di Roberto Prinzi
Qualche giorno fa
venti rifugiate siriane nella città libanese di Arsal (al confine con la
Siria) hanno abortito inaspettatamente. I sospetti sono subito caduti
sull’acqua inquinata: l’infrastruttura nell’area è stata danneggiata lo
scorso mese a causa delle pesanti piogge che hanno colpito il Paese dei
Cedri e che hanno distrutto le tende in cui vivono i rifugiati (circa
100mila nella zona).
Le condizioni umanitarie dei siriani in Libano – un milione
ufficialmente, oltre 1,5 milioni nella realtà, più di uno ogni 4
libanesi – destano da anni le preoccupazioni delle organizzazioni
umanitarie e dell’Unhcr. Guardati con sospetto, quando non con astio, da
molti libanesi perché ritenuti fardelli sociali che gravano su un Paese
che già annaspa (non ha ancora un governo e ha un debito pubblico pari a
più del 150% del Pil) ed emarginati dalle autorità locali che sui loro
corpi costruiscono consenso politico, gran parte dei rifugiati siriani sono considerati in Libano «non-persone».
Possono lavorare in certi settori (edilizia e agricoltura),
ma devono ottenere dei permessi se vogliono essere impiegati in altri
settori. Facile a dirsi, quasi impossibile averli: il 73% di loro non ha
i permessi di residenza necessari a ottenere quelli di lavoro.
Per anni il problema è stato bypassato lavorando illegalmente.
Ovviamente a un prezzo elevato: nessuna sicurezza e tutela da parte dei
datori di lavoro e, soprattutto, salari bassi che hanno scatenato la
rabbia di molti lavoratori libanesi che si sentono scavalcati dalla
manodopera a basso costo siriana.
E se per anni sono stati mal digeriti dal mondo politico locale, ora
che la guerra siriana sembra delineare un quadro più chiaro con il
governo siriano vittorioso, l’atteggiamento di Beirut si è fatto
molto più intransigente. L’obiettivo – più volte ripetuto dal ministro
degli esteri a interim Bassil – è «riportarli a casa». E nei fatti
diverse migliaia di loro (si stima tra le 55mila e le 90mila) sono già
tornati in Siria.
Se una parte lo ha fatto volontariamente, molti altri sono
stati di fatto costretti a ritornare a causa delle politiche delle
autorità libanesi. Beirut usa il pugno di ferro sapendo bene i
rischi dell’operazione: a inizio mese Moin Merehbi, il ministro ad
interim libanese per gli affari dei rifugiati, ha detto che almeno venti rifugiati sono stati uccisi da Damasco una volta tornati a casa.
Ma il timore dei siriani è anche rappresentato dai gruppi jihadisti e salafiti attivi nelle aree in cui un tempo vivevano.
Unhcr e governi occidentali hanno più volte ribadito che è troppo
presto per discutere un loro ritorno su larga scala dato che non ci sono
ancora le condizioni di sicurezza per poterlo effettuare. Appelli che
però cadono nel vuoto all’interno del cinico mondo politico libanese.
E se il Paese dei Cedri vive da sei mesi una impasse politica a causa
dei suoi settarismi, la mano della repressione prosegue a pieno regime.
Poco importa: dopo tutto qui si tratta di «non-persone».
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