15/08/2018
Nazionalizzare è proprio il minimo
Quando ci sono tragedie come quella di Genova è il momento di parlare, non di tacere. Il silenzio possono chiederlo solo i complici.
Del ponte Morandi sappiamo tutto. Basta mettere in fila documenti e valutazioni che erano conosciute solo agli addetti ai lavori e a qualche amministratore con orecchie e occhi tappati. Stanno venendo fuori uno alla volta, come i difetti strutturali di un sistema costruito per far soldi facili. E’ l’Italia dei palazzinari a venir giù come un castello di cartone, e solo ora “si scopre” che buona parte delle grandi opere che hanno cementificato il paese e ingigantito i portafogli dei costruttori sono “a scadenza”.
Sappiamo che le strutture portanti del ponte Morandi – dal nome dell’architetto che l’ha disegnato – sono state costruite in cemento armato e non in acciaio, come il “fratello” ponte di Brooklyn, costruito 80 anni prima. E così quasi tutta la rete autostradale italiana.
Sappiamo che “negli anni Sessanta non si metteva in conto che il calcestruzzo si degrada e poi collassa. Cinquant’anni fa c’era una fiducia illimitata nel cemento armato. Si credeva fosse eterno. Invece si è capito che dura solo qualche decennio”. E anche quel geniale architetto non aveva calcolato i carichi che l’aumento esponenziale del traffico avrebbe modificato negli anni. “Quello di cui non si teneva in conto all’epoca è che, con le continue vibrazioni del traffico, il cemento si microfessura, e lascia passare l’aria, che raggiunge la struttura interna di metallo e la fa ossidare. Viene quindi meno la funzione originaria del cemento, che dovrebbe proteggere l’acciaio. Il ponte per questa ragione ha sempre richiesto grossi lavori di manutenzione. Era molto costoso da gestire”.
Ci può stare, anche la conoscenza della struttura dei materiali evolve col tempo e gli studi. Ma ci sono stati almeno 20 anni per cominciare a rivedere – e rifare con altre tecniche e materiali – perlomeno le strutture portanti più impegnative o pericolose.
Sappiamo però che nel 1999 ci fu “una lenzuolata di privatizzazioni e liberalizzazioni”, in cui tutta la rete autostradale italiana fu consegnata “in concessione” a società private. Si diceva che avrebbero gestito meglio dello Stato, con più efficienza e costi minori. La parte del leone la fece Benetton, famiglia di imprenditori fin lì nota per la sua linea di abbigliamento, capace di farsi una pubblicità liberal (“united colors of Benetton”) mentre sfruttava e faceva massacrare dai gorilla alcune popolazioni da cui traeva le materie prime.
Sappiamo che le tariffe autostradali aumentano ogni anno, a un tasso diverse volte superiore a quello dell’inflazione. “Adeguamenti” che i “gestori” autostradali chiedono ai governi e che tutti i governi puntualmente concedono. In Germania e Gran Bretagna – certamente paesi “non arretrati” – sono gratuite; in tutti gli altri paesi c’è il sistema del “bollino” per cui si paga in base al tempo (settimane, mesi, anno), con il record detenuto dall’Austria (meno di 80 euro... l’anno).
Sappiamo che il profitto netto annuale di queste società è superiore al “prezzo” che hanno pagato allo Stato per avere la concessione.
Sappiamo che la manutenzione è a loro carico e dunque è loro responsabilità qualsiasi inconveniente. E questo, nella foto, è lo stato di altri piloni dell’A12, nei pressi di Sestri Levante.
Sappiamo che in tutta Europa la gestione è pubblica, com’è ovvio che sia per un monopolio naturale su cui non è possibile alcun tipo di concorrenza (quale privato costruirà mai un’autostrada alternativa ad una esistente?).
Sappiamo che il sistema delle “grandi opere” rappresenta un business colossale in cui si mettono soldi pubblici – nazionali ed europei – per realizzare infrastrutture qualche volta necessarie, altre volte completamente inutili (la Tav Torino-Lione è la più famosa), in cui l’interesse principale è quello selle società costruttrici.
Sappiamo insomma che la rete autostradale è stata pagata con i nostri soldi, gestita dallo Stato fin quando non è stata grosso modo completata e quindi regalata ai “privati” perché potessero comodamente far soldi con i pedaggi, come moderni Ghino di Tacco autorizzati dallo Stato.
Un sistema che colloca i costruttori (dai palazzinari a Impregilo) come vero architrave del governo di questo paese.
Giustamente Potere al Popolo, nell’immediatezza della notizia, ha parlato della necessità di nazionalizzare la rete autostradale.
Sappiamo che questo non sarebbe ancora la soluzione del problema della sicurezza, perché tutte le strutture amministrative pubbliche costruite intorno al “business autostrade” sono completamente infettate dalla corruzione.
Ma nazionalizzare è la precondizione minima indispensabile per restituire al pubblico – all’interesse collettivo – il controllo delle infrastrutture, la manutenzione, la sostituzione ove necessario.
In queste ore il governo dice di aver avviato le procedure per il ritiro della concessione alla Società Autostrade (ora Atlantia). E’ la solita presa in giro per tutelare e perpetuare un sistema criminale. Ritirare la concessione e affidarla a qualcun altro non cambia assolutamente nulla.
Se il profitto è l’unica stella polare di qualsiasi impresa, allora è del tutto indifferente se l’impresa chiamata a gestire tratti di rete autostradale si chiami in un modo o in un altro. Il suo atteggiamento verso “la cosa” sarà identico, perché vede il momento del pagamento del pedaggio come l’unico obbiettivo da assicurare.
Nazionalizzare, insomma, significa cambiare completamente l’ordine delle priorità e degli interessi sociali.
Non sono questi “i politici” che possono o vogliono farlo.
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