Mentre il Governo inizia a calare le braghe sulla dimensione della manovra, proviamo in questo contributo a tenere alta l’attenzione sul contenuto della stessa, focalizzandoci sugli interventi previsti in materia fiscale.
Transitata nei meandri del convulso dibattito politico che ha preceduto la finanziaria di settembre, la cosiddetta flat tax, nome in codice propagandistico della riforma fiscale voluta dal governo, è infatti entrata nella Legge di bilancio in modo fortunatamente assai ridimensionato, depotenziando fortemente la sua stessa natura costitutiva. Al momento, data la transitorietà della stessa manovra finanziaria sottoposta ad una prima bocciatura dell’UE e quindi ad un iter di probabile modifica, non sappiamo se la riforma fiscale disegnata sarà davvero definitiva. Possiamo però limitarci a capirne la sostanza e a svelare, ancora una volta, la natura miserevole del dibattito che si è scatenato attorno a tale misura.
Dal mito dell’aliquota unica su tutti i redditi al 15% propagandato dalla Lega in campagna elettorale, si era al principio passati all’idea di una tassa duale con doppia aliquota al 15% fino a 75.000 euro e al 20% oltre tale soglia. Nella legge di bilancio, invece, appare una misura assai diversa, ovvero un’estensione del già esistente regime forfettario riservato ai redditi indipendenti (di lavoro autonomo o di impresa) dalla soglia di 30.000 di fatturato alla soglia di 65.000. Incerto, ma probabile, l’ampliamento del regime alla fascia da 65.000 a 100.000 euro con un’aliquota del 20% a partire però dal 2020. Insomma niente flat tax, ma una pallida flataxina o, meglio ancora, una mera modifica quantitativa del regime forfettario. Ma di cosa si tratta?
Il regime forfettario è una delle numerose anomalie del sistema fiscale italiano che prevede che redditi da lavoro autonomo o d’impresa entro una determinata soglia (ad oggi 30.000 euro di fatturato) sfuggano al regime ordinario improntato a progressività e basato su redditi effettivi e vengano invece tassati tramite un’aliquota proporzionale agevolata (attualmente al 15% che scende al 5% per i primi 5 anni di attività) e sulla base di redditi presunti calcolati come differenza tra ricavi e costi stimati e non effettivi.
La soglia massima prevista che delimita il regime forfettario descrive il fatturato e non il reddito e quindi, a seconda del tipo di settore economico, può discostarsi più o meno profondamente dal reddito effettivo. Per il calcolo dei costi si stabilisce una stima, per l’appunto forfettaria, di questi ultimi a seconda del settore di pertinenza. Per il commercio ad esempio si applica il 40%, ovvero si stima che mediamente in tale settore il 40% del fatturato sia utile al lordo delle imposte; mentre al reddito di alcuni professionisti (avvocati, commercialisti, docenti, giornalisti etc.) si applicano percentuali più alte e variabili tra il 60% e l’80% circa a seconda del settore. Il regime esclude infine l’applicazione di detrazioni, ad esempio per familiari a carico, che abbassano l’imponibile, previste invece nel regime ordinario.
È importante ricordare che il regime forfettario per i redditi indipendenti più bassi ha risposto negli ultimi anni, almeno in parte, ad una situazione sociale esplosa come risultato della crisi economica, da un lato, e dello smantellamento del diritto del lavoro, dall’altro. Si tratta della proliferazione di una doppia schiera di figure di lavoratori precari: da un lato i falsi lavoratori autonomi che lavorano a partita IVA ma hanno rapporti di lavoro schiettamente dipendente o parasubordinato occultato dietro un rapporto formale di collaborazione; dall’altro, veri lavoratori autonomi che vivono in condizioni di oggettiva subalternità e precarietà, spesso soggetti espulsi dal mercato del lavoro come dipendenti, che, in tempi di alta disoccupazione, si sono reinventati attività di emergenza e sopravvivenza, in molti casi schiavi di rapporti di mono-committenza, o piccole attività economiche a conduzione individuale o familiare in crisi strutturale da molti anni. Tutti questi soggetti non sono ovviamente inquadrati nel diritto del lavoro tradizionale e, similmente ai colleghi del lavoro dipendente precario e destrutturato (fuori dai contratti a tempo indeterminato), non godono di diritti elementari come la malattia e le ferie retribuite. A ciò si aggiunge la presenza di un’aliquota contributiva interamente a loro carico che pesa per il 25%-28% del reddito, non essendovi un datore di lavoro effettivo o riconosciuto come tale che ne versi i due terzi, circostanza che nel regime ordinario farebbe lievitare la somma dell’aliquota fiscale più quella contributiva a loro carico fino al 40%-50% anche per redditi bassi o medi. Da qui la “pezza” posta dal forfettario che abbassa l’aliquota fiscale di diversi punti compensando l’elevata aliquota contributiva.
Al netto della sua funzione di tampone di un’emergenza sociale, è innegabile tuttavia che il sistema forfettario è di per sé fonte di numerose iniquità anche entro soglie massime più basse di quelle previste dalla riforma attuale. Se si adotta, infatti, come bussola la difesa della progressività delle imposte, va visto negativamente qualunque tentativo di omogeneizzare i redditi, anche se bassi o medi, sotto il cappello di un’aliquota unica e di separare diverse tipologie di reddito, dipendente e autonomo, nel loro trattamento.
Tuttavia, è soprattutto il previsto innalzamento della soglia in quanto tale ad avere una chiara implicazione redistributiva regressiva e quindi una natura di classe specifica. Entro una soglia di 30.000 euro infatti – ricordando che la cifra fa riferimento al fatturato e non al reddito – rientrano redditi autonomi o falso-autonomi tendenzialmente bassi o medio-bassi. Immaginiamo che ad un fatturato di 30.000 corrisponda un reddito effettivo di 20.000 euro. Al netto delle imposte pagate, il 15% con il regime forfettario, e della quota contributiva che il lavoratore autonomo paga per intero (25-28%) il reddito netto diventa pari a 12.000 euro annui, ovvero 1.000 euro al mese. Ammettendo anche che il reddito al netto dei costi sia più elevato e prossimo ai 30.000 in caso di costi quasi nulli, si arriverebbe al limite ad un reddito di circa 1.500 mensili. Parliamo insomma di redditi bassi o medio-bassi per lo più riconducibili ad attività da lavoro dipendente mascherate o ad attività da lavoro indipendente precarie e destrutturate.
Elevare la soglia a 65.000 e poi addirittura a 100.000 significa invece fare riferimento a redditi mensili netti di 2.500/3.000 euro e, nel caso della soglia superiore, anche 4.000/5.000 euro al mese. Un altro mondo! Non certo le grandi fortune capitalistiche sia chiaro, ma redditi comunque medio-alti. Redditi da lavoro autonomo e di impresa, una parte dei quali, per la stessa tipologia di attività svolta e per la presenza dell’uso di forza lavoro dipendente, iniziano a configurarsi non più come redditi da lavoro indipendente esprimibili in varie forme, ma, almeno in parte, come redditi da capitale veri e propri. Il discrimine è certamente difficile da porre ed è una difficoltà insita nella stessa natura delle piccole attività autonome nel sistema economico capitalistico. È però chiaro che esistono determinate tipologie di lavoro autonomo che per scarsissima propensione accumulativa, tipologia di mercato di riferimento o per caratteristiche intrinseche all’attività stessa che si configura come precaria, sono oggettivamente assimilabili, nel loro ruolo sociale ed economico essenzialmente subalterno, al mondo del lavoro e danno luogo a redditi assimilabili a redditi da lavoro vero e proprio; altre tipologie invece, basate su più consistenti investimenti in capitale, uso di forza lavoro dipendente o comunque alta capacità accumulativa, rientrano a pieno titolo entro i redditi da capitale, ovvero i profitti.
L’elevazione della soglia a 65.000 euro, e in modo più evidente a 100.000 euro, finisce così per spostare l’asticella del vantaggio fiscale verso una parte dei redditi da capitale, assimilando in una stessa famiglia livelli di reddito estremamente eterogenei risultato di un amalgama assai composito e di difficile lettura di soggetti sociali che vanno dal falso autonomo al lavoratore autonomo precario e discontinuo, alla piccola impresa in crisi, al professionista con reddito medio-alto, al piccolo imprenditore che produce utili di calibro non indifferente.
Va infine ricordato che il regime forfettario in quanto tale dà luogo ad un’iniquità interna al sistema tra soggetti che hanno costi di attività eterogenei ma che rientrano nella stessa stima forfettaria; e ad un’iniquità enorme tra soggetti che rientrano per poco entro la soglia massima e soggetti che la superano di poco e il cui reddito finisce per intero (e non per la sola eccedenza) nel regime ordinario rompendo così ogni logica di progressività graduale. L’estensione del regime a soglie maggiori rischia peraltro di favorire in modo parossistico l’evasione fiscale nonché il maggior ricorso al lavoro falso-autonomo da parte delle imprese che avrebbero buon gioco nello spingere i dipendenti, ora anche quelli con redditi più elevati, a scambiare i diritti tipici del lavoro dipendente con le minori imposte garantite alle partite IVA.
Si può quindi considerare la riforma del governo regressiva e iniqua per numerosi motivi già radicati nel regime forfettario in quanto tale, ma fortemente aggravati dal suo allargamento a soglie più alte.
Chiarito questo, va ricordato che la vera flat tax, il sogno leghista che avrebbe trasformato l’Italia in una sorta di paradiso fiscale per i capitali riducendo di 10 punti la tassazione su tutti i grandi redditi da capitale e portando al 15% la tassazione anche per redditi milionari, grazie al cielo non è stata affatto applicata. Troppo costosa per rispettare i paletti dell’austerità che l’attuale governo si guarda bene dal violare anche quando ciò andrebbe a vantaggio di ricchi e capitalisti.
L’aspetto paradossale è che di quell’incubo iper-liberista proposto da Salvini e accoliti, l’opposizione più liberista al governo liberista 5stelle-Lega, capeggiata da PD e Forza Italia, i più realisti del re, rivendica oggi proprio l’aspetto potenziale più odioso, rimproverando al governo di aver escluso le medie e grandi società dai vantaggi fiscali. Non è un caso che il Partito democratico si sia a più riprese vantato di aver alleggerito la già esistente flat tax sulle società di capitale (l’IRES, imposta sulle società di capitale) nel 2017 di tre punti, e non è un caso che i più celebri organi di stampa che riportano la voce delle grandi imprese rimarchino con disappunto il fatto che dalla finanziaria del governo pentaleghista uscirebbe una tassazione persino lievemente maggiore per le grandi società. Nella riforma fiscale infatti è stata prevista l’abolizione della cosiddetta ACE promossa dal governo Monti, ovvero la detassazione completa del 3% di profitto ottenuto sul capitale investito considerato profitto “minimo” normale e dunque inteso come una sorta di costo opportunità; nonché l’abolizione dell’IRI prevista dal governo Gentiloni a decorrere dal 2019, ovvero una vera e propria flat tax al 24% estesa a tutte le imprese, senza limiti di fatturato, e concessa nei limiti degli utili non distribuiti e trattenuti in azienda. Tali misure, fortemente favorevoli alle grandi imprese e alle società di capitale, in quanto prive di soglie limite, verranno ora sostituite sia dalla già spiegata estensione del regime forfettario alla soglia di 65.000/100.000 euro sia, per le società di capitali, da una detassazione parziale, meno favorevole dell’ACE, delle quote di utili usate per investimenti o assunzioni di nuovi lavoratori. Passaggi che sono stati mal digeriti dai liberisti più realisti del re.
È evidente che i dissapori tra maggioranza e opposizione sulla riforma fiscale risuonano semplicemente come l’ennesimo miserevole scontro tra simili liberismi, diversi solo per scala e per il mix di soggetti sociali rappresentati, ma identici negli obiettivi di fondo incentrati sulla riduzione della progressività, generosi regali ai ricchi e l’esclusione dei poveri e dei lavoratori da ogni possibile beneficio.
Contro tutto questo, bisogna rivendicare una revisione completa e generale del sistema fiscale in senso progressivo e a favore del lavoro: detassazione intensa di tutti i redditi da lavoro bassi e medio-bassi, di qualunque natura essi siano; aumento della tassazione su tutti i redditi elevati a partire da quelli da capitale, reintegrando nella logica della progressività tutti quei redditi che ad oggi ne sono esclusi per mero privilegio (redditi finanziari, redditi da affitto di immobili, redditi di società di capitali); rafforzamento intenso della scala della progressività gravemente ridotta dagli anni ’80 in poi; seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale che implica un pieno controllo dei movimenti di capitale all’estero. Una linea complessiva possibile solo fuori dall’austerità finanziaria e fuori dai ricatti imposti dalla libera circolazione di merci e capitali resa cogente dai trattati europei, che produce come suo logico meccanismo una spietata concorrenza al ribasso su salari, diritti e normative fiscali.
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