Le sorti di Mohammed bin Salman non sono mai state tanto altalenanti:
segna un punto e poi ne subisce uno. Ma è uomo da mille risorse e in
tasca ha sempre una carta vincente. Prima la decisione della Germania di
interrompere la vendita di armi verso Riyadh, annunciata dalla
cancelliera Merkel nelle passate settimane in risposta al delitto
Khashoggi. Lunedì il governo tedesco ha ufficializzato la
sospensione, con un “ma”: non riguarderà gli ordigni fabbricati in
Sardegna dalla tedesca Rwm perché in quel caso le esportazioni
sono autorizzate dall’Italia, bombe che – come dimostrato da report
internazionali – vengo usate in Yemen e sono state responsabili di
attacchi contro i civili.
Un punto perso. Poi, ieri è spuntato Trump. Il presidente
statunitense ha dichiarato senza troppo remore che resterà sempre
al fianco della famiglia reale saudita, anche se responsabile del
brutale omicidio del giornalista dissidente, ucciso lo scorso 2
ottobre nel consolato di Riyadh a Istanbul. Una responsabilità certa,
secondo la Cia, che la scorsa settimana ha concluso che il mandante
dell’assassinio è stato Mohammed bin Salman, nonostante i palesi
tentativi della petromonarchia di individuare comodi capri espiatori.
“Le nostre agenzie di intelligence continuano a darci tutte le
informazioni – ha scritto Trump – ma è molto probabile che il principe
ereditario fosse a conoscenza di quel tragico evento. Forse lo ha fatto,
forse no. Detto questo, potremmo non sapere mai tutti i fatti
relativi all’omicidio di Jamal Khashoggi. In ogni caso la nostra
relazione è con l’Arabia Saudita”.
Insomma, seppur si sia trattato di “un crimine
inaccettabile”, il presidente degli Stati Uniti lo accetta e resta al
fianco di uno dei pilastri della sua politica anti-iraniana in Medio
Oriente. Difficile farne a meno, dice lo stesso Trump, che
spiega la sua posizione con lo slogan “America first”, sia in termini
commerciali che diplomatici: “Gli Stati Uniti intendono rimanere un
partner saldo dell’Arabia Saudita per garantire i nostri interessi,
quelli di Israele e dei nostri alleati nella regione”. Meglio
sacrificare – cosa in cui Trump è un maestro – qualsiasi parvenza di
legalità internazionale e di moralità nella gestione del potere.
A rispondergli per prima è Karen Attiah, caporedattrice del Washington Post:
“Le dichiarazioni di Trump sull’Arabia Saudita sono piene di bugie e
del palese disprezzo per le nostre agenzie di intelligence. Mostra inoltre un imperdonabile disprezzo per le vite dei sauditi che osano criticare il regime”.
Ovvero, quei sauditi che ieri sono stati il cuore dell’ultimo
rapporto di Amnesty International che, citando alcuni testimoni, ha
accusato Riyadh di utilizzare in modo sistematico tortura, violenze
sessuali e trattamenti disumani contro attivisti per i diritti umani
detenuti nel paese. Gli attivisti, scrive Amnesty, di cui
alcune donne, sono torturati con l’elettricità e la fustigazione nella
prigione di Dhahban, a Gedda. Alcuni di questi “non sono più in grado di
camminare o stare in piedi normalmente”. Un altro è stato appeso al soffitto, un’altra è stata abusata da uomini con indosso delle maschere.
Una detenuta ha tentato il suicidio più volte.
L’organizzazione non ha rivelato i nomi delle persone
coinvolte, ma ha fatto riferimento a detenuti portati a Gedda a maggio.
Tra loro alcune note attiviste per i diritti delle donne e attivisti per
i diritti umani, come Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e
Aziza al-Yousef (note per la campagna per il diritto delle donne a
guidare l’auto), Samar Badawi, Nassima al-Sada, Mohammad al-Rabe’a e
Ibrahim al-Modeimigh.
“A poche settimane dallo spietato omicidio di Khashoggi – dice Lynn
Maalouf, direttrice di Amnesty per il Medio Oriente – questi rapporti
choc su torture, abusi sessuali e altre forme di maltrattamenti, se
verificati, portano alla luce l’oltraggiosa violazione dei diritti umani
da parte delle autorità saudite”.
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