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22/08/2018

Genova - Due o tre cose che so (di lei)


di Franco Fratini

In molti – compagni, filistei, testimoni – hanno percepito il carattere simbolico a diversi livelli del crollo del viadotto sul Polcevera a Genova.

È destino che ciò che accade a Genova abbia spesso un carattere di premonizione di epoche che altrove tardano a rivelarsi oppure di suggello ad altre che si trascinano oltre la loro perdita di senso. Perché questo succeda, è già stato detto, scritto e anche cantato, al di fuori di ogni folklore locale o retorica campanilistica: l’estrema angustia dello spazio disponibile unitamente a una posizione geografica e politica assolutamente strategica rendono unica o perlomeno rara l’esperienza di viverci attivamente. Qui a Genova non c’è altra scelta da fare che approfondire radicalmente, fino alle estreme conseguenze e fino al loro esaurimento, le opzioni disponibili – senza che a soccorso ne possano giungere altre dalla “frontiera” dello sviluppo o, come si diceva un tempo, del progresso.

L’area su cui insistono oggi i resti del viadotto è la foce del Polcevera, il luogo della grande industrializzazione cittadina nei settori degli armamenti, del siderurgico e del meccanico, decisa alla fine dell’ottocento dalla Sinistra Storica: è il territorio della frazione di Campi dove trovano sede l’Ansaldo, la Siac e infine il grande raccordo ferroviario (quello della deportazione in Germania di quasi 1.500 operai nel giugno 1944). Nel 1961 l’Italsider incorpora la Siac e nel 1963 inizia la costruzione del viadotto sul Polcevera. L’epoca è caratterizzata da una grande esaltazione sviluppista che coinvolge tutte le parti sociali: l’Italia sta scalando posizioni nella competizione europea per la produzione siderurgica, scavalcando il Benelux e avvicinando la Francia e l’inarrivabile Germania: i bollettini Italsider arrivano a casa di tutti i dipendenti, operai e impiegati, che nella maggioranza vivono tra Sestri Ponente e Rivarolo, in mezzo al fumo delle colate e degli altoforni Martin-Siemens; tutti respiriamo a pieni polmoni, con ebbrezza, il gas incolore del progresso dentro lo stato-piano trionfante. La costruzione del grande ponte, necessaria per far fronte allo sviluppo del traffico privato su gomma, (non ancora di quello delle merci, il container non è ancora arrivato a metter le ruote alle navi[1]) spezza in due un quartiere per tre anni: uno dei tre cavalletti giganti viene costruito proprio sulla strada intitolata al partigiano gappista Walter Fillak, che è l’unica via di collegamento tra Sampierdarena e Rivarolo. Per tre anni i veicoli sono obbligati a circumnavigare i palazzi a lato della strada aggirando l’enorme cantiere, mentre le gigantesche diagonali del cavalletto irrompono negli ultimi piani dei palazzi e penetrano stabilmente nei cornicioni, senza alcuna resistenza. Si sostiene già all’epoca, prima della sua inaugurazione: quello sul Polcevera sarà il viadotto sospeso più lungo d’Europa, un altro trionfo dell’ingegneria e dell’impiantistica italiana, e sarà un’opera d’arte; deve essere considerato un onore convivere, anzi far parte di quella struttura.

Appena pochi anni dopo la realizzazione del ponte entra in crisi verticale e irreversibile il comparto siderurgico[2]; ma la strenua lotta per la “difesa del posto del lavoro”, obiettivo che a Genova si presenta assieme – si badi bene – come operaio, istituzionale e curiale, fa sì che la vicenda della crisi si protragga per oltre quaranta anni, peraltro senza che sia stata fatta alcuna inchiesta sulla percentuale di morti per malattie polmonari nell’area dello stabilimento a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso. Sono nati nel frattempo i comitati di quartiere contro l’inquinamento, ma la nuova sensibilità ambientale ha dovuto fare i conti con la necessità del sistema locale oligarchico-privato di perpetuare il discorso politico della propria rappresentanza attraverso il mantenimento di simulacri di classe operaia, scelta che presuppone il fatto che la questione non venga affrontata nei termini più ovvi del mantenimento del reddito per gli addetti e di grande riconversione strutturale delle attività. Si potrebbe dire a questo proposito: crisi dello stato-piano senza autonomia di classe a Genova. Cosicché le vaste aree ex Italsider, invece di essere interessate da una radicale trasformazione con l’insediamento di nuove e diverse attività produttive, di studio e di ricerca, vengono regalate[3] a un industriale bresciano a condizione che costui continui la tradizione siderurgica genovese, a prevalente beneficio dell’ex partito di maggioranza relativa – e incidentalmente delle mosche cocchiere di quel partito parodia chiamato Lotta Comunista[4].

Anche il ponte, quello che ora tutti chiamano “Ponte Morandi”, ha cominciato da subito a degradarsi e ha continuato a farlo negli anni successivi, in quanto realizzato con tecniche costruttive avveniristiche ma non collaudate (gli stralli in cemento armato pre-compresso). Ogni mese di ogni anno a partire dagli anni settanta il ponte è stato oggetto di manutenzioni parziali e ricorrenti – ma mai definitive, visto che un nuovo ingente appalto era stato previsto a breve. Toppe, cuci-scuci e rabberciamenti per fronteggiare il suo evidente e progressivo degrado – ma non si è mai e poi mai detto che il viadotto andava demolito e ricostruito, anche da parte dei sostenitori di altre grandi infrastrutture, come la cosiddetta “bretella” o “gronda”, che ne avrebbero ridotto l’utilizzo. Il punto è che era un’opera d’arte (sic) e che apparteneva all’epoca dell’ultima grandeur genovese, quella della industrializzazione pesante e del mito della classe operaia, baluardo antifascista, a pochi anni di distanza dal 30 giugno. Per tutti, noi compresi, era un simbolo intoccabile, non l’unico. Che si debba attendere il crollo improvviso di una struttura fisica, con il suo carico di morti e disagi a lunghissimo termine per persone, cose e socialità, per poterne decretare la fine, è un fatto misterioso – quando i presupposti del cedimento siano così noti e conclamati. Del resto, anche i presupposti di una alluvione sono noti e presenti da decenni, ma i lavori di prevenzione non si sono conclusi neppure a distanza di quattro e sette anni dalle ultime alluvioni. Questi sono gli effetti di una perversa concezione dell’appalto pubblico che con il codice degli appalti ha normato in ogni articolo il fumus di mafia e di mazzette, generando altre e più raffinate forme di malaffare, nonché della completa de-responsabilizzazione per via giudiziaria delle funzioni pubbliche, cui l’opinione pubblica si è assuefatta. Di fatto, lavori di manutenzione ingenti sul ponte erano previsti, ma avrebbero dovuto andare a gara.

Ma è probabilmente l’intera concezione dell’utilizzo del cemento armato come materiale di costruzione rapido nella messa in opera e a basso costo che va posta in discussione; in fondo si tratta di un materiale di recente introduzione ed evidentemente effimero e poco affidabile (oltre ad essere infestante e molto brutto, anche in quanto rudere). Da questo punto di vista la vicenda del viadotto sul Polcevera è una perfetta metafora della rappresentanza politica della città e, per estensione, di questo paese e probabilmente non solo (pure l’Italia come premonizione o suggello di epoche non ha scherzato negli ultimi cento anni). Anche la storica rappresentanza politica della città è definitivamente collassata, con le sue vecchie complicità e le sue opache figure di falso rinnovamento: è accaduto con le elezioni amministrative del giugno 2017 ma è nuovamente emerso quando la folla ai funerali di stato delle vittime del crollo ha applaudito oltre che il presidente e i membri del nuovo governo, anche i nuovi esponenti della giunta, ma ha fischiato gli esponenti della Sinistra (non Storica) lì intervenuti: qualsiasi cosa costoro dicano o pensino nella città che fu operaia, essi sono spacciati. Ma, per essere chiari fino in fondo, a essere spacciati sono anche coloro che agitano le vecchie bandiere nell’illusione che al loro abbandono debba essere addebitata la crisi della cosiddetta sinistra. Eppure fino al 2015 il “disciolto” partito comunista localmente disponeva delle sorti della economia locale, agendo in nome e per conto della vecchia classe operaia e dei suoi figli, e fino al giugno dello scorso anno un sindaco di tradizione comunista aveva tentato l’impossibile manutenzione di un sistema di idee scaduto e conservativo al limite del passatismo. E ora, dopo che questo rigido sistema che per decenni si è ottusamente opposto al cambiamento, è improvvisamente collassato, siamo a pochi passi dalla barbarie e dall’arretramento generale della società.**

Per quanto riguarda la “sinistra”, esiziale è stata la scelta della “rendita politica” operaia e più in generale della difesa del “posto di lavoro” anziché della garanzia di reddito per i precarizzati provenienti da settori industriali obsoleti e per i precari; è stata impressionante la cecità, che purtroppo coinvolge anche settori della militanza critica o antagonista, di fronte alla nuova composizione di classe che è emersa a seguito dei profondi cambiamenti intervenuti nella struttura del lavoro negli ultimi decenni. Ed è stato desolante l’appiattimento su una prospettiva sindacale che ne è conseguito. Senza considerare il fatto che, sotto il profilo della difesa e dell’incremento dei “posti di lavoro”, da sempre il comitato di affari di turno del capitale è vincente, e sono molto più affidabili, agli occhi della classe operaia (intendo ciò che è rimasto di quel soggetto politico, quella residua sindacalizzata), il “trumpismo” negli USA e il “leghismo” in Italia, verso i quali di fatto si sono spostati i consensi elettorali. Altrettanto fatale si è rivelata la perdita progressiva di focus della progettualità politica di classe, che per secoli si è occupata delle condizioni materiali dei corpi (fame, sete, pulizia, servizi) e che ora, essendo la soddisfazione di tali condizioni alla portata di molti, gira a vuoto come una vite spanata: ha senso la difesa di “conquiste” se queste si limitano a gonfiare gli stomaci e a svuotare i cervelli? Se il progetto si riassume nella manutenzione per via sindacale – a ogni livello – dei corpi e non già e non ancora nella ricerca e nella soddisfazione della mente (paesaggio, immaginazione e speculazione mentale, accoglienza)? Di un congedo da questi vecchi orizzonti c’è bisogno estremo. La finanziarizzazione, dopo la fine del movimento operaio, ci ha posto di fronte a un rapporto di capitale e a oligarchie privato-pubbliche capaci solo di intendere e di volere investimenti e risultati a breve, lo short-termism domina incontrastato, con il suo respiro corto ed affrettato, con le sue sempre più asfittiche “trimestrali”. Oggi lavorare su progetti di lungo periodo, utilizzando le nuove tecniche di impresa rovesciate di senso – dal mantenimento in senso alto dell’ambiente alla gestione delle migrazioni, per quanto riguarda questo paese – potrebbe tornare ad essere rivoluzionario.

NOTE

[1]Le misure del container ISO (acronimo di International Organization for Standardization) sono state stabilite in sede internazionale nel 1967.

[2]Alla fine degli anni settanta si rendere necessaria a livello europeo la riduzione della produzione siderurgica, la fine dei sussidi pubblici al settore e un drastico ridimensionamento del numero degli addetti. Oggi più del 60% della produzione è realizzato in paese asiatici, mentre l’Europa a 28 paesi supera di poco il 20%.***

[3] Con l’ “ATTO MODIFICATIVO ALL’ACCORDO DI PROGRAMMA 29.11.1999” stipulato l’8 ottobre 2005, auspici l’allora Sindaco di Genova Giuseppe Pericu e il Presidente della Regione Claudio Burlando.

[4] Lotta Comunista a Genova ha conquistato i vertici della FIOM, oltre che quelli della Compagnia Lavoratori Merci Varie in Porto.

Immagine in apertura: fotografia di Michele Guyot Bourg, le case sotto il ponte Morandi, anni Ottanta. Il reportage si intitola “Vivere sotto una cupa minaccia”

Fonte

** Bell'articolo, però va detto che la concezione che l'autore ha di sinistra comunista è quanto meno opinabile.

*** Anche questo ampiamente opinabile. Anzitutto nell'allora CEE non si rendeva affatto necessaria, ma si impose la riduzione della produzione siderurgica in quanto il capitale, in piena crisi globale di accumulazione, aveva identificato una ripartenza della stessa nella contrazione della sovracapacità produttiva, da operarsi sia con la delocalizzazione nei paesi allora emergenti (Cina e India appunto), sia con la distruzione vera e propria di capacità industriale. Questo secondo più infausto scenario è quello che fu scelto per l'industria italiana (in particolare quella statale) e che una intera classe dirigente di quaquaraquà.

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