di Paolo Flores d'Arcais
Con temeraria sconsideratezza, sulla tragedia di Genova provo ad usare la logica anziché il riflesso pavloviano d’establishment.
Perciò, delle due l’una: la caduta del ponte Morandi o è una fatalità o è un crimine per omissione. Francesco Cozzi, procuratore capo di Genova, ha escluso la fatalità. Renzo Piano, architetto di Genova noto in tutto il mondo, ha escluso la fatalità.
Perciò, delle due l’una: o Piano e Cozzi sono esempi di delittuosa cialtroneria professionale, o criminale per omissione è stata la condotta del gestore del ponte Morandi. Ma non c’è un solo giornale, canale televisivo, commento radiofonico, tra quelli che pure del riflesso pavloviano d’establishment hanno intonato il sabba e danzato il tedeum, ad aver mosso il benché minimo rilievo, o accenno, o diffidenza, sulla competenza professionale del procuratore e dell’architetto.
Deinde: avventurandosi nel mondo non impervio del sillogismo, avrebbero dovuto trarne le conseguenze: un crimine omissivo è stato compiuto, che ha tranciato decine di esistenze, i famosi tre gradi di giudizio dovranno decidere quali nomi e cognomi e quanto a lungo dovranno essere ospitati nel sovraffollato sistema carcerario, ma il crimine omissivo è evidente, e compito della politica e del giornalismo è quello di fare immediatamente la loro parte, autonomamente dalla magistratura.
E invece.
La pretesa di aspettare il verdetto della magistratura è quanto di più bizzarro e contraddittorio. La magistratura assolve o manda in galera, la politica prende decisioni legislative e amministrative, il giornalismo sviluppa le sue inchieste senza guardare in faccia a nessuno, portando alla luce fatti anche da fonti riservate e che non rivelerà.
Vedremo cosa farà la politica. Il governo ovviamente ha annunciato che la concessione ad “Autostrade per l’Italia” deve essere ritirata, ma il ministro Toninelli è partito malissimo nominando due commissari in smaccato conflitto d’interessi (bastava che il tempo di una esternazione mediatica lo dedicasse a una ricerca su google), e il conflitto paralizzante tra M5S e Lega sull’argomento è il peggio in agguato (ma più probabilmente in fieri).
Sul giornalismo si può invece già dire, e sono considerazioni che fanno male e costringono al fiele. Anziché quel poco di Aristotele che per chiunque ragioni dovrebbe essere una seconda natura, tutti i mass media hanno intimato di “non demonizzare il concessionario”, di “non cercare capri espiatori” e tutta la panoplia del “troncare sopire”. Operazione nauseante, perché è possibile che vi siano altri colpevoli per omissione (passati governi, tecnici di ministeri e altri apparati amministrativi …), e magari il giornalismo frugando negli archivi può aiutare contro la memoria troppo claudicante, ma la responsabilità di “Autostrade per l’Italia” ha evidenza tautologica, che nessuna responsabilità aggiuntiva può ingentilire.
L’omertà d’establishment (l’opposto esatto del giornalismo, che, per dirla con un liberista conservatore come Joseph Pulitzer, “è l’unico grande potere organizzato a sostenere la causa della virtù civica” per contrastare “la stupefacente crescita del potere delle grandi imprese e l’enorme aumento dei patrimoni individuali”) è arrivata all’impudicizia somma di riscrivere per alcuni giorni il primo comandamento e non pronunciare il nome di Benetton. Il soprassalto d’onestà intellettuale di un monumento al “sopire troncare” come Gad Lerner ha confessato la sudditanza morale, psicologica, politica e civile dei giornalisti mainstream di fronte al potere del denaro e al lusso del profitto. Nessuno del suo mondo, cui si rivolgeva, ha cosparso il proprio capo di un solo granello di cenere, nessuno ha battuto ciglio. Gettate laviche di silenzio.
Io non leggo tutti i quotidiani, ma la mia “mazzetta” (ormai elettronica) è alquanto pingue, e sulla strage di Genova ho trovato una sola testata che abbia fatto del giornalismo: Il Fatto quotidiano. [il dott. Belpietro mi segnala che anche il suo giornale, "La Verità", ha citato con evidenza e stigma i Benetton. Gliene do volentieri atto. In effetti il suo quotidiano non fa parte della mia mazzetta]. Chiunque abbia ancora un’oncia di buonafede dovrebbe riconoscerlo e prendere esempio. E lo dico con dolore, perché a questo giornale, che continua a essere imprescindibile per le notizie che riporta e altri dimenticano, non ho più potuto collaborare per via di un’invalicabile questione morale e anzi antropologica: la presenza di una firma “orgogliosamente nazista” (inoppugnabile definizione di Christian Rocca, suo annoso compagno di banco al Foglio di Giuliano Ferrara).
I morti di Genova dovrebbero poi costringere chiunque non sia ormai mitridatizzato nel cinismo d’establishment a riproporre in modo radicale il problema del ruolo pubblico nell’economia e a ripercorrere, col senso critico che è mancato, la storia delle privatizzazioni.
Perché mai un bene pubblico affidato a un’autorità pubblica dovrebbe essere gestito peggio che da un privato (che riesce a lucrarvi profitti più che obesi)? Basta che il potere non sia corrotto, e scelga i manager per efficienza e moralità. Arrendersi al pregiudizio che la gestione privata è ontologicamente migliore significa confessare una vocazione insopprimibile alla nolontà di una politica nemica della corruzione. Un governo che voglia davvero voltare pagina contro la malapolitica degli ultimi trent’anni dovrebbe avere la gestione pubblica, massimamente onesta ed efficiente, come propria stella polare e obiettivo irrinunciabile, da realizzare un tassello al giorno.
Le privatizzazioni sono state realizzate e giustificate da un “centrosinistra” che di sinistra non aveva più neppure il fantasma, ma era ormai avvitato nella sindrome confessata da Gad Lerner e ancora imboscata dai suoi pari. Ciampi, Draghi, Amato, Savona (sì, proprio quello che Di Maio e Salvini hanno fatto garrire come bandiera del nuovo!), Prodi, D’Alema, Bersani, Letta Enrico, per emolumenti, convinzioni e frequentazioni (o anelito alle frequentazioni) – viene prima l’uovo o la gallina? – erano ormai officianti della Mammona capitalistico-finanziaria viranti al pasdaran.
La svendita del patrimonio nazionale si scatena nel 1992 (casualmente l’anno di Mani Pulite). Allora, come sintetizzato in un documentato articolo di Lettera 43 di cinque anni fa, “lo Stato imprenditore aveva in carico il 16% della forza lavoro del Paese, controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni, aerei, autostrade), la telefonia, le reti delle utility (acqua, elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della chimica, il principale editore del Paese (la Rai). Eppoi, assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, fibre, impiantistica, vetro, pubblicità, spettacolo, alimentare. Persino supermercati, alberghi e agenzie di viaggi”.
Un potere onesto avrebbe potuto con queste risorse rendere l’Italia in corsa per il premio Bengodi. Ma i politici, e i media berlusconiani e di governo, cominciarono a bombardare Mani Pulite e magistrati antimafia (ultimo ma certo not least, anzi, Giorgio Napolitano, il peggior presidente della storia Repubblicana), anziché a ripulire le stalle di Augia.
Molto spesso si è trattato di sfrontate regalie. E comunque mai, per le risorse principali, la privatizzazione è stata anche liberalizzazione, ma mero trasferimento di monopolio dallo Stato al privato, cui veniva concesso sia il servizio che l’infrastruttura che il controllo su sé medesimo per adempimenti e qualità.
Essendo partiti con Aristotele, possiamo concludere (provvisoriamente) con Kant. Cosa possiamo sperare? Dal governo ben poco. In realtà su ogni questione importante assistiamo a una guerriglia permanente di interviste, tweet, e altre esibizioni. Perché Fico e Salvini sono incompatibili quasi su tutto, e Di Maio è un patetico sor Tentenna. Quando si arriva al dunque, e sulla proprietà e gestione dei beni in concessione ci siamo arrivati (anche quelle delle telecomunicazioni e televisioni, se non si vuole restare subalterni perfino a Berlusconi) una scelta esclude l’altra, e anche l’impotenza è una scelta (di sudditanza all’establishment). Quanto all’opposizione (parola davvero pantagruelica per il Pd), anche solo evocare il verbo sperare significa precipitare già nella “contradictio in adiecto”. L’unica attività di cui si mostrano capaci le Boldrini e le Boschi è sfilare sul red carpet della sofferenza: rivoltante. I Renzi invece sbruffoneggiano in lacrimevoli tentativi di imitare Alberto Angela: increscioso.
Resterebbe il potere dell’opinione, il giornalismo come “paladino del benessere collettivo”, dove “il cuore e l’anima di un giornale albergano nel suo senso morale, nel suo coraggio, nella sua integrità, nella sua umanità, nella sua solidarietà verso gli oppressi, nella sua indipendenza, nella sua dedizione al bene comune”, e dove il giornalista “deve essere conosciuto come uno che preferirebbe rassegnare le dimissioni piuttosto che sacrificare i propri princìpi a qualche interesse economico. [Ogni giornalista] se non riesce a impedire che la stampa si degradi può comunque rifiutarsi di prendere personalmente parte al degrado”.
Pulitzer aveva perfettamente ragione. Il giornalismo, quando non è così, non è giornalismo. È evidente anche ai più ottimisti che oggi, per trovarlo, servirebbero schiere di Diogene con lanterna.
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