di Piero Cipriano
Vivremo in una democrazia in cui “la libertà sarà stata un episodio”, così inizia Psicopolitica,
il libro dell’apocalittico filosofo tedesco-sud coreano Byung-Chul Han.
Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. O del dislike. Una
comunicazione contrappuntata, quando tutto va per il bene, dagli
stucchevoli love, o dagli sganasciati haha, o dagli stupefatti wow, quando va per il male dai melanconici sigh o dai livorosi grr.
Lo so, sembro ridicolo, eppure anche sotto i post che accompagneranno
questo scritto riceverò qualche decina di commenti in neolingua. Una
specie di idiot savant si è inventato questo social network, e di anno
in anno come un dio bambino inventa nuovi codici, nuovi lemmi, nuove
semplificazioni per narrare le relazioni. E ci siamo incamminati verso
una semplificazione lessicale ed emotiva che somiglia alla neolingua
immaginata da George Orwell in 1984, la semplificata neolingua
incaricata di sostituire l’archilingua perché l’archilingua è
articolata, la neolingua è funzionale a semplificare il pensiero. Se hai
sempre meno parole per dire le cose, immagina Orwell, ovvero “chi parla
male pensa male”, per dirla con Nanni Moretti, vedi che la coscienza si
restringe. E pure i testi scolastici fascisti o nazisti erano dotati di
un lessico semplificato, apposta per semplificare il pensiero. Per un
verso allora, nota Han, in questo panottico digitale a cui ci siamo nel
volgere di pochissimi anni abituati al punto da non saperne più fare a
meno sembra incentivata la comunicazione e lo sproloquio. Per un altro
verso c’è un invito alla sintesi e alla semplificazione, i post tanto
più vengono letti quanto più sono laconici ed essenziali.
Il problema (ma ciò era prevedibile, pensateci) è che di questa
semplificazione lessicale che genera neolingua si sono impossessati (e
ne stanno facendo un uso criminale) dei soggetti dal pensiero semplice,
che per lo più non hanno fatto studi approfonditi, non si sono spinti
oltre le scuole superiori, spesso istituti tecnici, e se si sono
affacciati all’università dopo pochi esami hanno capito che invece di
perdere tempo a studiare c’era qualcosa di più pragmatico e redditizio
da fare: la politica. Anche perché la politica negli ultimi decenni è
cambiata, ha smesso di selezionare i più colti (non voglio dire i più
etici, perché non è quasi mai stato così), le menti più sveglie, ma in
un darwinismo sociale invertito estrae dal mazzo i più fessi, o i più
scaltri, o i più ingordi di potere. E così è capitato che questi idiot savant,
dico da un Trump a scendere a un Salvini o – per restare nel nostro
orto – a un Di Maio un Di Battista un Toninelli insomma gli utili idioti
di questi anni, nel comunicare con neolingua fatta di slogan o frasi
secche (finita la pacchia, onestà, a casa loro, governo del cambiamento, prima gli italiani,
e così via) sono dei veri talenti. Perché un concetto complesso non
saprebbero articolarlo, ma hanno questo dono della sintesi estrema che
pare fatto apposta per i social più in voga (Facebook, Twitter,
Instagram).
E grazie a questo dono di saper parlare semplice – bastano due
neuroni e una sinapsi – eccoli dominatori di un dispositivo panottico
che il povero Bentham non avrebbe mai potuto immaginare, e neppure noi,
fino a vent’anni fa. Anzi, dieci. Un dispositivo dove siamo in reciproca
sorveglianza, quindi un panottico a 360 gradi. Un panottico gigantesco.
Mettiamo Facebook. Oggi conta oltre due miliardi di iscritti. Che
accedono al panottico più volte al giorno. Facebook ha più seguaci del
cristianesimo e dell’Islam. È una chiesa più influente di tutte le
altre. I cui praticanti sono sempre connessi o raggiungibili. Per mezzo
dello smartphone. Smartphone che tocchiamo in media 2617 volta ogni
giorno. Non c’è rosario bibbia o corano compulsato con questa frequenza.
Facebook è una chiesa che per amen ha un like. Un like come primitivo
sistema di gratificazione a breve termine, a base di dopamina. Fatemi
semplificare e fare il riduzionista. Propongo questo sillogismo. La
psicosi, secondo la teoria più accreditata, da un punto di vista
biochimico è causata da un eccesso di dopamina. Il neurotrasmettitore
edonico. Quello che dà piacere, insomma. Come a dire: troppo piacere fa
impazzire. I like, si dice, aumentano la dopamina. Gratificazione a
breve. I like, dunque, producono psicosi. Ecco. Il manicomio digitale,
produce psicosi. Non è un caso che coloro che nel 2009 hanno ideato il
bottone del like – Justin Rosenstein e Leah Perlman – siano ora i più
accesi sostenitori di una sorta di vangelo apocrifo contro la chiesa di
Facebook. Si sono disconnessi.
Insomma, ricapitolo: un idiot savant ha creato un manicomio digitale, un panottico a 360 gradi per un reciproco controllo totale. Altri idiot savant si sono impossessati del giocattolo, lo sanno giocare come nessun altro, twittano postano scrivono slogan o frasi lapidarie (molti nemici molto onore) spesso copiate o citando, sapendo o non sapendo tanto è uguale, dato che la cultura è roba da radical chic (altro slogan) e quando sento la parola cultura metto mano alla pistola
(altra citazione, chi lo disse? Boh. Che mi frega). Ciò che conta è che
questo giocattolo panottico globale è la nuova agorà dove si fa la
politica semplificata, la pseudo democrazia partecipata, la democrazia
del like, di cui si sono impossessati gli idiot savant Trump Salvini Di Maio.
L’altro ieri, una mia amica che ha votato per gli idiot savant
creati dal comico Grillo mi rimprovera la mia anarchia: è il tuo non
voto che ha determinato l’ascesa del ministro razzista e fascista. E
difendeva i suoi eletti, meritevoli di aver abolito l’aereo con cui
Renzi era andato a vedere una partita. Ma non c’è mai andato! È un news
fake, informati, ma esci dal panottico, cazzo!
E mia moglie, dopo che lei è andata via (con lo smartphone in mano, e
per strada avrà senz’altro distribuito una decina di like a qualche
post farlocco): lo vedi? Faccio bene io, che non sono su Facebook, che
resisto ai social network tutti: Twitter, Instagram eccetera?
Ma sei un’idiota allora! Ecco perché ti salvi! Davvero, non ti
offendere, non sto scherzando. Sai che dice il filosofo Han? Dice che solo se sei un idiota ti salvi.
Aspetta, capiscimi. Perché tra tutti questi tipi diversamente idioti ci
confondiamo. Non quel tipo di idiota di cui abbiamo detto finora. Han
dice: “Una funzione della filosofia è giocare a fare l’idiota”. La
filosofia, e sembra controintuitivo, è fatta da idioti. Ma un altro tipo
di idioti rispetto a questi che non sanno ma credono di sapere. “Ogni
filosofo che realizza un nuovo idioma, un nuovo linguaggio un nuovo
pensiero sarà necessariamente un idiota”. Socrate, per dire, sa però
afferma di sapere di non sapere, se così è, è un idiota. Pier Aldo
Rovatti, per dire, che sostiene la forza del pensiero debole,
dell’epochè, del rifuggire i saperi forti, le certezze, le idee potenti,
e propone la pratica di un’etica minima, è un idiota. Franco Basaglia,
colui che secondo quel grafomane di Vittorino Andreoli “non sa la
psichiatria” – e, ammesso sia vero, forse è per questo che l’ha saputa
sovvertire – è un idiota. L’idiot de famille, si definiva lui
proprio. Oggi – ancora Han – “la figura dell’outsider, del folle o
dell’idiota sembra essere scomparsa dalla società”, perché “la
connessione digitale”, l’esserci di nostra sponte internati in questo
panottico digitale ha aumentato straordinariamente la “coercizione alla
conformità”. L’idiotismo, la riluttanza a questa corsa all’internamento
digitale, è forse l’ultima “pratica di libertà” rimastaci. L’idiota è
colui che non si connette e dunque non si informa al modo
dell’informazione totalitaria della rete o dei social. Il non
trasparente, colui che non sciama nella rete.
In questi giorni tutti, nei social italiani, come pecore digitali,
belano intorno ad alcuni argomenti. Tra questi i migranti: gli invasori,
i barbari, difenderci dai barbari, casa loro, casa nostra, pacchia,
finita la pacchia, così via. Aizzati da un ministro basico che maneggia
ripeto con talento da idiot savant i social e la comunicazione fatta di
slogan. È la nuova psicologia delle folle. Però siamo ormai oltre “l’età
delle folle” descritta da Gustave Le Bon, perché siamo nell’epoca del
gregge digitale, o, per dirla sempre con Han, nell’epoca dello sciame
digitale. Ma lo sciame non è folla. I connessi sono soli pur sentendosi
insieme. L’uomo digitale resta solo, è un hikikomori, uno schizoide, pur
sentendosi parte delle cinquecento o cinquemila amicizie o contatti che
il social mondiale ti mette a disposizione. I greggi digitali, gli
sciami digitali non sanno marciare, non sanno organizzare rivolte, sanno
al massimo indignarsi per la causa del momento – ora sono i migranti,
c’è chi li difende e chi li vorrebbe morti anzi ha già cominciato ad
ammazzarli, domani saranno di nuovo i vaccini, e così via – sanno
indignarsi mediante quella scarica emotiva che rapidamente si esaurisce,
la chiamano shitstorm, la tempesta di merda.
L’idiota disconnesso non lo sa cos’è una shitstorm.
Non ne è stato contaminato. Non ne ha mai subito gli schizzi
dell’eloquio semplice a base di merda di un Salvini o dei suoi sgherri.
L’idiota disconnesso, non sa, non bela. L’idiota disconnesso, non comunica, non è raggiungibile. L’idiota a-digitale è apolide. È in una sorta di esilio. Potrebbe perfino non esistere, nonostante l’anagrafe. È in una dimensione pirandelliana.
È l’idiota disconnesso che, nell’era della trasparenza e del panottico digitale, forse saprà organizzare, un giorno, una vera rivolta.
Per cui, in questa sorta di nosologia degli idioti, tiriamo le somme: ci sono tre tipi di idioti, in ballo. L’idiot savant che ha creato il panottico digitale, che ha inventato il gioco (Zuckerberg, per non far nomi); gli idiot savant
che sanno meglio di tutti giocare il gioco della neolingua e della
psicologia delle folle che il panottico determina (Trump, Salvini, per
fare qualche esempio). Infine l’idiota disconnesso che non conosce il gioco non gioca ma organizza la rivolta. È sempre un idiota, ma un altro tipo di idiota, e sarà lui il nuovo uomo in rivolta.
Fonte
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