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21/11/2018

La fiammata di Salvini per conto terzi

È un vero testa-coda l’attuale diatriba sugli inceneritori innescata dal governo del cambiamento in versione salviniana.

Forse aveva un senso, ancorché ampiamente controverso, 25 anni fa, quando il Paese doveva decidere la via per superare la discarica come prevalente meta dei rifiuti urbani e soprattutto il Nord, con capofila la Lombardia, imboccò l’incenerimento come soluzione. In realtà anche quell’orientamento fu tutt’altro che limpido nelle motivazioni: la nostra industria impiantistica si sarebbe ben guardata dal buttarsi in questa impresa, se non fosse stata sussidiata dai provvidenziali finanziamenti pubblici a pioggia, i famigerati Cip6 decisi dall’allora ministro Bersani, che regalarono pacchi di milioni di euro alla lobby dell’incenerimento, con la motivazione pretestuosa, poi smentita dall’Ue, che l’energia prodotta bruciando i rifiuti fosse rinnovabile.

Ma dopo vi è stata la direttiva Ue sui limiti delle PM10 nell’aria, regolarmente disattesi dalla Lombardia coni suoi inutili 13 inceneritori che emettono ossidi di azoto e quindi PM10 a manetta, con conseguenti sanzioni della Corte di giustizia europea; vi sono state le diverse Cop internazionali sui cambiamenti climatici e le evidenze drammatiche degli effetti devastanti anche nei nostri territori (ultimo il tornado che ha colpito diverse aree del Nord e della Lombardia abbattendo centinaia di migliaia di abeti rossi); vi sono state le direttive europee sull’economia circolare che hanno stigmatizzato l’incenerimento dei rifiuti come concorrente sleale del riciclo, incenerimento che quindi va disincentivato anche con penalizzazioni fiscali, invitando alcuni Paesi, compresa l’Italia, a ridurre il numero degli impianti già esistenti (e la Lombardia è ovviamente nel mirino).

Cosicché, oggi è fin troppo scontato ribadire che la soluzione per i rifiuti urbani è una politica incentrata sulla riduzione degli stessi (abolizione dell’uso e getta; obbligo del vuoto a rendere...), su una raccolta differenziata di qualità che può raggiungere, se gestita con cura, l’80% e quindi sulla rigenerazione dei materiali per dar vita a nuovi prodotti con il riciclo, la cosiddetta «economia circolare». In questo modo si riducono i consumi di combustibili fossili, si risparmiano materie prime e si abbattono le emissioni globali di gas serra e quelle locali di PM10 e altri inquinanti. Dunque, se c’è una carenza, in particolare al Sud ma non solo, è nell’impiantistica del riciclo, messa in evidenza quest’anno dal blocco deciso dalla Cina all’esportazione di scarti di plastica.

Ma allora perché questa inattesa ed intempestiva fiammata sugli inceneritori?

Il pretesto sarebbe stata l’ennesima emergenza nella «Terra dei fuochi». Ma in quei territori il problema ambientale e sanitario, ormai storico, non ha nulla a che fare con il ciclo dei rifiuti urbani, bensì con lo sversamento incontrollato di scorie e fanghi industriali tossici, transitati illegalmente via camorra, dal Nord verso il Sud. Gli stessi recenti incendi di impianti del riciclo appartengono ad un fenomeno che ormai non riguarda più solo il Sud, ma che si è dislocato sempre più al Nord, in particolare in Lombardia (Milano Brescia, Pavia), come ha certificato l’ultima riunione nella passata legislatura della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, del 17 gennaio 2018. I cittadini di Milano hanno ancora nelle narici i miasmi dell’enorme rogo di rifiuti incendio verificatosi in periferia il 15 ottobre scorso.

Ovviamente gli inceneritori non sarebbero comunque la soluzione per queste emergenze, semplicemente perché avrebbero comunque altre finalità, operando in un altro settore, quello dei rifiuti urbani.

Eppure saremmo degli sprovveduti se imputassimo tanta bagarre ad un banale svarione salviniano.

Una logica deve esserci e forse la si può scoprire se diamo uno sguardo al contesto. I primi mesi di questo «strano» governo hanno fatto esplodere gli appetiti di quell’economia parassitaria, sussidiata dallo Stato, che è tanta parte del macilento sistema italiano.

La vicenda delle concessioni autostradali, emersa con violenza dopo il crollo del Ponte Morandi, quell’altra paradigmatica del Tav Torino Lione con «madamine» al seguito e ora quella degli inceneritori sembra ascriversi allo stesso tema, antico come l’Italia: mungere soldi pubblici per fare business garantito ed al riparo dal mercato, a prescindere dall’interesse collettivo.

Nel business plan, si diceva anni fa, della lobby dell’incenerimento vi era la previsione di un inceneritore per ogni provincia, e qualcuno aveva dato garanzie, probabilmente, se ne ritroviamo oggi eco nelle dichiarazioni di Salvini. Poi l’affare si è arenato ed ora i signori degli inceneritori tornano a farsi sentire, vogliono riscuotere, trovando nello strano governo, fatto di maggioranza ed opposizione, interlocutori sensibili.

Ma il cambiamento di cui ha bisogno il Paese è ben altra cosa.

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