Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

29/08/2018

Marchionne, la vera storia

di Carlo Formenti

Non è il solo: la morte di un altro boss dell’industria contemporanea – il guru della Apple Steve Jobs – è stata celebrata con lodi funebri degne d’un faraone egizio. Jobs non era uno stinco di santo. Al contrario: è stato un manager cinico e spietato, pronto a calpestare tutto e tutti pur di realizzare i propri obiettivi ma, almeno, ha inventato prodotti innovativi che hanno segnato un’epoca. L’uomo di cui stiamo parlando, al contrario, non ha inventato nulla: si è limitato a rispolverare pratiche di repressione antisindacale che nel nostro Paese non si vedevano dagli anni Cinquanta, aggiornandole con i metodi importati dagli Stati Uniti, mentre l’altro suo “merito” è stato pompare denaro pubblico italiano, per poi scippare al Paese il controllo sulla più grande impresa che il nostro sistema economico abbia mai generato.

Stiamo parlando, ovviamente, della morte del “compianto” – da pagine e pagine di “coccodrilli” che hanno iniziato a uscire prima ancora dell’annuncio ufficiale della dipartita, oltre che dal coro unanime di politici di ogni colore – Sergio Marchionne, l’uomo che ha “salvato” la Fiat, o meglio, che ha salvato i soldi degli azionisti, visto che la Fiat in quanto tale non esiste più. Ma i suoi dipendenti, e più in generale i cittadini italiani, hanno valide ragioni per rimpiangerlo? Ad alimentare qualche sano dubbio in merito, e ad aprire una crepa nella piramide di celebrazioni che gli sono state tributate, è una lunga, documentata e spietata indagine giornalistica che l’editore Mimesis ha appena dato alle stampe: “L’era Marchionne. Dalla crisi all’americanizzazione della Fiat” di Maria Elena Scandaliato.

Negli anni Cinquanta Vittorio Valletta, allora a capo della Fiat, si distinse per la durezza con cui tentò di estirpare dalla fabbrica comunisti e sindacalisti della Fiom, licenziandoli appena possibile o isolandoli in reparti confino. Nel 1958, in occasione delle elezioni della commissione interna, ricorda la Scandaliato, fece affiggere ai muri di Torino un manifesto nel quale si leggeva “presentarsi candidato o scrutatore per le liste Fiom significa mettersi in lista per il licenziamento”, mentre in un’altra circostanza ebbe a proferire la seguente, lapidaria sentenza con cui chiariva qual era, a suo parere, il rapporto fra il Paese e i padroni di cui si autoeleggeva portavoce: “se va bene alla Fiat va bene all’Italia”.

Per emularne le gesta, Marchionne ha fatto meno fatica, visto che operava in un Paese in cui il peso numerico e politico della classe operaia era assai minore che in quegli anni lontani, nel quale il Pci era morto e sepolto da tempo e nemmeno la Fiom si sentiva più tanto bene. Ecco perché non gli è stato troppo difficile estromettere a più riprese la Fiom dal tavolo delle trattative e riammetterla dopo averla ridotta a più miti consigli. Così come non gli è stato troppo difficile imporre una sterzata di centottanta gradi al nostro sistema di relazioni industriali, in base al principio, scrive la Scandaliato anagrammando Valletta, “se va bene alla Fiat se lo farà andar bene anche l’Italia”.
Parliamo degli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008, parliamo della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e della “normalizzazione” di quello di Pomigliano. Eppure, non più d’un paio di anni prima, Marchionne si era guadagnato il plauso delle sinistre con dichiarazioni “illuminate”: aveva ammesso che il costo del lavoro in Fiat non incideva più del 6/7% per cui non aveva senso andare a cercare altrove forza lavoro a basso costo rinunciando al prezioso capitale umano concentrato nell’azienda, e aveva detto anche che ciò che differenziava l’Europa dagli Stati Uniti era il concetto di responsabilità sociale d’impresa. Al punto che Fausto Bertinotti, intervistato da Paolo Mieli, si lasciò scappare che bisognava puntare sui “borghesi buoni” come il nostro, che rifiutano l’equazione fra impresa efficiente e licenziamenti; per tacere delle lodi tributategli dal sindaco Chiamparino, amico personale e compagno di partite a carte dell’illustre manager.

Purtroppo con la crisi del 2008 la musica cambia, anche perché la marea di quattrini che lo Stato gli ha regalato sotto forma di incentivi alla rottamazione non bastano più a drogare un mercato dell’auto depresso dalla scarsa capacità di acquisto delle classi subalterne. Cambia la musica e cambia la canzone, con la voce del padrone che si fa stridula e aggressiva: Marchionne comincia a dire fuori dai denti (addio florilegi sul capitale umano) che se in Italia non ci sono le condizioni per investire la Fiat andrà altrove, perché “il mercato non aspetta che si creino le condizioni”. Quali condizioni? Quelle che Obama gli ha offerto per salvare la Chrysler: congelamento dei salari, nessuno sciopero fino al 2015, nuovi assunti pagati la metà dei vecchi, sindacati obbligati ad acquistare azioni Chrysler per i propri fondi pensione (se Chrysler va male niente pensione!), il tutto condito dai miliardi di dollari che lo Stato americano elargisce in cambio di niente (mentre quei pezzenti di amministratori italiani, per allargare la borsa, pretendono garanzie sui livelli di occupazione).

Insomma Marchionne vuole importare in Italia il modello americano e, anche non ottiene tutto, un bel po’ di cosette le spunta, a partire dall’appoggio del ministro Sacconi, che pone le basi per la liquidazione dell’articolo 18 – che toccherà a Renzi completare – e costringe i sindacati ad accettare di fatto lo svuotamento dei contratti nazionali. Dopodiché Marchionne ci mette del suo, vedi l’uscita della Fiat da Confindustria (forse la massima espressione della sua “creatività” imprenditoriale). Quel che è certo è che, dopo il passaggio di Attila/Marchionne, il nostro sistema delle relazioni industriali non sarà più quello di prima; la finanziarizzazione verrà universalmente accettata come una normale (se non l’unica) modalità di creare profitto (i risultati finanziari della Fiat sono ottimi, quelli del settore auto meno, e comunque meglio negli Usa che in Italia, e del resto contano sempre meno); in Fiat – ora Fca –, da quando non si applica il contratto nazionale ogni lavoratore ha perso in media 40.000 euro; il lavoro, in barba alla Costituzione, non è più considerato un diritto ma, come chiarito dalla ministra Fornero, “bisogna guadagnarselo, anche attraverso il sacrificio”; il sindacato, da organo conflittuale, si è progressivamente trasformato in “sindacato dei servizi”; a Pomigliano i ritmi di lavoro si sono intensificati del 15%, mentre nello stabilimento di Melfi si è realizzata una enclave “polacca” in termini di retribuzione, diritti e condizioni di lavoro.

Tutto ciò ha indotto la sinistra a cambiare idea sul manager “operaio” in maglioncino? Per nulla: nel 2010 il piano Fiat viene accolto con un imbarazzante coro di elogi dai vari Chiamparino e Fassino, il quale si spinge a dire che, se non ci fosse stato Marchionne, la Fiat non esisterebbe più (in effetti come impresa italiana non esiste più, ma non viviamo forse nell’era della globalizzazione, in cui i discorsi sull’interesse nazionale suonano anacronistici?). Quanto ad Adriano Sofri, segnala impietosamente la Scandaliato, commentando gli scontri fra sindacati di base e sindacati “responsabili” nel corso di una manifestazione nazionale dei dipendenti Fiat, definisce i primi “una minoranza manesca che ambisce solo a divenire un po’ meno minoranza e un po’ più manesca”. Era lecito aspettarsi, non dico prese di distanza, ma almeno qualche timido distinguo in occasione della morte dell’eroe? Non era lecito aspettarseli né ci sono stati.

Inutile sottolineare come tutto ciò rafforzi i motivi per cui i cittadini italiani odiano sempre più le élite politiche, economiche e mediatiche e votano compatti per i “populisti”, “a prescindere” (avrebbe detto Totò) da ogni considerazione ideologica. Ne aggiungo uno per concludere: Marchionne guadagnava 453 volte lo stipendio medio dei suoi dipendenti (escluse le stock option): Scandaloso? No replicano i menestrelli di regime, chi si adonta per queste disuguaglianze è un invidioso che rinnega il principio del merito: a decidere chi guadagna quanto sono i “mercati”.

A Piketty il merito di aver smascherato la cialtronaggine di tale argomento: se le disuguaglianze sono cresciute del mille e più per cento negli ultimi vent’anni non è perché il merito dei manager è cresciuto in proporzione (chi ha guadagnato di più sono proprio quelli che hanno bruciato miliardi con operazioni folli – a volte criminali – che hanno provocato la crisi del 2008 e, invece di finire in galera, hanno ricevuto gli aiuti di Stato che ne hanno salvato le aziende “troppo grandi per fallire”), bensì perché a decidere quanto “meritano” di guadagnare sono loro stessi.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento