentare il bilancio della difesa e di riequilibrare i rapporti commerciali tra i due Paesi, ma fronteggia la recente minaccia di Trump di portare entro settembre al 25% i dazi sulle auto europee.

I punti di crisi si moltiplicano. C’è chi, come Donald Trump, punta a scardinare un sistema di rapporti commerciali internazionali che ritiene non equo e non più sostenibile per gli Usa, e chi come Angela Merkel vi si avvinghia perché è stato la chiave della recente prosperità tedesca. C’è chi batte mazzate e chi mette toppe: difficile reggere sempre tutto.

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