Dopo aver incontrato Corbyn, il leader di Diem25 si appresta a vedere
Sanders per lanciare un'internazionale progressista che si contrapponga
ai populismi di destra. L'iniziativa, che a prima vista sembra
condivisibile, è velleitaria, senza radici e controproducente.
Impossibile riformare l'esistente su base cosmopolita, meglio la
proposta di rottura con l'UE teorizzata da Melenchon.
di Paolo Gerbaudo
Una
grande internazionale progressista, dagli Stati Uniti all’India,
passando per la Gran Bretagna e l’Italia. Questa la proposta altisonante
lanciata nelle ultime settimane dall’ex ministro delle finanze greco
durante il governo Tsipras, Yanis Varoufakis. Una proposta che vuole
controbattere a quell’Internazionale Nazionalista che Steve Bannon,
l’ideologo di Donald Trump, ha messo in moto negli ultimi mesi e che si
potrebbe concretizzare alle elezioni europee con un trionfo dell’estrema
destra: da Marine Le Pen, e Viktor Orban alla Lega di Matteo Salvini.
Quella di Varoufakis è un’iniziativa che a prima vista sembra
condivisibile, anche visti gli indubbi meriti del carismatico politico
greco nel costruirsi una nicchia nel dibattito mediatico, e nello
svelare i meccanismi perversi della governance europea in diversi suoi
libri di successo. Tuttavia questa proposta è la manifestazione più
lampante dei limiti di Varoufakis e della sua avventura politica: un
vero e proprio condensato di quello che la sinistra non dovrebbe fare
per rispondere all’avanzata dei Trump di tutto il mondo.
L’appello lanciato dalle pagine del quotidiano britannico di area liberal The Guardian e poi diffuso da varie testate internazionali, tra cui il manifesto
in Italia, vuol inserirsi in una fase storica che sembra incupirsi
giorno dopo giorno, con l’ondata del populismo di destra che sta
trionfando in diversi paesi, per ultimo in Brasile, con l’elezione del
neofascista Jair Bolsonaro, che promette minacciosamente di “fare
pulizia” della sinistra e dei movimenti popolari. Contro questi macabri
figuri che approfittano della crisi della globalizzazione per dare linfa
ad una agenda smaccatamente reazionaria, l’idea di Varoufakis è chiara:
prendere la direzione opposta e rivendicare un internazionalismo
cosmopolita, che vada all’attacco della xenofobia e dello sciovinismo
che sembrano dominare il discorso politico.
È pur vero che nel
suo appello Varoufakis annovera tra i nemici non solo i “fascisti”, ma
pure i “globalisti”. Usando quest’espressione, il fondatore del
movimento Diem 25, per la democrazia in Europa, intende chiarire che non
ci sono alleanze possibili con persone come Hillary Clinton e Tony
Blair. Tuttavia il suo discorso in fine dei conti propone un altro tipo
di globalismo. Un globalismo certo più votato a politiche
socialdemocratiche, come espresso nei continui riferimenti al New Deal
roosveltiano; ma comunque convinto che la soluzione ai problemi attuali
vada ricercata a livello globale, attraverso una riforma dell’esistente.
Perché secondo Varoufakis lo spazio globale, a partire dal livello
europeo, per passare al livello intercontinentale è l’unico luogo in cui
si possono cambiare veramente le regole e di conseguenza la politica.
“L'unico modo in cui i molti possono riprendere il controllo delle proprie vite, delle nostre comunità, delle nostre città e dei nostri
paesi è coordinando le nostre lotte lungo l'asse di un New Deal internazionalista.”
Quello che si suggerisce dietro le righe è che bisogna riformare
l’esistente, invece che farlo saltare e costruire qualcosa di
completamente nuovo, come proposto ad esempio da Melenchon con il piano B
che prevede l’opzione di un’uscita dai trattati dell’Unione Europea,
qualora non si riesca a cambiarli in maniera progressista.
Sicuramente
c’è del giusto nella proposta di Varoufakis. È vero che la
collaborazione internazionale è importante: per fare circolare capacità
politiche e idee; proprio come sta facendo Bannon sul lato opposto
dell’agone politico. Ma anche per avere alleanze utili una volta che
eventualmente si sia conquistato il potere e che tocchi fare i conti con
interessi delle oligarchie che niente cambi veramente: proprio quegli
interessi che si sono palesati in maniera plateale durante la crisi
greca del 2015 di cui Varoufakis è stato l’eroe mediatico. Certo
quell’“eventualmente” non è cosa da poco. Ed è proprio quello il punto
su cui casca l’asino dell’impresa di Varoufakis.
In linea con
tante iniziative promosse da Varoufakis negli ultimi anni, a
partire dal movimento Diem25, questa internazionale sembrata marchiata a
fuoco con l’atteggiamento velleitario della sinistra postmoderna e
l’insistenza della classe creativa, quella che una volta si sarebbe
chiamata la “classe media contemplativa” che è la sua base sociale,
rispetto alla bontà della globalizzazione. Si tratta di una visione che
gode di un certo sostegno presso ampie fasce dell’opinione pubblica
internazionale di stampo progressista. Ma pure di una visione che fino
ad oggi pare essere stata alquanto funzionale alla vittoria di Salvini e
soci, capaci ad ogni buona occasione di indicare i loro avversari come radical chic
o “champagne socialist”: un personale politico privilegiato e
autoreferenziale, senza comprensione delle difficoltà vissute da una
popolazione massacrata dalla crisi. E inviperita con le élite non solo
economiche ma anche intellettuali e culturali che Varoufakis
rappresenta.
La presenza mediatica che ha già costruito
Varoufakis negli ultimi anni, come scrittore di successo, ospite
televisivo e leader politico sicuramente gode di grande simpatia presso
le persone di credo progressista e di attitudine liberal, che ammirano
l’intelligenza e carisma del politico greco. Ma lo stesso non vale
necessariamente per un pubblico che tende ad accogliere con freddezza e
un po’ di fastidio chiunque venga percepito come portavoce delle élite
globali. Pensiamo ad esempio all’effetto che sortisce sul telespettatore
medio vedere Varoufakis che critica la finanziaria italiana su Rai News
24, dicendo che l’Italia “sta facendo il bimbo viziato” e dicendolo in
lingua inglese, quindi ponendosi automaticamente come altro rispetto alla
cultura del pubblico di riferimento. O ricordiamoci ancora come
Varoufakis non è uscito troppo bene da scontri con politici di destra in
Italia e altri paesi, come successo ad esempio nel duello televisivo
con Matteo Salvini a diMartedì su La7 nel maggio 2017.
Problemi
simili di mancanza di radicamento sociale che fa il paio con una
percezione di distacco dalla realtà sono visibili pure nel movimento
Diem guidato da Varoufakis. Diem si è contraddistinto per eventi
patinati, con presentazioni in stile Ted Talk tenute in piccoli teatri
alternativi dei grandi centri metropolitani, da Berlino, a Barcellona,
da Amsterdam a Milano, e con i palchi affollati da eroi
dell’intellighenzia radical come Slavoj Žižek, Brian Eno e Julian
Assange in diretta Skype. Con questo parterre e scenario questo
movimento si appella a un pubblico ben preciso la classe media creativa,
giornalisti, ricercatori, designer, persone impegnate nel mondo
dell’associazionismo e dello sviluppo internazionale, ma con scarso
appeal oltre questi settori.
Insomma più che l’associazione
internazionale dei lavoratori, come quella di Karl Marx, quella di
Varoufakis sembra l‘internazionale della società dello spettacolo;
un’internazionale alla disperata ricerca di riflettori e celebrities, ma
incapace – anche a causa della sua insistenza che l’unico vero
cambiamento può avvenire a livello europeo – di radicarsi a livello
nazionale o locale in movimenti capaci di vincere le elezioni.
Tali
contraddizioni si rivelano ulteriormente quando muoviamo lo sguardo
alle alleanze e i grandi preparativi in vista delle elezioni europee. Se
Varoufakis va in giro per il mondo a proporsi come il nuovo leader
dell’internazionale progressista, un Karl Marx redivivo, senza barba e
con la giacca di pelle da motociclista, in Europa si trova molto isolato
e piuttosto malvisto. La sua ambizione con Diem 25 era costruire il
“primo partito transnazionale” europeo. Ma è probabile che non riuscirà
a presentarsi come partito indipendente in nessun paese. Fatta
eccezione forse per la Grecia dove sta cercando di creare un movimento
chiamato MeRA25, fino ad ora con una eco piuttosto limitata stando agli
ultimi sondaggi.
Inoltre è in cattivi rapporti con molti altri
movimenti di sinistra europei e in particolare il cosiddetto patto di
Lisbona, l’alleanza siglata da Podemos di Pablo Iglesias, da France
Insoumise di Jean-Luc Melenchon, e dal Bloco de Esquerda portoghese di
Catarina Martins. Stiamo parlando di forze che hanno ottenuto tra il 10 e
il 20% nelle ultime elezioni, mica bruscolini, che contano nel loro
paese, in un solo paese da 3 a 8 volte i membri che Diem ha in 28 paesi
europei, e che godono di una presenza parlamentare significativa.
Invece
di cercare di trovare un’intesa con questa alleanza, lo scorso maggio
Varoufakis, ha chiesto a queste forze che esse entrassero in discussione
con l’alleanza alternativa che lui propone, chiamata Primavera Europea.
Si tratta di un’alleanza che esiste solo sulla carta visto che fino ad
oggi comprende il movimento Generation.S del socialista Benoit Hamon,
massacrato alle ultime presidenziali francesi, i polacci di Razem, e
poco altro. Non c’è quindi da sorprendersi se Podemos, France Insoumise,
e Bloco de Esquerda hanno risposto a Varoufakis dandogli forfait.
Questa
situazione ha conseguenze dirette anche per la politica italiana, visto
il protagonismo di Varoufakis negli ultimi mesi nel nostro paese e le
sue frequenti apparizioni a eventi, dibattiti, e collegamenti negli
studi televisivi. In Italia Diem si appresta a entrare nella nuova
“lista unitaria” per le elezioni europee, la quale dovrebbe riunire vari
pezzetti della sinistra reduce da un ciclo infinito di scissioni e
ricomposizioni temporanee a cui seguono immancabilmente nuove scissioni.
Questa lista dovrebbe comprendere il movimento DemA di De Magistris,
Sinistra Italia e Possibile che si sono appena dileguate da Liberi e
Uguali, Rifondazione Comunista, da poco uscita da Potere al Popolo, e
l’Altra Europa con Tsipras, la cui presenza servirebbe fondamentalmente
ad evitare di dover raccogliere firme.
C’è già chi chiama questo
listone unitario “L’Altra Europa Un’Altra Volta”, viste le similarità
con la lista capitanata simbolicamente da Alexis Tsipras che riuscí a
malapena a superare la barriera del 4% nel 2014. Una somiglianza che
rischia di essere resa più evidente dal protagonismo di Varoufakis, che
va a sostituire Tsipras nella parte del principe straniero progressista
venuto a salvare la sinistra italiana incapace di farcela da sola.
Questo tipo di presentazione potrebbe avere effetti molto negativi per
la nuova lista unitaria di sinistra. Dando tanto risalto al ruolo di
Varoufakis si rischia di darsi la zappa sui piedi dal punto di vista
comunicativo. Invece di neutralizzare Salvini e company, evitando di
fornire appigli alla loro narrazione. Persone come Varoufakis
costituiscono un perfetto bersaglio per la rappresentazione salviniana
della sinistra come una “buonista”, cosmopolita e “fighetta”, priva di
alcun contatto con la realtà.
Piuttosto che costruire le internazionali delle celebrità Twitter
dell’attivismo e intellettualismo progressista sarebbe forse meglio
pensare a radicarsi nella società, cominciando a costruire forze
coerenti a livello nazionale, che vengano riconosciute dai cittadini
come portatrici legittime delle loro istanze e che possano poi al
momento giusto di crescita allearsi con altre forze a livello
internazionale. Ma facendo calare la cosa dall’alto come una trovata
dell’intellighenzia della sinistra globalista si rischia di fare
solamente torto a queste forze e alla loro legittimità di fronte agli
occhi dei cittadini. Le internazionali, come quella dei lavoratori di
Marx sono per definizione alleanze tra forze radicate su base nazionale.
Quindi forse sarebbe meglio concentrarsi nel costruire queste forze,
come è già stato fatto in molti altri paesi in cui sono fioriti nuovi
partiti dopo la crisi: da Podemos in Spagna, a France Insoumise, al nuovo
Labour di Corbyn. Solo quando queste forze saranno giunte a maturazione
sarà il momento compiuto per cristallizzare un’alleanza a livello
globale. Per il momento la battaglia per costruire una nuova sinistra
post-crisi si deve fare soprattutto paese per paese. Perché volenti e
nolenti lo spazio nazionale è ancora lo spazio principale delle
identificazioni culturali, e dunque pure delle identità politiche.
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