Anche quest’anno non mi pare di aver raccolto segnali di ricordo al riguardo della fondazione del Partito Socialista avvenuta a Genova il 15 agosto 1892, cioè 126 anni fa.
Provvedo, indegnamente, con queste poche righe partendo da un assunto di attualità.
L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.
L’impoverimento generalizzato e l’inversione delle aspettative sono stati i fenomeni documentati qualche anno fa dal rapporto McKinsey dal titolo “Poorer than their parents? A new perspective on income inequality” (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull’ineguaglianza dei redditi.) Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare – secondo lo stesso Rapporto McKinsey – il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump, al gruppo di Visegrad ai nostri Lega e M5S.
Lo studio di McKinsey prendeva in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C’è dentro tutto l’Occidente più il Giappone. In quest’area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c’è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l’impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L’Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l’81% ed i segnali di crescita si stanno verificando in un quadro di protezionismo e di innalzamento di barriere. Seguono Inghilterra e Francia. Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l’intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le disuguaglianze e si misurino davvero con il tema del lavoro sul quale si riflette soltanto in termini di assistenzialismo (80 euro, reddito di cittadinanza) o di inasprimento delle condizioni di sfruttamento (Job Act).
L’altra conclusione del Rapporto McKinsey riguardava i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. “I lavoratori giovani e quelli meno istruiti – si legge nel Rapporto – sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri”. Questa generazione ne è consapevole, l’indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.
Lo studio non si limitava a tracciare un quadro desolante, vi aggiungeva delle distinzioni cruciali per capire come uscirne: se lasciata a se stessa, l’economia non curerà l’impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere. “Perfino se dovessimo ritrovare l’alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi”. E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell’ultimo decennio, dal 70% all’80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione.
Si confermano quindi le analisi di economisti come Piketty, Atkinson, Stiglitz e le ricerche di un marxista capace di una visione “mondiale” come l’appena scomparso Samir Amin.
Eppure nonostante l’emergere di questo quadro desolante poco o niente si sta muovendo soprattutto sul piano della rappresentanza politica di coloro che soffrono delle contraddizioni generate da questo stato di cose: uno stato di minorità e di sfruttamento allargato sull’insieme della società sempre più sfrangiata, sfibrata, preda dei “falchi” dell’innovazione tecnologica che punta alla riduzione nella condizione della schiavitù individualistica mentre appare in piena evoluzione il processo di divorzio tra politica e cultura.
Oltre cento anni fa la reazione alle condizioni di sfruttamento imposte dalla prima rivoluzione industriale fu ben diversa e vale la pena di raccontarla per sommi capi.
In Italia la crescita del movimento operaio si delinea sulla fine del XIX secolo. Le prime organizzazioni di lavoratori sono le società di mutuo soccorso e le cooperative di tradizione mazziniana e a fine solidaristico. La presenza in Italia di Michail Bakunin dal 1864 al 1867 dà impulso alla prima organizzazione socialista-anarchica, ma aperta anche ad istanze più generalmente democratiche e anche autonomiste: la Lega Internazionale dei Lavoratori (opposta all’Associazione internazionale dei lavoratori di Karl Marx). L’episodio anarco-socialista di propaganda più noto è quello del 1877 (un gruppo di anarchici tentò di far sollevare i contadini del Matese).
In merito alla formazione dei socialisti in Italia (che a tutti gli effetti si configuravano come prima realtà partitica moderna) è interessante notare l’eredità mazziniana e della struttura di “partito” che, decenni addietro, si era data la Giovane Italia di Mazzini. Essa infatti, pur scevra da costrutti dottrinali ideologici per come li intendiamo noi, basava la propria attività su tre punti fondamentali: proselitismo, coordinamento centrale e autofinanziamento del movimento. I socialisti, volontariamente o meno, si strutturarono quindi in maniera simile, poggiando le basi su una concettualità ideologica, e formando così il primo partito moderno italiano.
Intanto la Lega Internazionale dei Lavoratori nel 1874 si era sciolta e l’anima più moderata, guidata da Andrea Costa, sosteneva la necessità di incanalare le energie rivoluzionarie in un’organizzazione partitica disposta a competere alle elezioni. Tra i più convinti sostenitori di questa linea troviamo Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi Viani, fondatori nel 1876 della “Federazione Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori” e, nel 1882, del Partito Operaio Italiano, con la rivista “La Plebe” (di Lodi), alla quale poi si affiancano altre pubblicazioni.
Nel 1879 Costa, uscito dal carcere, si trasferì a Lugano in Svizzera
Qui scrisse la lettera intitolata “Ai miei amici di Romagna“, in cui indicava la necessità di una svolta tattica del socialismo, che doveva passare dalla «propaganda per mezzo dei fatti» a un lavoro di diffusione di principii, che non avrebbe presentato risultati immediati, ma avrebbe ripagato sul medio periodo.
La lettera fu pubblicata nel n. 30 del 3 agosto 1879 de “La Plebe”.
La presa di posizione di Costa determinò nel movimento socialista italiano una prima separazione dei socialisti dagli anarchici. Nel 1881 questi organizzò il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che sosteneva, fra l’altro, le lotte dei lavoratori, l’agitazione per riforme economiche e politiche, la partecipazione alle elezioni amministrative e politiche. Il partito di Costa incontrò grandi difficoltà, anche se egli riuscì ad essere eletto alla Camera nel 1882: fu il primo deputato socialista della storia d’Italia.
Anche il Partito Operaio Italiano di Costantino Lazzari e Giuseppe Croce si presentò alle elezioni del 1882, ma senza successo.
Frattanto il movimento operaio si organizzava in forme più complesse: Federazioni di mestiere, Camere di lavoro, ecc. Le Camere di Lavoro si trasformano in organizzazioni autonome e divengono il punto di aggregazione a livello cittadino di tutti i lavoratori.
Su queste basi nel 1892 nasce a Genova il Partito dei Lavoratori Italiani che fonde in sé l’esperienza del Partito Operaio Italiano (nato nel 1882 a Milano), della Lega Socialista Milanese (d’ispirazione riformista, fondata nel 1889 per iniziativa di Filippo Turati) e di molte leghe e movimenti italiani che si rifanno al socialismo di ispirazione marxista.
La scelta di Genova come città in cui svolgere il congresso il 14 e 15 agosto del 1892, tra le altre cose, fu dovuta alla contemporanea presenza delle manifestazioni Colombiane per il quattrocentenario della scoperta delle Americhe: le ferrovie infatti in tale occasione avevano concesso degli sconti sui biglietti per il capoluogo ligure, che vennero sfruttati dai convenuti al congresso (la maggior parte dei quali provenivano dalle regioni del nord).
La decisione generò attriti con i rappresentanti della locale Confederazione operaia genovese, inizialmente tenuti fuori dall’organizzazione dell’evento, e mediaticamente si rivelerà controproducente, essendo in quei giorni l’interesse dei quotidiani e delle riviste concentrato proprio sugli eventi (gare ginniche e regate) correlati alla grande esposizione colombiana, che finiranno per mettere in ombra il congresso
Al congresso si presenteranno circa 400 delegati, rappresentanti di interessi e posizioni non sempre allineate tra di loro.
I fondatori ufficiali della nuova formazione politica furono Filippo Turati e Guido Albertelli. Altri promotori furono Claudio Treves, Leonida Bissolati, Ghisleri, Enrico Ferri, che erano provenienti dall’esperienza del Positivismo.
Turati ed altri (Camillo Prampolini, Anna Kuliscioff, Bosco, ecc.) furono a Genova fin dal 13 e proprio la sera di quel giorno si riunirono per discutere delle proposte da presentare nel congresso dei giorni seguenti. Gli esponenti anarchici, commentando al tempo questa riunione preparatoria, la descrissero come una riunione che aveva come tematiche le decisioni da prendere contro la corrente anarchica stessa. Gli attriti tra le due anime proseguirono il giorno successivo, nella sala Sivori, con la richiesta della parte anarchica (Pellaco, Galleani e Gori) di sospendere i lavori e la posizione di Turati e Prampolini che invece chiesero ed auspicarono una netta separazione tra le due correnti del movimento.[14] Turati decise quindi di riunire i congressisti che erano fedeli alla sua linea non più alla sala Sivori, ma nella sede dell’associazione garibaldina “Carabinieri Genovesi”.
Il 15 agosto si ebbero quindi due incontri, quello degli appartenenti alla linea di Turati (circa i 2/3 dei rappresentanti convenuti a Genova), che, dopo alcuni infruttuosi tentativi di mediazione tra le due correnti portati avanti da Andrea Costa, fonderà il Partito dei Lavoratori Italiani, e quella nella sala Sivori dove l’ala anarchica ed operaista (circa 80 delegati) darà vita ad un omonimo partito, la cui esistenza, di fatto, terminerà con la fine del congresso.
Viene eletto Segretario del neocostituito Partito Carlo Dell’Avalle, fondatore nel 1882 della “Società Genio e Lavoro“, che riuniva le principali organizzazioni operaie milanesi, tra cui i ferrovieri e i lavoratori della Pirelli.
Nel 1893, nel II Congresso di Reggio Emilia, il partito si dà un’autonomia e un nome ufficiale come Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, inglobando anche il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano di Andrea Costa. È confermato Segretario Carlo Dell’Avalle.
Nell’ottobre del 1894 il partito viene sciolto per decreto a causa della repressione crispina. Il 13 gennaio 1895 si tiene in clandestinità il III Congresso a Parma che decide di assumere la denominazione di Partito Socialista Italiano. È eletto Segretario Filippo Turati.
Turati è erede del radicalismo democratico; nel 1885 si era unito con la rivoluzionaria Anna Kuliscioff; conosce le opere di Marx ed Engels, è legato alla socialdemocrazia tedesca ed alle associazioni operaie lombarde. Considera il socialismo non dal punto di vista insurrezionale, ma come un ideale da calare nelle specifiche situazioni storiche.
Alle elezioni del 1895, in contrapposizione alla repressione, viene creata un’alleanza democratico – socialista. Vengono eletti in Parlamento 15 deputati socialisti, tra i quali Bissolati, Costa, Prampolini, Turati.
Si apre la lunga stagione del socialismo italiano e delle tappe della sua crescita che passerà attraverso momenti di feroce repressione come quello del maggio 1898 con le cannonate di Bava Beccaris, del suo sviluppo, delle sue rotture, ricomposizioni, scissioni, la più importante delle quali rimane quella del 24 gennaio 1921 quando a Livorno si separarono socialisti e comunisti.
La grande epopea della Rivoluzione d’Ottobre aveva fornito, come nel resto dell’Europa Occidentale, l’effetto della divisione tra i due grandi filoni rappresentativi della storia del movimento operaio del ‘900.
Del resto la II internazionale era già fallita nella torrida estate del 1914, quando la grande SPD e il PSF avevano votato i crediti di guerra smentendo l’opzione pacifista ad arrendendosi alle vocazioni imperiali e nazionaliste sulla base delle quali era scoppiata la “Grande Guerra”.
Sono passati 126 anni dalla fondazione di Genova e 97 anni dalla scissione di Livorno.
Dopo lo scioglimento del PSI e del PCI avvenuto nel quadro del rivolgimento di fine anni ’90 la sinistra italiana si trova priva di una qualche propria presenza significativa, in una situazione di arretramento storico quale quella che è stata descritta nella prima parte di questo intervento.
Una situazione di difficoltà nell’espressione di soggettività estesa anche alla dimensione internazionale dove, a fronte di segnali di rinnovamento e di crescita che si stanno verificando in particolare negli USA e in Gran Bretagna senza dimenticare Portogallo e Spagna, con l’affermazione di un socialismo di sinistra da considerare come reazione allo slittamento a destra avvenuto nei primi decenni del secolo (Blair, Schroeder, il PD italiano) e al fallimento delle socialdemocrazie francese e tedesca, non pare corrispondere una nuova capacità di collegamento internazionalista.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento